La parabola ascendente di Giannis Antetokounmpo nel basket oltreoceano è un evento più unico che raro. La storia di un ragazzo cresciuto in mezzo a mille difficoltà, che ha colto in un talento innato la sua ancora di redenzione, la quale lo ha portato nel corso dell’ultimo decennio a traguardi sensazionali. Due volte MVP, campione NBA 2020/21, tutti risultati conseguiti con la stessa casacca, quella dei Milwaukee Bucks. Quella maglia, diventata la sua seconda pelle, è da sempre espressione delle speranze di un popolo. Quello che lo ha accolto nel lontano 2013.
Colui che dopo il titolo lo ha definitivamente consegnato al tavolo delle grandi leggende della franchigia del Wisconsin.
Dietro il giocatore d’acciaio, si nasconde tuttavia il profilo di una personalità profonda, che si scopre fragile di fronte alle grandi gioie e agli ineluttabili dolori che la vita riserva.
Questo e altro è emerso nella splendida conversazione intrattenuta con Zach Baron di GQ Sports.com.
Luglio 2021. I Milwaukee Bucks conquistano il loro secondo titolo, dopo una agonia durata ben cinquant’anni. Phoenix si arrende di fronte a una squadra indomabile, che fa della stella greca la sua punta di diamante. Antetokounmpo firma in gara sei,una prestazione leggendaria: 50 punti con 16 su 25 al tiro, impreziositi da 14 rimbalzi e 5 stoppate.
Il Fiserv Forum è un tripudio. I giocatori esplodono di gioia, Budenholzer si prende la sua personale rivincita,su che lo aveva etichettato come coach da regular season. La festa può iniziare.
Giannis viene travolto dall’affetto dei compagni e del coaching staff. Tuttavia trova modo di dileguarsi e trovare nel fragore generale, un momento per sedersi e riflettere su l’impresa appena compiuta.
I pensieri vanno tutti in direzione del padre, morto nel 2017, che in Giannis ha lasciato un vuoto difficile da colmare.
“Amico, abbiamo fatto molta strada. Vorrei che tu fossi qui per vedere questo. Per favore guardami”.
Parole che testimoniano il grado di riconoscenza della stella greca, consapevole degli sforzi e dei sacrifici, operati per garantire a lui e ai suoi fratelli una vita migliore.
Un percorso iniziato nella situazione più complessa da gestire. Essere un migrante in un quartiere popolare, come quello di Sepolia, a nord di Atenee. La famiglia Antetokounmpo vive di piccoli lavoretti e incassi originati dalla vendita di prodotti contraffatti.
Talvolta gli affari rendono le interminabili ore di lavoro, ma spesso il denaro non è sufficiente nemmeno per garantirsi un pasto decoroso.
In aggiunta non mancano i classici atteggiamenti di scherno razziale, frequenti nelle periferie malfamate. La moglie di Charles, nonostante tutto, da al mondo cinque bambini, consapevole del carico di responsabilità che avrà per ognuno di essi.
Tutto questo emerge, esternato in fiume di lacrime, nella mente di Antetokounmpo, subito dopo la vittoria dell’anello.
“La squadra, tutti si sono riuniti quando hanno capito che avevamo vinto, e subito il coach è venuto a prendermi. Se andate a vedere il video. Il coach è venuto e mi ha afferrato e io l’ho spinto via. Sono andato dalla mia famiglia. Ho abbracciato mia madre, ho abbracciato i miei fratelli, ho abbracciato la mia futura moglie, ho abbracciato mio figlio. E pensare che sei mesi prima di arrivare nella NBA, vendevo roba per strada. Mia madre era al mercato. Io andavo ad aiutarla. La gente non lo sa, ma l’ho fatto”
Emozioni, che in parte derivano anche da uno sforzo fisico davvero lodevole.
Il greco ha giocato tutte le 6 partite delle Finals, sciorinando energia da tutti pori, riuscendo a mascherare tutti i problemi fisici riscontrati durante la serie. Labbra diventate viola, conati di vomito e crampi.
Ad esempio al termine di gara 4:
“Ero nudo, avevo solo il mio asciugamano. Ero sdraiato sul tavolo dell’allenatore e gli chiesi se poteva darmi un cestino. Ho vomitato cinque volte”
Dopodiché, lo staff medico dei Bucks, somministrò due flebo nell’arco di poche ore. Il greco era fortemente disidratato.
Umiltà e etica del lavoro
Dopo l’ennesima prova di forza, questa volta concretizzata nella conquista del titolo, è normale ergersi a volto copertina di una franchigia, e perché no di un’intera lega. D’altronde lo sportivo odierno, non è altro che un brand. Un immagine da tutelare e promuovere in giro per il globo. Antetokounmpo ne è perfettamente consapevole, ma preferisce tenersi racchiuso nel suo bagno di umiltà. Fare bene il proprio lavoro, e lasciare agli altri le luci della ribalta.
“Non voglio essere il volto della lega. Voglio giocare una grande pallacanestro. Dopo di che, se sparisco nella notte, bene. Non parlate nemmeno di me, non ricordatevi di me. Non mi interessa.”
E proprio il lavoro è il punto forte dell’All-Star dei Bucks, termine che fa capo al concetto di etica.
Il greco è talmente ossessionato dalla sua professione, da dedicare giorno e notte, anche nei post partita, alla pratica in palestra. Il riposo è quindi un termine quasi del tutto estraneo.
Milwaukee è dovuta correre ai ripari, istituendo un vero e proprio lockout per impedire l’accesso alla struttura di allenamento, da parte di Antetokounmpo.
Il cestista di origini nigeriane si è poi ingegnato costruendo una palestra nella propria abitazione, così da aggirare la restrizione. Insomma un etica irrefrenabile, che va oltre qualsiasi ostacolo, anche di tipo emotivo.
Infatti nel 2017, alla notizia del padre, Giannis è andato avanti ad esercitarsi. Più forte del dolore. Più forte di tutto.
“Alla morte di mio padre sono andato in palestra. Lui era lì con me. Ho tentato di non provare dolore perché sento che ogni volta che i miei genitori lo hanno provato, non lo hanno mai mostrato. Ma poi ho dovuto abbattere le barriere sentimentali piangere e rendermi conto”.
Il rinnovo coi Bucks e la prossima sfida: “Chissà, lontano da Milwaukee”
Appena un anno fa, tutti si interrogavano sul futuro del numero 34.
Contratto in scadenza ed ennesima brutta uscita ai playoffs. Le contendenti non mancavano, prima su tutte Miami, che era pronta a formare un trio spaziale Antetokounmpo-Adebayo-Butler. Andare via era dunque la soluzione più semplice.
Giannis però è un combattivo di natura e ha deciso di rimanere nonostante mezza lega gli avesse consigliato di provare una nuova avventura.
A posteriori una scelta quanto mai azzeccata, con la franchigia guidata da Mike Budenholzer, trionfatrice della stagione seguente.
“Tutti mi mandavano messaggi: ‘Lascia la squadra’”,alcuni dopo essere rimasto non mi hanno più parlato. È ovvio che voglio giocare con i migliori giocatori; vorrei che KD fosse nella mia squadra, non contro di me. Vorrei che LeBron fosse nella mia squadra, non contro di me. Steph, nella mia squadra (…) Ho scelto di rimanere qui anche con tutta la pressione perché è più facile andarsene. Questa è la cosa più facile da fare. È semplice andarsene”.
Con uno sguardo al futuro, esso si affaccia più che mai aperto che mai. Lo stesso giocatore ammette che tra un paio d’anni le strade tra lui e i Bucks potrebbero separarsi. Fino ad allora Giannis continuerà comunque a portare con impegno e attaccamento la bandiera della squadra del Wisconsin. Come del resto ha sempre fatto.
“Una sfida era portare qui un campionato e l’abbiamo fatto. È stato molto difficile, ma ci siamo riusciti.[ Adoro le sfide. Qual è la prossima? La prossima sfida potrebbe non essere qui”. Io e la mia famiglia, per ora abbiamo scelto di rimanere in questa città che tutti amiamo e che si è presa cura di noi. Tra due anni, questo potrebbe cambiare. Sono totalmente onesto con voi. Sono sempre stato onesto. Amo questa città. Amo questa comunità. Voglio aiutarla il più possibile”.