Due penisole che si incontrano, sdraiate sul grande lago già tradotto dal Cheyenne, anzi diciamo pure americanizzato perchè dire semplicemente inglesizzato è dire poco e che da appunto il nome pure allo stato. In fondo i grandi artisti rubano e si sa che anche in questo gli americani non sono secondi a nessuno. Due penisole appunto, senza però pensare al clima caldo, quindi le spiagge, l’ombrellino nel drink e la palma, le quali non trovano cittadinanza da queste parti. Piumino pesante e copertina di plaid in più sono all’ordine del giorno, anche perchè se si guarda a Nord scavallando il lago Michigan siamo diretti in Canada.
Il clima freddo rende fredde pure le persone, oltre che le città, e per “freddo” non si intende solo il clima, bensì anche l’atmosfera e l’aria che si respira. Detroit è, come penso perfettamente sappiate, una delle città più pericolose di tutti gli Stati Uniti, dove le bande urbane sono la prima identificazione criminale. La città è addirittura fallita nel 2013 non riuscendo più a ripagare le obbligazioni municipali emesse per un valore totale di 18 miliardi di dollari ed il quale fallimento ha portato anche ad una svalutazione immobiliare, tanto che si vociferava di case vendute ad appena un dollaro.
Spostandoci oltre la solita Detroit la scenografia non cambia: a Flint, per esempio, vialoni lucenti e casette monofamiliari con prato davanti e dietro, c’è la più alta vendita di armi da fuoco di tutto il paese, con un numero di armi da fuoco superiore al numero di abitanti, tendenza denunciata in una trasposizione cinematografica dall’immenso (in tutti i sensi) Michael Moore nel film “Bowling for Columbine”.
Lo stato suole presentarsi così, difficile da nascerci e difficile da viverci.
BASKET
Sui 28 metri di parquet, invece, si va sul sicuro: il Michigan è uno degli stati con la più alta concentrazione di talento allevato ed emigrato grazie alle tante squadre vincenti presenti al suo interno.
Ad East Lansing, due curve a gomito da dove Magic Johnson ha mosso i suoi primissimi passi, si staglia l’enorme e inconfondibile campus di Michigan State, il vero e proprio regno di Coach Tom Izzo che dal 95 è ancora lì ad urlare ai suoi giocatori. Una leggenda vera e propria. Nel 2000 vince il secondo titolo universitario della storia degli Spartans (il primo nel ’79 con Magic al timone) con in squadra Morris Peterson, poi conosciuto come “Mo” quando diventerà una delle bocche di fuoco dei Toronto Raptors insieme a Vincredible, Charlie Bell ed il tre volte campione della gara delle schiacciate Jason Richardson.
Coach Izzo è un vincente che non ha mai fatto registrare una stagione negativa in 21 anni e trasmette questa voglia di vincere a tutti i suoi giocatori e di Giocatori con la G maiuscola ne ha sfornati tanti. Draymond Green è l’anima degli Warriors già campioni NBA nel 2015, Valentine è stato selezionato dai Bulls all’ultimo Draft ed oltre ai già citati Peterson (a cui comunque hanno ritirato il numero di maglia), Bell e Richardson possiamo buttare sul piatto nomi come Shannon Brown e Eric Snow. Ma Michigan State non è solo Tom Izzo, bensì molto di più. Prima dell’irruente coach, sulla panchina degli Spartans sedeva Jud Heathcote che dal ’76 insegnava pallacanestro ai suoi discepoli. La partita che mise per sempre gli Spartans sulla mappa del gioco è quella finale del ’79 quando i ragazzi di Heathcote batterono gli Indiana State guidati dal funambolo locale Larry Bird, grazie alle prodezze di Magic Johnson, Greg Kelser e Jay Vincent.
Si disegna così la storia di una delle università più importanti del panorama cestistico a stelle e striscie, che da il via ad una serie di giocatori, forse irripetibili, che dal Michigan hanno preso il volo: Chris Webber ha frequentato, fortuna sua, una High School chiamata Detroit County Day. Se il nome dell’High School invece che essere dedicata ai vari Abramo Lincoln, Martin Luther King o Jefferson, viene messo qualcosa come “Prep” o “County Day” sappiate che quella è una delle scuole più “fighette”, passatemi il termine, di tutta la città, fatta essenzialmente da ragazzi bianchi con la riga in testa e la camicia dentro i pantaloni. Sua madre lo caricava in un autobus tutte le mattine pur di garantirgli un’istruzione adeguata. Un’ora ad andare ed un’ora a tornare tutti i dannati giorni. Solo che Chris era lungo oltre che lucido e molto sveglio. Il basket sembrava disegnato per lui, dandone prova dominando lungo i parquet statali. Uno così non si può perdere per strada e decise quindi di stare vicino a mamma ed amici andando a completare il meraviglioso “FAB 5” dei Michigan Wolverines, insieme a Jalen Rose, Juwan Howard, Jimmy King e Ray Jackson. Due volte giunsero alla finale NCAA e due volte persero, ma portarono all’interno del mondo collegiale un diverso modo di essere e vivere come una superstar, condendo il tutto con la musica Hip Hop, la sbruffoneria e le calze nere, roba che ancora non si era vista nel college basketball.
PISTONS
Non si può non passare dai Pistons della seconda metà anni 80/inizi 90. Che squadra sono quei Pistons? Sono un misto tra la sbruffoneria e la cattiveria dei Miami Hurricanes del college Football, con al volante la prima reincarnazione di Pistol Pete Maravich schiusosi in un funambolo da Bloomfield in Indiana e dei compagni/sgherri che potrebbero essere presi pari pari da un qualsiasi film d’azione che si rispetti. Ovviamente il funambolo è Isiah Thomas e gli sgherri sono Bill Laimbeer, Adrian Dantley, Joe Dumars e Mark Aguirre. Quest’ultimo addirittura beccato a conversare in panchina con un telefonino portatile.
Una squadra così non poteva non vincere ed infatti per due volte consecutive si siederà sul tetto del mondo, grazie anche alle idee di Coach Chuck Daly, che testerà fino al limite la pazienza di Michael Jordan. Invecchieranno spegnendosi tecnicamente uno ad uno e subiranno delle brutte sconfitte fino a sfaldarsi. I Pistons non saranno più gli stessi fino a quando sul pino di Detroit non siederà il professore con gli occhiali Larry Brown.
Una volta Ben Wallace disse: “Questa città è una città di colletti azzurri, gente che si alza la mattina per andare a lavorare tutto il giorno nelle fabbriche e nelle aziende. Così dobbiamo essere noi, duri e tosti.” Quando un gruppo di ragazzi milionari sente la vicinanza dell’ambiente circostante, soprattutto quando questo ambiente è di uno status sociale completamente diverso, non si può NON fare il tifo.
Nel 2004 il capolavoro: Detroit disintegra una squadra che non doveva perdere come i Lakers di Bryant, Shaq, Malone e Payton coronandosi campioni NBA.
Ogni volta che Ben Wallace prendeva un rimbalzo, infliggeva una stoppata o andava a schiacciare il Palace of Auburn Hills si riempiva del rintocco delle campane. Big Ben era tutta Detroit: un giocatore mai scelto dalla NBA, che ha migrato per il mondo (visto anche a Reggio Calabria dove testimoni oculari mi dissero che col basket aveva molto poco a che fare ma era talmente grosso da oscurare il sole) e che alla fine dopo tanti sacrifici, ha trovato la sua terra promessa, un po’ come Chauncey Billups, un po’ come Detroit stessa ed un po’ come Larry Brown, che in quella stagione voleva mollare più e più volte perchè non vedeva i suoi ragazzi in campo giocare “in the right way”, nel modo giusto. Ha tenuto duro fino alla fine, figlio di una famiglia ebraica newyorkese e di una testa che non lo ha mai lasciato in pace, ma che col suo carisma ha convinto il Platone del basket Rasheed Wallace, che quel gruppo era il posto giusto per lui, uno che quando sopraggiunse un grosso problema d’acqua a Flint caricò un enorme Tir di acqua potabile e guidando nella notte ha macinato chilometri pur di farla arrivare in tempo al mattino dopo
Detroit ti entra dentro, come il basket entra dentro la pelle degli abitanti del Michigan che da sempre rimane uno degli stati dove questo gioco che amiamo tanto viene visto come una sorta di religione.
Chapeau.