Quando si pensa ad una squadra da titolo vengono in mente formazioni incentrate su grandi stelle; i Boston Celtics di Bill Russell e quelli di Larry Bird, i Los Angeles Lakers di Magic&Kareem e quelli di Kobe&Shaq, i Chicago Bulls di Michael Jordan e i Miami Heat di LeBron James. Oppure si pensa a franchigie capaci di mettere in piedi un vero e proprio ‘sistema’ (i San Antonio Spurs su tutti, forse un giorno anche i Golden State Warriors) in grado di mantenerle ininterrottamente ai vertici per molto tempo, a prescindere dai giocatori disponibili.
Eppure, nello scorso decennio, i Detroit Pistons fecero qualcosa di inaudito, che non si può allineare né con l’una, né con l’altra categoria; il più improbabile gruppo di giocatori dell’era moderna si trasformò in un’autentica corazzata, capace di dominare per anni la Eastern Conference e di conquistare la più inaspettata delle vittorie.
Sul finire degli Anni ’90, con l’epoca d’oro dei Bad Boys ormai lontana, la franchigia attraversava un periodo nero. La presenza di un fuoriclasse come Grant Hill non era sufficiente per fare strada nel ‘selvaggio Est’ di quel periodo.
Durante l’era-Hill, i Pistons avevano abbandonato i classici colori bianco-rosso-blu, indossando invece delle sgargianti divise con tanto di cavallo fiammante, in perfetto stile nineties. Viste le continue delusioni, con l’arrivo del nuovo millennio era ormai inevitabile una rivoluzione, sia dal punto di vista societario e di roster, che sul piano estetico.
Il primo, fondamentale passo fu compiuto nell’estate del 2000, quando il ruolo di general manager fu affidato al grande Joe Dumars, ritiratosi l’anno precedente dal basket giocato.
L’ex pilastro dei Bad Boys mise immediatamente a segno una mossa piuttosto controversa, che si rivelerà però determinante per la ‘rinascita’ della squadra. Grant Hill fu infatti ceduto agli Orlando Magic, con una sign-and-trade che portò nella ‘Motown’ Chucky Atkins e Ben Wallace. Se il primo diverrà semplicemente un onesto giocatore di rotazione negli anni a venire, ‘Big Ben’ fu invece il primo tassello per la costruzione dei nuovi, grandi Pistons.
Wallace è la prima spiegazione alle parole “improbabile gruppo di giocatori”, utilizzate qualche riga fa.
Tanto strabiliante fisicamente (muscoli, capelli, accessori e atteggiamento da guerriero Masai), quanto ‘grezzo’ (enorme eufemismo) a livello tecnico, Ben era entrato nella NBA dalla porta di servizio: il suo nome, infatti, non era stato pronunciato in nessuna delle 60 chiamate al draft 1996.
Dopo aver provato invano a trovare posto alla Viola Reggio Calabria (!), Wallace riuscì a strappare un contratto con i Washington Bullets, che di lì a poco diventeranno Wizards.
Nella capitale, il ragazzone dalla pettinatura afro non lasciò un segno indelebile, tanto che fu spedito ad Orlando senza particolari rimpianti. Aveva però mostrato buone cose dal punto di vista difensivo; nonostante fosse decisamente sottomisura per lo standard dei centri NBA (206 cm), Ben aveva sviluppato eccellenti abilità di rimbalzista e stoppatore. Nel primo anno a Detroit, con indosso quelle casacche Anni ’90 prossime al pensionamento, Wallace chiuse al primo posto nella lega per rimbalzi totali, secondo in percentuale solo a Dikembe Mutombo.
Nonostante l’importante aggiunta, i Pistons non raggiunsero i playoff. Dumars cacciò prontamente il vecchio allenatore George Irvine e diede la panchina a Rick Carlisle, ex compagno di Bird nei grandi Celtics, al primo ruolo da head coach in carriera. La fine del vecchio corso fu sancita anche dal ritorno ai colori originali, con l’introduzione delle maglie che accompagneranno la squadra nei gloriosi anni successivi.
Carlisle diede subito una scossa alla squadra, riportandola ai playoff nel 2002. Dopo aver superato i Toronto Raptors, Detroit si arrese ai sorprendenti Boston Celtics della star emergente Paul Pierce. Il coach non fu però l’unico artefice dell’ottima stagione dei suoi; ‘Big Ben’ Wallace venne infatti premiato come Defensive Player Of The Year, dominando incontrastato sotto tutti i tabelloni d’America. Niente male, per un undrafted!
Significativo fu anche l’apporto in uscita dalla panchina dell’ala Corliss Williamson, che si aggiudicò il titolo di sesto uomo dell’anno.
Il leader di quei Pistons era Jerry Stackhouse, detto ‘Stack’. Arrivato nella lega con l’ingombrante – quanto inopportuna – etichetta di ‘nuovo Michael Jordan’ (entrambi furono allievi di Dean Smith a North Carolina), Stack si era rivelato un ottimo partner per Grant Hill. A Detroit, però, bisognava fare piazza pulita, perciò il numero 42 seguì Hill nell’elenco dei ‘sacrificati illustri’ di Joe Dumars. Nell’estate del 2002 fu spedito ai Wizards, in cambio di un pacchetto che comprendeva, tra gli altri, la giovane guardia Richard ‘Rip’ Hamilton.
Il tiratore da UConn, che con il ritorno sul parquet di Jordan aveva visto il suo minutaggio in drastico calo, fu solo la ciliegina sulla torta di quella che, di fatto, fu la off-season che cambiò per sempre la storia della franchigia.
Con la ventitreesima chiamata al draft, Dumars e soci riuscirono a pescare una vera e propria gemma: l’ala piccola Tayshaun Prince. Cresciuto nella famigerata Compton, il sobborgo più degradato di Los Angeles, Prince aveva trovato fortuna dall’altra parte degli States, diventando la stella dei Kentucky Wildcats e, a tempo perso, laureandosi in sociologia.
Un altro gran colpo fu piazzato con la scelta numero 32, con la quale venne selezionato il centro turco Mehmet Okur.
Infine, la free-agency portò nel Michigan Chauncey Billups, un altro (come Ben Wallace) su cui nessuno era pronto a scommettere.
Billups era uno di quei giocatori ad avere collezionato più squadre che stagioni in tutta la carriera NBA. Draftato dai Celtics nel 1997, aveva iniziato un vorticoso tour degli USA: dopo Boston fu la volta di Toronto, Denver, Orlando e Minneapolis. Ai Timberwolves, Chauncey ebbe finalmente un po’ di spazio, ma un salary cap intasato dal sontuoso contratto di Kevin Garnett non permise alla società di trattenerlo.
Come in una trama hollywoodiana, tutti quei ‘rinnegati’ incrociarono le loro strade nella Motown, dove avrebbero scritto insieme il più imprevedibile dei finali.
Billups ed Hamilton si ambientarono molto velocemente nella nuova squadra, prendendo subito in mano le redini del gioco. Chauncey si guadagnò il soprannome ‘Mr. Big Shot’ per la sua tendenza a segnare canestri decisivi (i più celebri contro Golden State e Atlanta), ‘Rip’ chiuse la regular season come miglior realizzatore di squadra. Ancora una volta, però, l’assoluto trascinatore fu ‘Big Ben’ Wallace. Il guerriero in maglia numero 3 prima fu convocato all’All Star Game, poi conquistò per la seconda volta consecutiva il premio come miglior difensore. Facile immaginare qualche piccola dedica a tutti i GM che lo avevano snobbato nel 1996…
Più difficoltoso fu invece l’inserimento di Prince, per il quale coach Carlisle non riusciva a trovare un ruolo. Con l’arrivo dei playoff, però, la ‘pantera’ in maglia numero 22 si fece trovare pronta.
I Pistons disputarono una grandiosa stagione regolare, chiudendo con il miglior record ad Est. Con la testa di serie numero 8, i loro avversari al primo turno furono gli Orlando Magic, guidati da un Tracy McGrady all’apice della carriera.
Quando T-Mac scaricò nel canestro dei Pistons 43 e 46 punti nelle prime due gare della serie, Carlisle cominciò a nutrire l’idea di cambiare qualcosa nelle rotazioni. Dopo che Orlando si portò sul 3-1, l’idea divenne per forza di cose concreta. A partire da gara-5, provò ad affidare a Prince la marcatura di ‘The Big Sleep’. L’esperimento funzionò alla grande; non solo Tayshaun ‘limitò’ la star dei Magic (che chiuderà comunque la serie con 31.7 punti di media), ma si rivelò anche una preziosissima arma offensiva, suggellando la rimonta dei suoi con una gara-7 da 20 punti in 24 minuti.
Prince fu determinante anche al turno successivo contro i Philadelphia 76ers di Allen Iverson e di coach Larry Brown (di cui i Pistons sentiranno nuovamente parlare molto presto), battuti in sei partite. La corsa degli uomini di Carlisle fu interrotta bruscamente alle finali di Conference, dove i New Jersey Nets di Jason Kidd si imposero con un sonoro 4-0.
Malgrado l’ottimo risultato ottenuto, la posizione di coach Carlisle era tutto tranne che salda. Dumars, così come alcuni giocatori, non vedevano di buon occhio la sua mancata propensione a valorizzare i giovani del roster (Prince su tutti). Oltretutto, il coach dei Sixers Larry Brown pareva ad un passo dal lasciare Philadelphia, con diverse squadre impegnate in una corte serrata per aggiudicarsi i servigi del maestro.
Quando Brown, già campione NCAA con Kansas nel 1988, annunciò la sua intenzione di accettare la proposta dei Pistons, Dumars lo accolse a braccia aperte. Carlisle passò invece agli Indiana Pacers, continuando una splendida carriera di allenatore che si coronerà nel 2011, anno in cui guiderà al titolo NBA i Dallas Mavericks.
Il primo impegno di Brown con la nuova squadra fu il draft 2003, in cui i Pistons avevano un appuntamento col destino.
Nel 1997, in una delle classiche combinazioni di eventi che finiscono per decidere le sorti delle franchigie coinvolte, Detroit spedì Otis Thorpe ai Vancouver Grizzlies in cambio di una futura prima scelta. Con somma frustrazione degli ex-canadesi (trasferitisi nel 2001 a Memphis), quella scelta sarebbe stata la seconda assoluta in uno dei 2-3 migliori draft di sempre.
Il beffardo destino, però, a volte dà e a volte prende… Dopo che i Cleveland Cavaliers fecero la più scontata delle prime scelte chiamando LeBron James, fu la volta di Dumars e soci, che chiamarono… Darko Milicic!
Bene, se si pensa che il centro serbo aveva iniziato a giocare a soli 16 anni, e appena diciottenne era già approdato in NBA; male, molto male invece, se si vanno a leggere i nomi dei giocatori che i Pistons lasciarono andare. Avete mai sentito parlare di tali Carmelo Anthony, Dwyane Wade e Chris Bosh?
Mentre i tre appena citati muovevano i primi passi di una carriera da superstar, Milicic finì ben presto sul fondo della panchina, senza mai riuscire a dare un senso alla scelta della dirigenza. Al momento della stesura di questo pezzo, risulta che il buon Darko si stia occupando di frutta e verdura nelle assolate campagne serbe (davvero!), dopo dieci anni passati sulle panchine di sei diverse squadre NBA.
Sebbene avessero gettato al vento un’occasione così ghiotta (cosa sarebbero stati quei Pistons con ‘Melo’ è uno dei più evidenti dubbi da sliding doors della storia della lega) gli uomini di coach Brown erano pronti a spiccare il volo. Il nuovo allenatore riuscì ad incastrare perfettamente ogni pezzo del puzzle (Darko escluso, ovviamente). Per fare il tanto auspicato salto di qualità, però, si dovette aspettare la trade deadline di febbraio, quando nel Michigan approdò un’ala grande tanto talentuosa quanto ‘problematica’, di nome Rasheed Wallace.
Fin dai tempi del liceo, il quasi omonimo di ‘Big Ben’ aveva mostrato un repertorio tecnico fuori dal comune. Praticamente ambidestro, aveva movenze uniche per un giocatore della sua stazza (208 cm, due in più dello stesso Ben, centro ‘atipico’ dei Pistons), che lo avevano reso di fatto un antesignano di quelli che oggi vengono chiamati stretch four (i lunghi capaci di aprire il campo con i loro tiri da fuori, alla Kevin Love, per intenderci). Allo stesso tempo, si era contraddistinto per gli atteggiamenti ‘sopra le righe’ e per una particolare insofferenza verso gli arbitri: più volte, nel corso della sua carriera, replicherà ad alcuni fischi da lui non condivisi con la celeberrima frase “Ball don’t lie!” (secondo alcuni “la palla non mente!”, secondo altri “palla, non mentire!”).
‘Fiorito’ alla University of North Carolina sotto l’egida del maestro Dean Smith (lo stesso coach che, molti anni prima, era stato il mentore di Larry Brown), di cui era diventato un pupillo, Rasheed aveva incontrato parecchi ostacoli sui suoi primi passi da giocatore NBA.
Chiamato con la quarta scelta al draft 1995 dai Washington Bullets, Wallace aveva trovato spazio solamente dopo l’infortunio della star Chris Webber, ma si era a sua volta fratturato un dito, finendo anzitempo la stagione da rookie.
Con il suo ruolo già coperto da C-Webb e dall’altro ex Fab Five di Michigan Juwan Howard, ‘Sheed’ fu ceduto ai Portland Trail Blazers, non certo la squadra giusta per un ragazzo ‘esuberante’ come lui.
Quella formazione (ricordata con il poco nobile soprannome di ‘Jail Blazers’), seppur molto valida tecnicamente, comprendeva elementi effettivamente “da galera”: Isaiah Rider (arrestato per l’ennesima volta per possesso di cannabis a soli due giorni dal debutto con Portland), Qyntel Woods (altro consumatore abituale, messosi però ‘in mostra’ soprattutto per aver organizzato lotte clandestine tra pitbull), Ruben Patterson (accusato di violenza sessuale) e il suo ‘avversario sul ring’ Zach Randolph (i due furono protagonisti di una rissa in allenamento).
In un contesto del genere, l’irrequieto Wallace cascava come il pecorino sull’amatriciana, peggiorando ulteriormente la sua non ottima reputazione. Dall’asciugamano in faccia al grande Arvydas Sabonis (che, anche per questo, lasciò la squadra poco dopo) ai rapporti tesi con l’allenatore Mike Dunleavy, fino alle minacce nei confronti di un arbitro, che costarono a Rasheed una sospensione di sette partite. La situazione, a Portland, degenerò in breve tempo, e i ‘Jail Blazers’ vennero smantellati.
Al suo arrivo a Detroit (dopo aver giocato una sola partita con la maglia degli Atlanta Hawks), Wallace fu messo subito in guardia da Joe Dumars: se avesse continuato con i falli tecnici (di cui è tuttora recordman assoluto) e con le sciocchezze fuori dal parquet, sarebbe stato ceduto senza alcun problema. Il monito fu (almeno in parte) raccolto, e Rasheed divenne da subito una pedina fondamentale della squadra.
Con il talento di ‘Sheed’ unito alla regia e alle penetrazioni di Billups, ai canestri di Hamilton (ancora una volta top scorer dei suoi), all’inesauribile energia di Ben Wallace e all’esplosione di Prince, i Pistons potevano contare su una starting lineup eccezionale. Dalla panchina si alzavano Mike James e Lindsey Hunter (ribattezzati ‘Pitbulls’ per la loro difesa aggressiva), Corliss Williamson e la coppia Mehmet Okur–Elden Campbell a far rifiatare i due Wallace. Coach Brown aveva finalmente la ‘fuoriserie’ perfetta. Chiusa la regular season con il terzo record ad Est ed eliminati Bucks, Nets e i Pacers di Rick Carlisle, i Pistons raggiunsero le NBA Finals 2004.
Lo scontro con i Los Angeles Lakers di Phil Jackson si presentava come il più classico dei ‘Davide contro Golia‘, con le due parti in gioco che rappresentavano al meglio le anime delle due città; da un lato Detroit, squadra operaia e senza fuoriclasse che faceva del duro lavoro collettivo la propria forza, dall’altra le tante, troppe star di L.A..
Troppe, sì, perché su quei Lakers si potrebbe scrivere un libro (anzi, è già stato scritto: si chiama The last season: a team in search of its soul, e l’autore è nientemeno che lo stesso Coach Zen… Un autentico ‘vaso di pandora’).
Presentatosi come assoluti favoriti per il titolo dopo tre vittorie nelle precedenti quattro stagioni e con i super-veterani Karl Malone e Gary Payton aggiunti in estate, i gialloviola erano tuttavia arrivati per miracolo alle finali, spaccati in due dalla faida interna tra Kobe Bryant e Shaquille O’Neal e con il contratto di Jackson (oltre che dello stesso Kobe) in scadenza, ed erano chiaramente sul punto di implodere.
Il risultato di quelle Finals, assolutamente impronosticabile ad inizio stagione, fu persino troppo generoso nei confronti dei californiani, alla luce di quello che accadde sul campo. I Pistons si mangiarono letteralmente gli avversari. Mettendo sul parquet il triplo della loro energia, riuscendo in qualche modo a contenere la furia di Shaq (impeccabile il lavoro su di lui di Ben Wallace e dell’insospettabile Elden Campbell) e il talento di Kobe (‘curato a vista’ da Tayshaun Prince) e mettendo in mostra una pallacanestro dannatamente efficace, Detroit schiantò i Lakers con un netto 4-1. Solo un gran canestro di Bryant in gara-2 negò ai Pistons il meritatissimo sweep.
Dopo una gara-5 dominata dall’inizio alla fine, grazie a dei superlativi Prince e ‘Big Ben’, coach Brown alzò il Larry O’Brien Trophy, diventando il primo allenatore a vincere sia il titolo NCAA che quello NBA (nello stesso momento, il proprietario Bill Davidson divenne l’unico owner della storia sportiva americana a vincere nello stesso anno il titolo in due diverse discipline, avendo già trionfato in Stanley Cup con i Tampa Bay Lightning della NHL!). Chauncey Billups, miglior solista di quello splendido coro, fu eletto Finals MVP. In casa Lakers, invece, ebbe inizio un’estate piuttosto complicata…
Dopo il fragoroso trionfo, per Larry Brown arrivò una cocente delusione alle olimpiadi di Atene quando, alla guida di Team USA (ribattezzato in seguito ‘Nightmare Team’) mancò clamorosamente la medaglia d’oro, portandosi invece a casa il bronzo più indesiderato della storia dei Giochi.
I Pistons si presentarono al via della nuova stagione come la squadra da battere L’addio di Shaq in direzione Miami aveva inoltre escluso L.A. dalla corsa al titolo, aumentando ulteriormente le chance di back-to-back per Detroit.
L’inizio di regular season fu però segnato da una delle pagine più brutte della storia NBA. Il 19 novembre, al Palace Of Auburn Hills c’erano gli Indiana Pacers. A pochi minuti dal termine di una partita ormai stravinta dalla squadra ospite, un duro fallo di Ron Artest su Ben Wallace diede il via ad una furibonda rissa, che degenerò ulteriormente quando Artest, colpito da un bicchiere, si precipitò sugli spalti (seguito a ruota da alcuni compagni) per malmenare alcuni spettatori. Le conseguenze peggiori di quell’ignobile episodio (spettatori esclusi, ovviamente) furono soprattutto per Indiana, che si ritrovò con mezza squadra squalificata per innumerevoli partite, ma anche ‘Big Ben’ fu fermato per sei gare.
Il cosiddetto ‘Malice At The Palace’ non fu l’unico motivo di fermento in casa Pistons. Durante la stagione si susseguirono le voci che volevano coach Brown (non nuovo a queste situazioni) sul punto di lasciare la Motown, se non addirittura già in contatto con diverse altre franchigie.
Malgrado tutto, Detroit si confermò finalista , guidata da un Ben Wallace di nuovo miglior difensore dell’anno. Dopo aver chiuso la Eastern Conference con il secondo piazzamento i Pistons superarono indenni i playoff, in cui incontrarono anche (al secondo turno) gli stessi Pacers di quella maledetta serata di novembre.
Alle Finals, Larry Brown si trovò di fronte l’amico Gregg Popovich, suo ‘discepolo’ e assistente ai tempi di Kansas, nonché head coach dei San Antonio Spurs. Durante il periodo delle finali, i due allenatori furono visti più volte a cena insieme. Per entrambi, quella sfida aveva certamente un significato in più.
Le Finals del 2005 furono tra le più intense e combattute di sempre. Un’incredibile tripla di ‘Big Shot’ Robert Horry decise gara-5, portando la serie sul 3-2 per San Antonio. Tornati in Texas, ‘Sheed’ e compagni ricambiarono la vittoria esterna, forzando una gara-7 che non si vedeva dal 1994 (quando Houston superò New York).
Uno strepitoso Manu Ginobili e il solito, monumentale Tim Duncan (MVP della serie) regalarono partita e titolo agli Spurs; per la squadra di coach Brown rimase solo l’onore delle armi.
Poche settimane dopo, una volta accertati i suoi contatti con altre squadre (a quanto pareva, lo stesso LeBron James gli aveva chiesto di diventare presidente dei Cavs), Brown venne licenziato. Passò ai New York Knicks, e al suo posto arrivò nel Michigan Flip Saunders, ex ‘timoniere’ dei Minnesota Timberwolves.
Il nuovo allenatore diede un’ulteriore spinta alla squadra, che disputò la miglior regular season della sua storia. Al miglior record di franchigia (64-18), si unirono le soddisfazioni dell’All Star Game. Nell’edizione 2006, infatti, ben quattro giocatori dei Pistons (Billups, Hamilton e i due Wallace) furono inclusi nella formazione della Eastern Conference, guidata in panchina da Saunders. Manco a dirlo, ‘Big Ben’ fu di nuovo incoronato miglior difensore stagonale (terzo premio in carriera).
Superati Bucks e Cavaliers ai playoff, la corsa dei Pistons si interruppe alle finali di Conference, dove i Miami Heat di Shaq e di ‘Flash’ Wade (futuri campioni) si imposero per 4-2.
Sebbene la squadra fosse costantemente ai vertici ormai da anni, la corazzata che aveva portato il titolo NBA nel 2004 cominciò a perdere i primi pezzi.
Il colpo più duro fu l’addio di Ben Wallace, anima e cuore del gruppo, il quale, diventato free-agent, decise di accasarsi ai Chicago Bulls. Per sostituirlo fu ingaggiato l’ex-Spur Nazr Mohammed, poi, a gennaio fu chiamato nientemeno che Chris Webber, il grande capitano dei Sacramento Kings degli anni d’oro, di ritorno nell’amato (e natio) Michigan.
Con C-Webb nel ruolo di ala grande e Rasheed Wallace utilizzato spesso come centro, Detroit giocò meglio di quanto avesse mai fatto negli anni precedenti, conquistando il miglior record ad Est.
L’ormai classico appuntamento con le Conference Finals mise i Pistons di fronte ai Cavs di ‘King’ James. Dopo aver perso le prime due partite al Palace, LeBron e compagni si scatenarono (memorabili i 48 punti di LBJ in gara-5) vincendone quattro di fila, mandando a casa la truppa di Saunders e avviandosi al doloroso ‘cappotto’ nelle Finals contro San Antonio.
Con la fine del glorioso ciclo ormai imminente, la stagione 2007/08 (cinquantenario dell’arrivo dei Pistons a Detroit) rappresentava l’ultima speranza per chiudere in bellezza. Nel frattempo, però, a Boston erano nati i nuovi ‘Big Three’ dei Celtics. Kevin Garnett e Ray Allen si erano uniti a Paul Pierce, con l’obiettivo dichiarato di riportare il titolo ai biancoverdi dopo ventidue anni di astinenza.
Senza più Webber, ma con gli interessanti innesti (via draft) di Rodney Stuckey e Arron Afflalo, i Pistons si confermarono tra le big della costa atlantica, raggiungendo per il sesto anno consecutivo le finali di Conference.
Gli avversari furono proprio i Boston Celtics che, con i ‘Big Three’ coadiuvati dal geniale playmaker Rajon Rondo, si rivelarono troppo forti per gli ormai ‘anziani’ Pistons. Gli uomini di Doc Rivers chiusero la serie in sei partite, mantenendo poi le promesse di vittoria nelle Finals contro i Lakers. Al termine di gara-6, ‘Sheed’ affidò ai media poche, quanto efficaci parole: “It’s over, man…”.
In effetti, il 2008 fu il ‘canto del cigno’ di quella grandissima squadra. Coach Saunders non rifirmò, Chauncey Billups fu spedito ai Denver Nuggets in cambio di un Allen Iverson ormai in declino, che sarebbe oltretutto diventato free-agent a fine stagione. L’anno successivo, dopo che Detroit fu spazzata via da Cleveland al primo turno, anche Rasheed salutò definitivamente.
Cominciò così una lunga e faticosa ricostruzione che soltanto adesso, a quasi un decennio di distanza, sta mostrando i primi risultati.
Le maglie che diedero inizio al quel periodo di straordinari successi sono tuttora indossate dai Pistons, nella speranza che, un giorno, lo spirito di quella indimenticabile squadra possa tornare a vivere.
Quella formazione non aveva nessun Michael Jordan o Magic Johnson, ma ‘solo’ ottimi giocatori con una gran voglia di riscatto. Di certo non era il frutto di un sistema destinato a durare nel tempo (anzi, i Pistons di un paio di anni fa erano una delle squadre peggio gestite di sempre), eppure riuscì a raggiungere traguardi incredibili, andando oltre qualsiasi pronostico e rimanendo ai vertici per gran parte dello scorso decennio, infiammando i cuori della Motor City e ritagliandosi un posto d’onore nella lunga e gloriosa storia del basket NBA.