Il 28 febbraio 2013, la guardia dei Minnesota Timberwolves Alexey Shved stava rientrando da un timeout con uno sguardo alquanto rabbuiato. Non era per niente soddisfatto di una prestazione fin lì mediocre su uno dei palcoscenici più prestigiosi al mondo: lo Staples Center di Los Angeles. D’un tratto, gli si avvicinò un compagno di squadra, Ricky Rubio, che riservò al russo il più prezioso dei consigli: “Change this face! Be happy! Enjoy!”.
Non a caso il playmaker spagnolo, specialmente nei suoi primi anni NBA, richiamava perfettamente il tipo di approccio al gioco di colui che, prima e più di tutti, aveva ridefinito i concetti di ‘divertimento’ e di ‘spettacolo’ nel basket professionistico americano: il leggendario ‘Pistol’ Pete Maravich.
La tormentata carriera NBA di Maravich fu piuttosto breve e avara di risultati, sia individuali che di squadra; non fu mai un MVP e mai riuscì a giocare la serie finale. Lasciò però un segno indelebile nella storia del gioco, cambiandone per sempre la percezione e influenzando le generazioni successive, quelle dei Magic Johnson, degli Steve Nash e dei Jason Williams, fino ad arrivare a quella di Rajon Rondo e, per l’appunto, di Ricky Rubio. Ciò che Pete Maravich mostrò sul campo, non lo aveva mai visto nessuno.

Pete Maravich in maglia Atlanta Hawks
Nato ad Aliquippa (un sobborgo di Pittsburgh, Pennsylvania) da una famiglia di origine serba, Peter Press Maravich aveva preso il secondo nome dal bizzarro nomignolo del padre, Petar, che da giovane vendeva per strada le copie del quotidiano Pittsburgh Press. Maravich senior aveva disputato un paio di stagioni da professionista tra la NBL e la BAA, le due leghe che, nel 1949, si uniranno per dare vita alla National Basketball Association. La sua fama era però dovuta all’arrembante carriera da allenatore, iniziata nei piccoli atenei della West Virginia e proseguita nelle più prestigiose Clemson e NC State, tra South e North Carolina.
Appena il figlioletto Pete fu grande abbastanza, ‘Press’ iniziò ad istruirlo ossessivamente sui fondamentali della pallacanestro. Al termine degli estenuanti allenamenti quotidiani, un Maravich già ‘ribelle’ si fermava a lungo per provare e riprovare alcuni trucchetti (palleggi incrociati, finte, passaggi dietro la schiena) che, in seguito, gli avrebbero regalato un’enorme fama.
Il suo talento emerse già ai tempi delle scuole superiori, cambiate più volte al seguito del lavoro paterno. In quegli anni gli affibbiarono il soprannome ‘Pistol’ per la sua particolare meccanica di tiro, effettuato partendo dall’anca, come se stesse estraendo una pistola. Più che il suo rilascio (che peraltro lo rese un’inarrestabile macchina da canestri), a catturare l’attenzione degli scout era lo stile di gioco unico del ragazzo, sempre pronto a infiammare la platea con qualche ‘effetto speciale’. Se da una parte il pubblico andava in visibilio, dall’altra avversari e allenatori erano tutt’altro che contenti della spavalderia di Maravich, che sembrava ‘provocarli’ ad ogni azione. Persino il mitico John Wooden, allenatore degli invincibili UCLA Bruins, suggerì a Maravich senior di ‘rimettere in riga’ il figliolo (quanto di più lontano potesse esserci dai preconcetti del ‘Mago di Westwood’) per evitare che la continua ricerca del colpo ad effetto ne rovinasse la carriera.
‘Press’ si diceva però sicuro che, con quei ‘giochi di prestigio’, Pete sarebbe diventato il più grande cestista d’America. Negli anni che precedettero l’arrivo del figlio al college, diede sfoggio delle sue grandi doti persuasive per arrivare al suo obiettivo finale: allenare la squadra di ‘Pistol’. Prima ne parlò con i responsabili del settore cestistico di Louisiana State University i quali, ben felici di assecondare i suoi piani, gli offrirono il posto da head coach. Quindi riuscì a convincere il giovane – inizialmente allettato dall’opzione West Virginia – anche attraverso due stratagemmi semplici, ma efficaci: gli comprò un’auto nuova e lo minacciò di cacciarlo di casa in caso di rifiuto. Alla fine, Pete cedette: nel 1966 firmò per LSU.

Pete Maravich ai tempi di LSU
All’epoca, il regolamento NCAA prevedeva che le matricole giocassero un torneo a parte. ‘Pistol’ Pete trasformò la sua prima stagione a Baton Rouge nel suo show personale, chiuso con 43.6 punti di media. Nell’incontro d’esordio mise a referto 50 punti, 14 rimbalzi e 11 assist contro Southeastern Louisiana. Quando finalmente arrivò in prima squadra scatenò la sua furia anche al piano superiore, rendendo i Tigers competitivi (anche se non riuscirono mai a qualificarsi per il torneo NCAA, che allora ammetteva molte meno squadre) e guadagnandosi una travolgente attenzione mediatica. Chiuse la triennale carriera universitaria (le statistiche della stagione da rookie non venivano considerate) a 44.2 punti di media, e rimane tuttora il più grande realizzatore della storia della Division I. Tutto questo ben prima che fossero introdotti il cronometro dei 24 secondi (quindi con un numero di possessi di gran lunga inferiore agli standard attuali) e il tiro da tre punti (Maravich era un ottimo realizzatore dalla media-lunga distanza). Il numero 44, quello della sua media realizzativa, fece la sua comparsa sulla maglia di ‘Pistol’ non appena quest’ultimo debuttò tra i professionisti.
Già, perché nel 1970, dopo essere stato nominato National Player Of The Year, Pete Maravich era pronto per il grande salto. Fu selezionato dagli Atlanta Hawks con la terza chiamata assoluta in un draft che comprendeva ben otto futuri hall of famers (tra cui Dino Meneghin, il quale – scelto sempre dagli Hawks – decise di rimanere in Europa). L’arrivo tra i professionisti di Pete era accompagnato da enormi aspettative, viste le roboanti cifre con LSU. Ciononostante, la NBA non era affatto pronta per quanto stava per succedere.

Pete Maravich con la divisa casalinga degli Hawks usata tra il 1970 e il 1972
Chioma ribelle e calzettone blando alla caviglia, Maravich divenne ben presto una vera e propria ‘icona pop’, nonché uno dei testimonial più contesi da svariati brand. Le arene di mezza America si gremirono di spettatori ansiosi di vedere con i propri occhi gli slalom, i tiri in acrobazia, le alzate no-look a tutto campo e i passaggi dietro la schiena, dietro la testa e tra le gambe dello smilzo con la maglia blu e verde numero 44. Lo stile funambolico di ‘Pistol’, come già successo al college, rinfoltì anche la schiera dei suoi detrattori. Gli avversari, come racconterà Pat Riley in un documentario di ESPN, “cercavano di abbatterlo ogni volta che faceva passare la palla tra le gambe”, mentre gli arbitri furono letteralmente spiazzati da alcune giocate che non sapevano se sanzionare o meno come infrazioni (una volta, Pete si lamentò con un direttore di gara dicendo: “Non puoi fischiare su una cosa che non avevi mai visto!”).
Anche i compagni si rivelarono piuttosto insofferenti per l’eccessivo numero di tiri che Pete si prendeva in ogni partita, ma fu soprattutto la questione salariale a rendere complicati i primi passi del ragazzo tra i professionisti. Cavalcando l’onda dell’immensa popolarità acquisita dalla ‘Grande Speranza Bianca’ al college (persino Bob Dylan, spettatore occasionale, venne incantato dalle sue prodezze, tanto da dedicare al cestista, in seguito alla sua scomparsa, la canzone Dignity), il proprietario degli Hawks, Tom Cousins, decise di ‘blindarlo’ con un faraonico contratto da 1.9 milioni di dollari in cinque anni. Una mossa accolta non benissimo dai veterani della squadra, come gli All-Star Walt Bellamy e Lou Hudson, che arrivarono inevitabilmente a farne una questione razziale.
Superate le difficoltà iniziali, Maravich riuscì finalmente a imporsi. Nel 1971 fu inserito nel primo quintetto All-Rookie, due anni dopo conquistò la prima convocazione all’All-Star Game. Ciononostante, il suo arrivo non diede agli Hawks i risultati sperati. Durante la sua permanenza, Atlanta fu ospite fissa dei playoff, ma non riuscì mai a superare il primo turno. Oltretutto, ‘Pistol’ era visto sempre più come un ‘corpo estraneo’ rispetto alla squadra. In campo veniva accusato di egoismo e di scarsa dedizione, fuori era considerato ‘strambo’ per via della sua dieta vegana (all’epoca non diffusa come oggi) e dei suoi continui discorsi su temi quali l’ufologia e il misticismo. Anche la stampa, di solito molto ‘morbida’ nei suoi confronti, iniziò a sollevare qualche dubbio (un giornale locale pubblicò un articolo intitolato “Lo showtime è in leggero ritardo”). A nutrire le maggiori perplessità, però, erano gli allenatori. Prima Richie Guerin, poi Cotton Fitzsimmons faticarono enormemente a digerire la sua indisciplina tattica e la sua esasperata ricerca della ‘magia’ per il pubblico. D’altronde, Maravich era cresciuto sotto l’ala protettiva di un padre-allenatore che lo aveva assecondato in tutto e per tutto, pur di esaltarne le doti.
La mancata esplosione della sua carriera rese Pete sempre più indisponente, rabbioso e frustrato. Iniziò a cercare conforto nell’alcol, ma trovò invece un’escalation di ritardi, allenamenti saltati e atteggiamenti aggressivi che la dirigenza non fu più in grado di sopportare. Nell’estate del 1974, al termine di una stagione chiusa da Maravich come secondo miglior realizzatore NBA (dietro a Bob McAdoo) e dalla squadra senza playoff, ‘Pistol’ fu messo sul mercato. Tra le pochissime squadre a farsi avanti ci furono i New Orleans Jazz. La neonata franchigia voleva iniziare la sua avventura nella lega con una mossa che creasse un certo seguito, perciò decise di investire quattro scelte future e due giocatori (Dean Meminger e Bob Kauffman) per riportare il ‘figliol prodigo’ in Louisiana. New Orleans lo accolse come un eroe, organizzando una parata in occasione della sua presentazione ufficiale. Per dare un’ulteriore spinta al merchandising, sul retro delle sue maglie venne cucito il soprannome “PISTOL” (una strategia condivisa con i mitici Spirits of St. Louis, che fecero scrivere “FLY” e “MARVIN” sulle canotte di James ‘Fly’ Williams e Marvin Barnes).

Maravich contro Kareem Abdul-Jabbar
La marcia di avvicinamento al debutto con la nuova squadra venne funestata da un episodio tragico, che contribuì a un ulteriore isolamento di Pete dal mondo esterno: il 9 ottobre 1974 la madre Helen, da tempo prigioniera dell’alcolismo, si suicidò. Malgrado ciò, ‘Pistol’ trovò il modo di ripagare il festante pubblico del Loyola Field House (sostituito dal nuovissimo Superdome nel 1975) con prestazioni più che discrete; 21.5 punti di media il primo anno, 25.9 il secondo, conditi dalle solite giocate strabilianti. Nell’estate del 1975, Maravich decise di dare una ‘ripulita’ al suo passato: via barba e baffi, calzettoni finalmente al ginocchio (come da tradizione dell’epoca), nuovo numero di maglia (il 7) e un’inedita volontà di difendere e sacrificarsi per la squadra. La buonissima stagione del ‘nuovo’ Pete, anche se limitata da qualche piccolo infortunio, fu premiata con l’inclusione nel primo quintetto All-NBA. L’anno successivo fu in assoluto il migliore della sua carriera. Tornò nel First Team, guidò la lega per punti segnati mettendone a referto 31.1 di media, andò tredici volte oltre quota 40 e in quattro occasioni superò i 50. Il 25 febbraio 1977 fece letteralmente ‘impazzire’ Walt Frazier, segnandogli in faccia 68 punti nella vittoria casalinga sui New York Knicks.
I Jazz, però, erano pur sempre un expansion team e in quanto tale rimasero nei bassifondi della Eastern Conference. L’occasione per il grande salto arrivò con la stagione 1977/78, quando fu aggiunto al roster Leonard ‘Truck’ Robinson. L’ex ala grande dei Washington Bullets disputò un’annata da 22.7 punti e 15.7 rimbalzi di media e fu inserito nell’All-NBA First Team. Maravich, a sua volta, chiuse con 27 punti di media una stagione ridotta a sole 50 presenze da una serie di guai fisici. Incredibilmente, le grandi prestazioni della coppia non bastarono a New Orleans per qualificarsi ai playoff; gli Hawks ottennero due vittorie in più, sufficienti a strappare il sesto e ultimo biglietto disponibile. Durante una partita contro i Buffalo Braves, Pete si procurò un grave infortunio, in una maniera concepibile solo da lui; effettuò un mirabolante passaggio lungo, in salto, con il pallone battuto tra le gambe. Atterrò male sul ginocchio e fu costretto a operarsi. Non sarebbe più tornato quello di prima.

Pete Maravich con la maglia numero 7 dei New Orleans Jazz
Quella che scese in campo 49 volte nella stagione 1978/79 era solo una copia sbiadita dell’elettrizzante ‘showman’ di un tempo. Maravich chiuse a 22.6 punti di media e partecipò al suo quinto All-Star Game, ma i postumi dell’infortunio e l’ingombrante fasciatura ne limitarono notevolmente le movenze e la velocità di esecuzione. I Jazz mancarono ancora una volta la qualificazione ai playoff e la dirigenza, attanagliata dalle difficoltà economiche, capì che era giunto il momento di voltare pagina. La franchigia fu trasferita a Salt Lake City, prendendo la denominazione definitiva di Utah Jazz. ‘Truck’ Robinson fu spedito ai Phoenix Suns e per sostituirlo fu scelto Adrian Dantley, che si imporrà presto come uomo-franchigia. Arrivò anche un nuovo allenatore, Tom Nissalke, che prese il posto del leggendario (più come giocatore, che come head coach) Elgin Baylor. Tra i principi imprescindibili di Nissalke c’era quello di relegare in panchina i giocatori che si allenavano meno. Maravich, tormentato dai problemi al ginocchio, era uno di questi. Quello che una volta si faceva chiamare ‘Pistol Pete’ rimase a guardare i compagni per 24 partite consecutive. Poi, dopo aver collezionato la miseria di 17 apparizioni tra ottobre e gennaio, giocatore e dirigenza si accordarono per il più mesto dei buyout.
Divenuto free-agent, Maravich decise di ricongiungersi con il grande Red Auerbach, a fianco del quale aveva girato degli splendidi ‘video tutorial’ tempo addietro. Firmò per i Boston Celtics, di cui Red era general manager e che in campo erano guidati da un fenomenale rookie di nome Larry Bird. Finalmente inserito in un contesto vincente, Pete si rivelò un preziosissimo innesto per la second unit di coach Bill Fitch. Seppur lontano dagli antichi fasti, diede comunque un valido contributo alla causa, chiudendo la regular season 1979/80 a 11.5 punti di media. Per la prima volta in carriera riuscì a superare il primo turno dei playoff, arrivando addirittura alle finali di Conference. La corsa fu bruscamente interrotta dai Philadelphia 76ers di Julius Erving, che si imposero per 4-1. Nel 1972, ‘Doctor J’ era stato molto vicino a raggiungere ‘Pistol’ ad Atlanta; i due giocarono insieme qualche amichevole estiva, poi Erving fu costretto a tornare nella ABA al termine di una lunga disputa contrattuale.
Sfumato una volta per tutte il sogno di competere per il titolo (che, ironia della sorte, i Celtics vinceranno nella stagione successiva), Maravich capì che i suoi giorni da stella NBA erano finiti. Annunciò il ritiro a soli dieci anni di distanza dal suo trionfale approdo nella lega, ponendo fine a una carriera che, per un motivo o per l’altro, non era mai decollata.

Maravich e il rookie Larry Bird con la maglia dei Boston Celtics
L’impatto con la nuova vita al di fuori del basket fu durissimo. Ripiombato negli abissi dell’alcol e della depressione, Pete divenne una sorta di ‘eremita’, passando diversi mesi chiuso in casa per dedicarsi ai suoi studi sulle culture orientali. Una mattina, si svegliò con l’assoluta certezza che Dio gli avesse parlato, rivelandogli la sua missione. Divenne un cosiddetto ‘cristiano rinato’ e dedicò gli anni successivi, con una devozione mai mostrata in precedenza, a girare gli Stati Uniti per diffondere il Verbo. Il 5 gennaio 1988 si recò a Pasadena, California, per intervenire in una trasmissione radiofonica a tema religioso. Prima, però, giocò una partitella nella palestra della First Church of the Nazarene.
Già, perché Pete Maravich non si era dimenticato del basket, così come il basket non si era dimenticato di lui. Nel maggio del 1987, ‘Pistol’ era stato introdotto (insieme, tra gli altri, a Walt Frazier e Rick Barry) nella Naismith Memorial Basketball Hall Of Fame. Una soddisfazione che Pete non potè condividere con il padre, stroncato da un tumore poche settimane prima.
Durante una pausa, in quella palestra di Pasadena, ‘Pistol’ Pete Maravich si accasciò al suolo, per non rialzarsi mai più. L’autopsia rivelò una diagnosi sconcertante: insufficienza cardiaca dovuta alla mancanza dell’arteria coronaria sinistra. Morì su un campo da basket; il luogo in cui, nonostante la rara malattia congenita e seppur non mantenendo appieno le enormi aspettative, aveva illuminato un’intera generazione e ispirato quelle future con il suo talento e la sua fantasia.