Nel corso della ormai settantennale storia del basket NBA, ogni epoca è stata dominata da una, al massimo due squadre, guidate dalle imprese di straordinari campioni.
Tra la fine degli Anni ’40 e l’inizio dei ’50 imperversarono i Minneapolis Lakers di George Mikan; gli Anni ‘60, invece, furono quelli della più grande dinastia di sempre, quella dei Boston Celtics targati Bill Russell – Red Auerbach.
I magnifici Anni ’80 ruotarono intorno al dualismo tra i Lakers (stavolta con sede a Los Angeles) di Magic Johnson e i Celtics di Larry Bird, mentre nel decennio successivo la ‘tirannia’ dei Chicago Bulls di Michael Jordan non fece prigionieri. Arrivando ai giorni nostri, gli Anni 2000 videro imporsi (salvo qualche eccezione) i soliti Lakers (con Kobe Bryant e Shaquille O’Neal) e i San Antonio Spurs della coppia Tim Duncan – Gregg Popovich, e questa prima metà del nuovo decennio si è presto trasformata nel regno di LeBron James, vincitore sia con i Miami Heat che con i Cleveland Cavaliers (solo il tempo ci dirà se gli Anni ’10 saranno anche quelli dei Golden State Warriors).
Ci fu un tempo, però, in cui il basket americano divenne una sorta di ‘terra di nessuno’. Erano gli Anni ’70, quelli delle Due Leghe (ABA e NBA si uniranno nel 1976). Anni segnati dal totale disinteresse mediatico, anni in cui i giocatori preferivano il college al professionismo. Niente dinastie, nessun ‘cannibale’ a rubare la scena.
Quel decennio, comunque, fu anche teatro delle gesta di squadre e campioni troppo spesso dimenticati, chiusi nelle pagine buie tra l’era-Russell e quella della rinascita firmata Magic-Bird. In questa puntata delle Jersey Stories andremo a riscoprire le maglie di coloro che, almeno una volta, scrissero il proprio nome nella leggenda del Decennio Perduto.
1968 – Pittsburgh Pipers (ABA)
Il nostro viaggio deve per forza iniziare nel tumultuoso 1968, l’anno in cui la rivoluzione giovanile raggiunse il suo apice. Il 4 maggio venne assegnato il primo, storico titolo della American Basketball Association, una lega estremamente spettacolare che puntava a porre fine al monopolio della più ricca NBA. A vincerlo furono i Pittsburgh Pipers, guidati dalla leggenda newyorchese Connie Hawkins (definito da coach Larry Brown “a livello individuale, il migliore che io abbia mai visto”). ‘The Hawk’, inizialmente bandito dalla NBA per un presunto coinvolgimento in uno scandalo scommesse, girovagò tra la defunta American Basketball League e gli Harlem Globetrotters prima di approdare nella ABA ed indossare la caratteristica divisa con palla a spicchi dei Pipers.
Nella prima delle due stagioni di vita della squadra, Hawkins fu semplicemente devastante: capocannoniere della ABA, fu eletto MVP sia della regular season, sia delle finali. Dopo il titolo, i Pipers furono trasferiti a Minneapolis. Quattro anni più tardi la franchigia, come molte altre della ABA, dichiarò il fallimento.
1969 – Oakland Oaks (ABA)
Che gli Anni ’70 avrebbero rappresentato ‘the age of opportunities’ era già chiaro alla fine del decennio precedente, quando le maglie verdi e gialle degli Oaks sollevarono il secondo titolo della storia della ABA.
Uno dei principali motivi per cui quella lega fallì così velocemente fu la sconsiderata gestione economica di molte delle sue franchigie. Gli Oaks furono l’esempio perfetto; per aumentare popolarità e incassi, proposero un contratto irragionevole alla stella degli allora San Francisco Warriors, Rick Barry, più volte All-Star nella NBA. L’investimento si rivelò un vero e proprio boomerang per la franchigia, visto che Barry si infortunò a dicembre e saltò il resto della stagione. La squadra, che poteva anche contare su Larry Brown (che, appese le scarpe al chiodo, diverrà un allenatore da Hall Of Fame) e sull’MVP delle finali Warren Jabali, chiuse comunque con il miglior record stagionale, sconfiggendo infine gli Indiana Pacers nella serie per il titolo.
Tuttavia, l’affluenza di pubblico rimase inesorabilmente scarsa, e la franchigia venne rilocata (con il più classico dei coast-to-coast) nientemeno che a Washington. Gli Oakland Oaks diverranno prima Washington Caps, poi Virginia Squires, per poi ‘morire’ insieme alla ABA nel 1976.
1970/72/73 – Indiana Pacers (ABA)
Per trovare ciò che, in quegli anni, fu più simile ad una dinastia bisogna cercare nello ‘State Of Basketball’.
I Pacers furono una delle uniche due franchigie (insieme ai Kentucky Colonels) a non essere mai trasferite nel corso della breve (ma intensa) storia della ABA. Nei nove anni di vita della lega col pallone tricolore arrivarono cinque volte in finale, aggiudicandosi la bellezza di tre titoli, diventando di fatto la squadra più vincente dell’era-ABA.
Inizialmente assegnata alla Eastern Division, dopo il primo titolo la squadra fu ricollocata nella Western. Nel 1971, tramite il draft fu selezionato ‘Baby Bull’ George McGinnis, che diverrà uno dei giocatori simbolo della ABA; due titoli da protagonista (1972 e 1973), MVP delle finali nel 1973 e MVP stagionale due anni più tardi.
Con la fusione delle due leghe nel 1976, le quattro squadre superstiti della ABA (Indiana Pacers, San Antonio Spurs, Denver Nuggets e New York Nets) furono sottoposte a durissime tasse di ammissione, trovandosi costrette a svendere i migliori giocatori del roster. In previsione di ciò, lo stesso McGinnis fu ceduto ai Nets nel 1975.
I Pacers non riusciranno mai ad essere protagonisti nella nuova lega, arrivando in finale per la prima e unica volta nel 2000. Le divise dei gloriosi anni della ABA saranno riprese nei primi Anni ’90, in occasione del venticinquesimo anno di vita, da Reggie Miller e compagni.
1970/73 – New York Knicks
Le attuali maglie dei Knicks risalgono alla fine degli Anni Sessanta, quando New York era “la città del basket” e quando il basket era The City Game (dal titolo di un libro di culto – anche se non troppo scorrevole – di Pete Axthelm).
Mentre al Rucker Park e negli altri playground cittadini andavano in scena le leggendarie gesta di Earl ‘The GOAT’ Manigault e di altri mitici streetballer, nella ‘Mecca’ del Madison Square Garden veniva formata una delle più grandi squadre di sempre.
Sotto la guida di coach Red Holzman (che farà da mentore al giovane rookie Phil Jackson), i Knicks segnarono il definitivo tramonto della Dynasty dei Celtics, vincendo il titolo NBA nel 1970 e ripetendosi tre anni più tardi.
La formazione, guidata da Willis Reed e Walt ‘Clyde’ Frazier, diede vita ad epiche battaglie contro le migliori avversarie dell’epoca, dai Milwaukee Bucks ai Los Angeles Lakers, passando per gli stessi Celtics.
L’episodio più celebre dell’epopea di quei Knicks ebbe luogo in gara-7 delle Finals del 1970, contro i Lakers.
Il grande capitano Willis Reed, infortunatosi in gara-5 e assente nell’incontro successivo, si presentò a sorpresa sul terreno di gioco, tra l’ovazione del pubblico. Giocò qualche minuto ‘su una gamba sola’, ma l’impatto emotivo del suo ritorno (eletto in seguito “miglior momento della storia del Garden”) fu incalcolabile, risultando decisivo per la vittoria di partita e titolo.
Nel 1971, i Knicks aggiunsero ad un roster già eccellente il grande Earl ‘The Pearl’ Monroe. Con ‘Black Jesus’ insieme a Frazier e Reed, la squadra tornò alle Finals nel 1972, ma fu sconfitta dai Lakers. L’anno successivo arrivò la ‘bella’ con i gialloviola, che stavolta dovettero arrendersi. In entrambe le occasioni, Reed fu nominato MVP delle finali.
Con il ritiro del capitano nel 1975, l’epoca d’oro finì. Quei due titoli rimangono tuttora gli unici nella storia della franchigia.
1971 – Milwaukee Bucks
Nel 1969 la NBA diede il benvenuto ad un giocatore mai visto prima. All’epoca si chiamava ancora Lew Alcindor, e negli anni ad UCLA il suo dominio era stato tale da indurre la NCAA ad abolire le schiacciate.
Il suo arrivo ai Milwaukee Bucks sconvolse letteralmente gli equilibri della lega, e trasformò i giovani Bucks, nati solamente un anno prima, in una squadra da titolo.
Dopo l’eliminazione per mano dei Knicks nel 1970, la dirigenza ingaggiò il grande Oscar Robertson. Con la maglia dei Cincinnati Royals ‘The Big O’ era stato MVP nel 1964, mentre due anni prima aveva chiuso la stagione con una tripla-doppia…di media!
‘The Big O’ e un Alcindor eletto MVP stagionale trascinarono Milwaukee alle NBA Finals 1971. I malcapitati Baltimore Bullets vennero annientati con un ‘brutale’ 4-0, e i Bucks vinsero il primo ed unico titolo della loro storia.
Il giorno successivo alla vittoria, Alcindor decise di adottare il nome musulmano Kareem Abdul-Jabbar. Con la nuova identità continuò a dominare, ma Milwaukee non riuscì a tornare in finale fino al 1974, quando fu sconfitta dai redivivi Celtics. Prima dell’inizio di quella stagione, le storiche maglie degli esordi furono sostituite da magnifiche divise con le scritte in corsivo, tra le più belle di tutti i tempi.
Con il ritiro di Robertson nel 1974 e il passaggio di Kareem ai Lakers nel 1975, il ciclo dei grandi Milwaukee Bucks volse al termine.
1971 – Utah Stars (ABA)
Gli Stars erano la tipica squadra della ABA: per via di una gestione societaria ‘avventurosa’, in tre stagioni si erano spostati tre volte. Nati come Anaheim Amigos (nome con cui persero la prima partita della storia NCAA contro gli Oakland Oaks) e divenuti poi Los Angeles Stars, erano stati nuovamente trasferiti nello Utah nel 1970, in quanto nella ‘città degli angeli’ la concorrenza dei Lakers (ma anche dei grandi UCLA Bruins) era deleteria per l’affluenza di pubblico.
Prima di lasciare la California, gli L.A. Stars raggiunsero le ABA Championship Series, ma vennero sconfitti dagli Indiana Pacers.
L’arrivo della prima franchigia professionistica nello Utah fu accolto da un grande entusiasmo, con i palloni tricolori che spopolavano in tutti i playground dello stato e con la gente che gremiva il Salt Palace.
Il roster degli Utah Stars poteva contare su eccellenti giocatori come Willie Wise (‘armato’ di basette e baffoni) e Zelmo ‘The Big Z’ Beaty, ma la vera star era il coach, Bill Sharman. Quattro volte campione NBA con i Celtics e MVP dell’All Star game 1955, Sharman fu colui che diede inizio alla pratica del cosiddetto shootaround, la seduta di tiro mattutina prima delle partite (“di solito passavo la mattinata a camminare avanti e indietro nervosamente, così pensai che fare due tiri avrebbe potuto essere un più che utile passatempo”).
La prima stagione a Salt Lake City fu l’apice della storia di quella squadra. Sharman fu premiato Coach Of The Year, e gli Stars vinsero il titolo ABA sconfiggendo in finale i Kentucky Colonels (di cui parleremo più avanti). Beaty fu nominato MVP dei playoff.
Quasi inutile specificare il destino degli Utah Stars, i quali andarono in bancarotta nel giro di poche stagioni (fallirono nel 1976) dopo aver investito inopinatamente le moderate risorse economiche a disposizione. Nel frattempo, rimasero stabilmente tra i top team della lega, soccombendo spesso e volentieri ai soli Indiana Pacers. Nel 1974 gli Stars misero sotto contratto Moses Malone, il primo giocatore a passare direttamente dalla high school al professionismo.
Di sicuro, osservando quelle bizzarre maglie con la stella, si può tranquillamente osservare che, come direbbe il buon Federico Buffa, “non è più la pallacanestro dei nostri padri”…
1972 – Los Angeles Lakers
Dopo le continue batoste subite per mano di Bill Russell, Jerry West pensò seriamente di ritirarsi. Nemmeno il premio di Finals MVP era bastato a colui che diventerà ‘Mr. Logo’ per mettere le mani sul tanto agognato titolo NBA.
Anche con la fine della dinastia dei Celtics, il traguardo finale era sfumato sul più bello; alle NBA Finals 1970 furono infatti i Knicks a trionfare.
All’inizio della stagione 1971/72, i Lakers potevano contare ancora sui loro ‘Big Three + 1’: West, Wilt Chamberlain, Elgin Baylor e Gail Goodrich.
Baylor fu uno dei giocatori più forti di sempre, ma non di distinse certo per il suo tempismo; arrivato ai Minneapolis Lakers nel 1958, quando ormai l’era di trionfi targata George Mikan era finita, e sempre presente nelle OTTO finali perse dai suoi, si ritirò (per via dei continui problemi al ginocchio) dopo sole nove partite dall’inizio della stagione che avrebbe finalmente scrollato di dosso la ‘maledizione’ ai gialloviola.
La nuova stagione portò anche un’altra novità: la panchina fu affidata ad un personaggio di cui abbiamo parlato poco fa… Bill Sharman!
Il ‘Re Mida’ del basket americano Anni ‘70 (e vecchio ‘nemico’ in maglia biancoverde) guidò i Lakers ad una stagione incredibile, suggellata da una striscia di 33 vittorie consecutive (tuttora record all-time) tra novembre e dicembre.
Le 69 vittorie con cui i gialloviola chiusero la regular season furono superate soltanto nel 1996, quando i Chicago Bulls alzarono l’asticella sul 72-10 (record a sua volta infranto vent’anni dopo dal 73-9 dei Golden State Warriors).
Sharman fu nominato Coach Of The Year e, dopo la vittoria in finale contro gli acerrimi rivali New York Knicks, divenne il secondo allenatore di sempre (dopo Alex Hannum) a vincere sia il titolo ABA, che quello NBA.
Le soddisfazioni personali arrivarono anche per le due star della squadra; Jerry West fu il miglior marcatore stagionale nonché MVP dell’All Star Game (giocato a L.A. e deciso da un canestro pazzesco di West), mentre Wilt Chamberlain venne eletto MVP delle finali.
Probabilmente quei Lakers avrebbero potuto dare inizio ad una dinastia, se solo fossero stati più giovani. Il titolo del 1972, invece, fu il glorioso finale delle carriere di Chamberlain e West.
Il vero e proprio ‘canto del cigno’ furono le Finals del 1973, in cui i newyorchesi si presero la definitiva rivincita. Al termine di quella serie, Wilt accettò il ruolo di allenatore-giocatore offertogli dai San Diego Conquistadores (altra franchigia-tipo della ABA che, anche a causa di quella scelta, fallì di lì a poco). I Lakers detenevano però i diritti su ‘The Stilt’, così passarono per vie legali e lo costrinsero di fatto al ritiro.
Con l’addio di Jerry West nel 1974, calò il buio sui Lakers. Le storiche maglie (molte delle quali sono appese oggi al soffitto dello Staples Center) durarono fino al 1978, quando i numeri, da bianchi, divennero viola. Stava per iniziare l’era dello Showtime.
1974/76 – Boston Celtics
Dopo i fasti del decennio precedente, la leggendaria rivalità tra Lakers e Celtics fu ad un passo dal riaccendersi negli Anni ’70. Mentre Jerry West e compagni, ormai a fine carriera, vincevano finalmente il tanto agognato anello, nel Massachusetts i Celtics si preparavano a tornare grandi, dopo l’inevitabile declino post-Dynasty.
Intorno a John Havlicek, già elemento fondamentale dell’invincibile squadra che fu, Red Auerbach (passato al ruolo di general manager nel 1966) accumulò giovani All-Star come Dave Cowens, Paul Silas e Jo Jo White.
Sotto la guida di coach Tom Heinsohn, un altro dei protagonisti della Dinastia, la squadra raggiunse le NBA Finals nel 1974, dove sconfisse i Milwaukee Bucks di Kareem e Big O (ormai giunti al capolinea) al termine di sette, spettacolari partite. La bellezza di quella serie fu solo l’antipasto di quanto sarebbe accaduto due anni dopo.
Eliminati dai Washington Bullets nel 1975, i Celtics tornarono in finale nel ’76, dove si trovarono di fronte i Phoenix Suns dell’ex bostoniano Paul Westphal.
Gara-5 di quella serie, con le squadre sul 2-2, viene spesso definita “la più grande partita mai giocata”. Dopo innumerevoli errori da parte di arbitri, referto, ma anche dei giocatori in campo, Boston vinse al triplo overtime, chiudendo poi la serie in gara-6 a Phoenix.
Così come per i Lakers, anche per gli storici rivali la seconda metà del decennio fu un periodo di transizione. La storia di entrambe le franchigie cambierà nel 1979, quando sbarcarono in NBA Magic Johnson e Larry Bird.
In quanto alle maglie, quelle biancoverdi dei Celtics sono tra le pochissime a non essere mai cambiate nel corso della storia. Le vittorie di Bill Russell e compagni le avevano già rese leggenda.
1974/76 – New York Nets (ABA)
Quella che vedete è una delle immagini-simbolo di ciò che fu la American Basketball Association; il più grande giocatore della storia di quella lega, Julius Erving, con indosso la leggendaria maglia a stelle e strisce dei Nets.
Quelli che oggi sono i Brooklyn Nets furono una delle undici squadre della stagione inaugurale della ABA. Nati come New York Americans, si erano dovuti presto trasferire fuori dalla Grande Mela, in quanto non riuscivano a trovare un campo adeguato su cui giocare (se non lì, dove, accidenti?!). Fu solo il primo di un’interminabile serie di spostamenti, culminata nel 2012 con il ritorno in città, in quel di Brooklyn.
Nel 1969, i Nets furono vicinissimi a Lew Alcindor, star incontrastata del college basketball ad UCLA. Il futuro Kareem Abdul-Jabbar, però, decise di accordarsi con i Milwaukee Bucks, iniziando una leggendaria carriera nella NBA.
L’anno dopo, i tifosi si consolarono con l’arrivo di Rick Barry, già protagonista della nostra storia con la maglia degli Oakland Oaks. Barry li condusse alle finali ABA nel 1972, dove i Nets persero contro gli imbattibili Indiana Pacers, poi fu costretto a tornare ai Golden State Warriors, che ne detenevano i diritti,
In quella movimentata estate, ‘Doctor J’ Julius Erving fu ad un passo dal vestire la maglia degli Atlanta Hawks, squadra NBA in cui militava il grande ‘Pistol’ Pete Maravich. Nel mentre, i Bucks fecero carte false per provare a portarlo a Milwaukee a comporre una sorta di ‘Dream Team’ con Kareem e Oscar Robertson. Il risultato dello scontro fra le due franchigie fu che Erving dovette ‘rientrare all’ovile’ e restare ai Virginia Squires (nuova incarnazione degli Oaks), squadra in cui militava dall’anno precedente. A causa delle disastrose condizioni economiche, gli Squires dovettero comunque cedere il loro fuoriclasse nell’estate del 1973, e i Nets non si fecero scappare l’occasione.
Tornato nella natia New York City, Doctor J si impadronì della lega; tre volte miglior realizzatore, tre titoli di MVP stagionale, due di MVP dei playoff e, soprattutto, due titoli ABA (1974 e 1976). Inoltre, chiuse la stagione ‘75/’76 tra i migliori 10 giocatori della lega in TUTTE le categorie statistiche.
Durante l’intervallo dell’All Star Game 1976 fu inaugurato lo Slam Dunk Contest, che vide (naturalmente) la partecipazione – e la vittoria – di Erving. Il momento clou della gara fu quello in cui Doctor J eseguì una memorabile schiacciata con stacco dalla linea del tiro libero, facendo letteralmente esplodere l’arena di Denver.
La fusione tra le due leghe e le pesantissime tasse di ammissione comminate agli ex team della ABA portarono i Nets al collasso. Doctor J fu ceduto ai Philadelphia 76ers, con cui scriverà il secondo capitolo di un’inimitabile carriera, e la squadra non riuscirà mai più a tornare al vertice (arriverà in finale NBA soltanto nel 2002, con il nome di New Jersey Nets). Le iconiche divise dell’era-Erving cesseranno di esistere nel 1990.
1975 – Golden State Warriors
In fin dei conti, la prima metà degli Anni ’70 potrebbe anche essere rinominata The Rick Barry Story. In quegli anni il numero 24, che si distinse soprattutto per la tanto bizzarra quanto efficace tecnica di tiro libero (a due mani dal basso; Barry chiuse la carriera con la miglior percentuale dalla lunetta di tutta la NBA…), vagabondò tra una costa e l’altra, passando per molte delle squadre protagoniste di questo racconto. Seconda scelta dei San Francisco Warriors nel 1965, Barry indossò le uniformi di Oakland Oaks, Washignton Caps, Virginia Squires, New York Nets, per poi tornare agli Warriors (trasferitisi nel frattempo ad Oakland) nel 1972.
Dopo il trionfo nella ABA con gli Oaks, Barry divenne anche campione NBA nel 1975, quando i suoi Warriors non solo sconfissero, ma spazzarono via i favoritissimi Washington Bullets della coppia Unseld – Hayes. Lo stesso numero 24 fu nominato Finals MVP.
La franchigia rese omaggio alle divise del primo, storico titolo nella stagione 2010/11, quando un giovane Stephen Curry e compagni indossarono per alcune partite la maglia gialla di quella mitica formazione.
1975 – Kentucky Colonels (ABA)
Unica franchigia (insieme agli Indiana Pacers) mai trasferita o fallita per tutta la storia della ABA, i Colonels divennero celebri, agli esordi, perché il loro proprietario era Ziggy, ovvero… un cane.
In realtà, la squadra era presieduta da tale Joe Gregory, ma il piccolo cagnolino di quest’ultimo (un Griffone di Bruxelles) veniva universalmente riconosciuto come ‘padrone della baracca’, con tanto di posto in prima fila alle partite, sedile in prima classe sugli aerei e innumerevoli completini, tra cui…uno smoking. Ziggy era addirittura presente nel primo logo della squadra, raffigurato mentre inseguiva un giocatore.
Solo nella ABA potevano succedere cose del genere…
I colori originali (bianco e verde) vennero sostituiti nei primi Anni ’70 con il bianco-blu, omaggio ai Kentucky Wildcats della NCAA. Una peculiarità delle divise dei Colonels erano le scritte in stampatello minuscolo, vera e propria rarità storica.
L’arrivo di Dan Issel portò la squadra alle finali ABA nel 1971, perse contro gli Utah Stars. Dopo quella sconfitta, i Colonels riuscirono a mettere le mani su Artis Gilmore, tanto pittoresco (e tanto Seventies) nel look, quanto talentuoso. Gilmore ebbe fin da subito un impatto clamoroso, vincendo sia il premio di Rookie Of The Year, sia quello di MVP stagionale.
Kentucky arrivò di nuovo in finale nel 1973, ma fu sconfitta dagli Indiana Pacers. Al terzo tentativo, però, arrivò finalmente il titolo. Nel 1975, infatti, i Colonels si presero la rivincita su Indiana, con ‘A-Train’ Gilmore che nella decisiva gara-5 chiuse con 28 punti e 31 RIMBALZI.
Il nuovo proprietario John Brown, a quel punto, se ne uscì con un’idea favolosa: propose ai Golden State Warriors una sfida per determinare gli unici, veri Campioni del Mondo. I campioni NBA rifiutarono, nonostante l’offerta di Brown comprendesse un frusciante milione di dollari.
Con la fusione tra le due leghe nel 1976, i Colonels non vennero ammessi nella nuova NBA. Finiva così la storia della franchigia più ‘eccentrica’ di quello strano decennio.
1977 – Portland Trail Blazers
La scomparsa della ABA portò le più grandi stelle di quella lega ‘alternativa’ a rinfoltire gli organici delle franchigie NBA. Se l’acquisizione più importante fu quella dei Philadelphia 76ers, che si accaparrarono nientemeno che Julius Erving, i Portland Trail Blazers, dal canto loro, riuscirono a portare in Oregon Maurice Lucas, l’altra stella (oltre a Gilmore) dei Colonels.
Nati solamente sei anni prima, i Blazers avevano faticato enormemente nelle loro prime stagioni, finendo costantemente a scegliere tra i primi al draft. Nel 1974. con la prima scelta assoluta fu selezionato Bill Walton, fenomenale centro di UCLA (in quegli anni non andò poi così male al coach dei Bruins, John Wooden, che prima di Walton aveva allenato un certo Lew Acindor…).
Nei primi due anni ai Blazers, Walton si fratturò tutto il fratturabile (naso, piede, polso, gamba…), pregiudicando così le stagioni dei suoi. Quando il centro tornò in salute, Portland era pronta a diventare grande.
Con la coppia Lucas-Walton sotto canestro, sospinta dal pubblico più caloroso degli USA, la squadra di coach Jack Ramsey raggiunse per la prima volta i playoff. L’ottimo risultato fu solo l’inizio della ‘folle corsa’ dei Blazers, i quali prima umiliarono i Lakers di Kareem (4-0), poi sconfissero i Sixers di Doctor J laureandosi campioni NBA 1977 (quelle finali, di cui Bill Walton fu eletto MVP, verranno ricordate soprattutto per una terrificante schiacciata di Erving proprio su Walton, a pochi minuti dall’inizio di gara-1).
Alla luce del titolo vinto e della giovane età dei loro migliori giocatori, si prospettava un futuro radioso per i Blazers.
Tuttavia, Walton continuò ad infortunarsi, fino a quando chiese di essere ceduto. Il rifiuto della dirigenza lo costrinse a saltare interamente la stagione 1978/79, per poi andarsene da free-agent l’estate successiva, quando a Portland si diede il via alla ricostruzione.
Le prime, storiche maglie dei Blazers resistettero fino ai primi Anni ’90, quando Clyde Drexler riportò la squadra alle Finals (1992, sconfitta contro i Chicago Bulls di Michael Jordan), poi furono sostituite da quelle in uso ancora oggi.
1978 – Washington Bullets
In un’epoca in cui tutte le buone squadre, prima o poi, avevano la loro occasione, i Washington Bullets continuavano a rimanere a mani vuote. Eppure, la squadra della capitale poteva contare su due dei migliori giocatori del decennio: Wes Unseld ed Elvin Hayes.
Il primo si era abbattuto come un meteorite sulla NBA nel 1968, venendo eletto Rookie dell’Anno e MVP stagionale (solo Wilt Chamberlain ci era riuscito prima; come abbiamo visto, Artis Gilmore ripeterà l’impresa nella ABA).
Il secondo, arrivato nel 1972 dagli Houston Rockets, era il partner perfetto per Unseld, con cui formò la miglior coppia di lunghi della lega.
I due guidarono i Bullets (che fino al 1974 giocarono a Baltmore) a tre finali NBA. Dopo aver perso le prime due, il momento buono arrivò finalmente nel 1978, quando Washington sconfisse i Seattle SuperSonics in sette, combattutissime partite. Per Unseld arrivò il premio di Finals MVP, per la capitale il primo campionato professionistico della sua storia. Tornati in finale (e sconfitti da Seattle) l’anno dopo, i Bullets furono smantellati nel 1981, quando Wes Unseld si ritirò ed Elvin Hayes tornò ai Rockets.
Vent’anni più tardi, quando la squadra tornò popolare (con il nome Wizards) per il rientro in campo di Michael Jordan, le maglie Anni ’70 dei Bullets vennero rispolverate in occasione delle Hardwood Classics Nigths.
1979 – Seattle SuperSonics
Mentre Magic Johnson e Larry Bird vivevano gli ultimi mesi da atleti collegiali, il Decennio Perduto della NBA volgeva al termine. Gli ultimi conquistatori dell’ ‘era di nessuno’ furono i Seattle SuperSonics, che vinsero il loro primo e unico titolo nel 1979. Le divise che indossavano vi potrebbero risultare familiari, visto che furono le stesse indossate da Gary Payton e Shawn Kemp fino al 1995.
Nel corso degli Anni ’70, i Sonics erano stati la squadra di Spencer Haywood (grandissimo campione finito nel micidiale tunnel della cocaina), Lenny Wilkens (che nel 1992 sarà nello staff tecnico del Dream Team), ‘Slick’ Watts (che arrivò ai Sonics in quanto il suo allenatore di college era il cugino del coach di Seattle) e coach Bill Russell (proprio lui).
Quando Russell e Haywood se ne andarono, il nuovo corso si incentrò sui giovani; Dennis Johnson, Jack Sikma, Gus Williams, ‘Downtown’ Freddie Brown, tutti giocatori che permisero ai Sonics di arrivare ai vertici della lega.
Quando Lenny Wilkens tornò a Seattle nei panni di capo-allenatore, la squadra prese velocita. Nel 1978 arrivò alle Finals, dove venne sconfitta da Washington, e l’anno successivo si vendicò dei Bullets portando il titolo nella Emerald City.
La stagione seguente fu decisamente buona, visto che Seattle arrivò alle finali di Conference. I loro avversari, però, erano i Los Angeles Lakers di Kareem Abdul-Jabbar e di un rookie con il numero 32 destinato alla grandezza.
I Sonics persero quella serie, mentre Magic Johnson e compagni diedero ufficialmente inizio ad una nuova era.