Potete chiamarla come vi pare: Jugoslavia, Yugoslavia, Serbia-Montenegro, Serbia. Fatto sta che quella tra noi e loro è una classica del basket europeo, più o meno come quella tra loro e la fu Unione Sovietica, ora Russia.
Tornano in mente ricordi piacevoli (Nantes ’83, Parigi ’99), agrodolci (Roma ’91) o più spesso spiacevoli (Barcellona ’97, Atene 2004, euroqualificazioni 2008 e gli ultimi tre Eurobasket).
Siamo sempre noi contro di loro, in una sfida tradizionale. La Serbia per l’Italia è come Petar Blagojevic, noi probabilmente per loro siamo come le streghe nostrane: creature da esorcizzare.
Negli ultimi tempi è andata meglio a loro.
QUI SERBIA
Non è la Serbia dei nostri nonni, non quella dei nostri padri, zii, cugini e via di albero genealogico. Hanno rinunciato in sette, quattro particolarmente gravi: Teodosic lucido folle, Kalinic ramponiere, Bjelica multitasking e Jokic mente muscolare.
È meno arcigna in difesa e più volante in attacco, affidandosi molto ai lob che non sono nella tradizione cestistica slava.
Poi certo, è ancora temibile sui pick&roll laterali e centrali, specie se hai Bogdanovic che ha un range di tiro pressoché illimitato e visione di passaggio, o Gurovic che fa passare la spicchiata in pertugi semi-invisibili.
Ha lunghi come Marjanovic e Kuzmic che sanno prendere posizione, distanziarsi e segnare, salvo poi perdersi i tagli dietro sotto il proprio tabellone.
Finora, però, quello che pare mancata è la cattiveria agonistica serba, e quel misto di presunzione e sicurezza in sé stessi che rende sempre difficile giocare contro di loro in gara secca.
Probabile che le assenze abbiano un po’ suggestionato l’ambiente, in questo senso. Finora i serbi hanno giocato due sole gare veramente probanti (una vinta, Lettonia, e una persa, Russia), passeggiando il ciabatte nelle altre.
Per una squadra che fa della motivazione, della mentalità tremendista e dell’agonismo la propria maggiore spinta propulsiva questo potrebbe essere uno svantaggio non indifferente.
Significa che, finora, non si sono abituati a lottare. E iniziare farlo in una gara secca è pericoloso.
Ne sono capaci, ma è sempre difficile.
QUI ITALIA
Messina contro Djordjevic a livello di nazionali. Quand’era successo l’ultima volta? Ah già, Europeo di Barcellona, Anno Domini 1997.
Ettore lasciava la panchina a Tanjevic dopo un argento conquistato. Non aveva voluto rinnovare qualche mese prima per non essere un peso in caso di risultato negativo.
Era stato criticato e invitato a lasciare subito la panchina: non era ancora l’Ettore europeo e ‘mmerigano, simbolo della rivincita di noi italiani stortignaccoli ma brava gente.
Barcellona, dunque. La Jugo va avanti, in campo fa quello che vuole (in più sensi), i signori in grigio non ritengono doveroso intervenire e gli uomini di Belgrado si prendono il secondo oro di fila.
Inutile buttarla sulla rivincita personale, sarebbe una lettura cialtrona. È però vero che Messina ha memoria da elefante, e queste cose tende a ricordarle.
I concetti in vent’anni non sono mutati: spirito di squadra, il gruppo davanti a tutti, stelle al servizio della squadra e non il contrario, stelle che però hanno licenza di brillare quando più gli garba.
Datome, Belinelli e Melli in questo senso sono le stelle, Cusin il protettore del verniciato, Hackett l’orologiaio che alla bisogna uccide col pendolo, Filloy la garra italo-argentina, Biligha il solido fondente perugino, Aradori l’acciarino magico.
Gli altri a rotazione, sperando che le energie non siano già in riserva, dopo una vittoria convincente totalmente (Israele), una parzialmente (Finlandia), due quasi per nulla (Ucraina e Georgia), una sconfitta bella (Lituania) e una brutta (Germania).
L’Italia probabilmente in questo Eurobasket morirà come ha vissuto: cercando il ribaltamento del lato per il tiro da tre (o l’arresto e tiro da da due) da smarcati in attacco, e intasamento dell’area con mani addosso e tiri contestati in quantità.