Inattesa come un dissing del premier Conte, improvvisa come una tripla da nove metri di Ben Simmons e imprevedibile come la posizione politica di LeBron James, arriva una nuova edizione di Garbage Time, l’altra NBA, la rubrica che raccoglie il meglio del peggio di ciò che ruota attorno all’universo cestistico americano (e non solo). Cadute di stile, figure barbine, personaggi ed eventi improbabili: tutto racchiuso in una Top 10 assolutamente non richiesta e non obbligatoria, proprio come un’opinione sulle vicende geopolitiche. A proposito, in questa edizione di Garbage Time non verrà offeso nessuno e verranno rispettate le libertà di tutti. Le popolazioni cinesi, hongkongesi, turche, russe e spagnole possono tranquillamente continuare a manifestare per i loro diritti e i rispettivi governi possono tranquillamente continuare a reprimerle con la violenza. Bisogna però fare delle distinzioni: qualora questi Paesi avessero rapporti commerciali con noi, sarebbe meglio che la gente se ne tornasse a casa, piuttosto che lamentarsi (cosa vogliono di più? La democrazia?). Se invece con noi non avessero niente a che fare a livello economico, sarebbero semplicemente delle dittature sanguinarie da abbattere al più presto. Ma ora basta con le opinioni confuse e contraddittorie sui grandi temi; concentriamoci su ciò che ci appassiona di più. No, non “parlare di argomenti che non conosciamo”, l’altra cosa… L’altra ancora… Quella dopo… Ok, la NBA! Prima di cominciare, però, tocca sorbirsi il tradizionale pippone introduttivo.
Qualora il vostro disagio esistenziale fosse talmente elevato da farvi apprezzare questa rubrica, scrivete il vostro IBAN nei commenti. O magari aprite un gustoso dibattito su quale sia la GOAT tra le rubriche NBA, se questa, quella di Jordan, quella di LeBron o quella di Doncic. Qualora doveste invece considerarla un insulto all’umana decenza, non esitate a esternarlo, dando sfogo alle vostre volgarità più fantasiose. Ma soprattutto, qualora aveste delle segnalazioni per i prossimi episodi, trovate il modo di recapitarcele, magari scrivendole nei commenti.
Per quanto stupido possa sembrare, questa è una rubrica multimediale. Per comprenderne a fondo gli snodi narrativi è INDISPENSABILE cliccare su tutti i link che compariranno (sono le parole scritte in un colore diverso, per i neofiti dell’Internet), inclusi quelli che vi proporranno di aumentare le dimensioni di organi vari (consiglio stile-Aranzulla: per maggiore comodità, fate ‘clic’ con il pulsante destro del mouse e selezionate “Apri link in un’altra scheda”). Alla fine di ogni posizione, troverete gli hashtag di riferimento per diffondere come il Vangelo queste idiozie sui social.
Disclaimer: parte dei demeriti per questa robaccia va attribuita a quelli della Kliq, che oggi saranno come minimo padri, se non addirittura madri di famiglia, per cui staranno tentando invano di insabbiare il loro passato inglorioso.
Posizione numero 10: Daryl Morey e il contratto di Nenè
Il povero Daryl Morey non riesce davvero a trovare pace. Come se non bastasse la crisi diplomatica tra NBA e Cina, scoppiata in seguito al suo tweet in sostegno dei manifestanti di Hong Kong; come se la richiesta di un suo licenziamento (solo perchè la pena di morte, in alcuni stati degli USA, è ‘inspiegabilmente’ fuori legge), perpetrata al commissioner Adam Silver da parte di esponenti del governo cinese, non fosse sufficiente, il general manager degli Houston Rockets finisce pure tra le righe di Garbage TIme, l’altra NBA. La sua presenza in una delle tre migliori edizioni di sempre della rubrica, tuttavia, non è dovuta a controverse vicende geopolitiche, bensì alle curiose dinamiche con cui è stato rinnovato il contratto di Maybyner Rodney Hilàrio, meglio conosciuto come Nenè.
Reduce dalla sua terza stagione in Texas, il lungo brasiliano decide di declinare la player option (scelta del giocatore se rimanere o meno sotto contratto, ndr.) da 3.8 milioni di dollari sul quarto anno, convinto probabilmente di poter ambire a cifre superiori da free-agent. In caso contrario, si ritirerà. Tutto tace fino ai primi di settembre, quando il telefono di Nenè squilla e sullo schermo compare la scritta “Morey Cell”. “We Nenè! Cosa ne dici di un biennale da 20 milioni di dollari?“. Hilàrio guarda per un attimo il cellulare, poi scuote la testa amareggiato e risponde, con marcato accento paulista: “Ma va a dà via i ciap, pirla! Non mi fregate più con ‘sti scherzi qui!”. Quando riattacca, non ha alcun dubbio che si tratti di una burla. Tra pochi giorni (13 settembre) spegnerà 37 candeline; quando Tim Duncan aveva rinnovato con i San Antonio Spurs, nel 2015, R.C. Buford e soci lo avevano pagato la metà! Dopo un po’, Morey chiama di nuovo: “Mi sa che è caduta la linea… Allora, che ne pensi di sto contrattino?”. “20 milioni fino al 2021? Sei sicuro?”. “Certo! Non sarai mica vecchio… Guarda che qui a Houston si dice ‘forty is the new twenty’… Dammi retta: un paio di allenamenti come si deve, ti tagli quei capelloni e la gente ti scambia per Russell Westbrook!”. Il brasiliano pensa per un attimo ai dodici Oki che ha dovuto prendere dopo l’ultima corsetta mattutina, poi però coglie al volo l’occasione: “No, sai, è che 20 milioni mi sembravano un po’ pochini, ma va bè… Accetto! Per il bene della squadra, qualche sacrificio bisogna pur farlo.”.
Quelli che seguono sono giorni di pura estasi. Nenè si sente finalmente valorizzato e immagina già le tappe successive di una carriera definitivamente rilanciata. Nel frattempo, la NBA e la NBPA (l’associazione dei giocatori NBA) iniziano a farsi qualche domanda sull’improvvisa generosità di Morey. Ottenuta una copia del contratto, scoprono che il maxi-stipendio include una serie di bonus: ai due milioni e mezzo di salario base, se ne aggiungeranno altrettanti se Nenè giocherà almeno 10 partite. Se arriverà a 25 presenze, altri due milioni e mezzo, se ne raggiungerà 40, altri 2.5. A patto, però, che la squadra vinca almeno 52 partite in regular season. ‘Curiosamente’, nel 2018/19 i Rockets hanno vinto 53 incontri, e Hilàrio è sceso in campo 42 volte. A qualche malpensante inizia a sorgere un sospetto: non è che il contratto di Nenè sia stato ‘gonfiato’ ad hoc per essere utilizzato come contropartita in qualche scambio? Sempre per puro caso, qualche giorno prima i Memphis Grizzlies hanno dichiarato di non volersi separare da Andre Iguodala tramite un buyout, ma di voler imbastire una trade. Se i Rockets utilizzassero Nenè e il suo contrattone come contropartita, basterebbe aggiungere qualche giocatore di contorno per portare a casa il tre volte campione NBA. Oltretutto, non pagherebbero nemmeno i bonus, visto il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Dopo una breve riunione, NBA e Associazione Giocatori, novelli vigili urbani, sventolano la paletta rossa; i bonus non saranno conteggiati nel valore finale del contratto. Ora, Houston si trova a libro paga un trentasettenne che, molto probabilmente, non arriverà a 45 partite stagionali e che dovrà comunque scambiare entro la trade deadline di febbraio, per evitare che il contratto sia garantito anche per il 2020/21. Chissà come se la staranno ridendo, in Cina.
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Posizione numero 9: D’Angelo Russell & Tyreke Evans
La fine di aprile, per un giocatore NBA, può avere due significati: arrivano i playoff, oppure arrivano le vacanze. Se la tua squadra viene eliminata al primo turno, le due cose finiscono per combinarsi alla perfezione. E’ il caso di D’Angelo Russell e Tyreke Evans, protagonisti di un’estate piuttosto ‘alternativa’. La loro avventura in post-season finisce tra il 21 e il 23 aprile, quando Brooklyn Nets e Indiana Pacers vengono sconfitti da Philadelphia 76ers e Boston Celtics. Smaltita la delusione, è finalmente tempo di vacanze!
Il 2 maggio D’Angelo , carico di entusiasmo (e non solo), si reca all’aeroporto LaGuardia (ma c***o, anche tu, dai… un minimo d’intuito!) di New York. Deve imbarcarsi per la natia Louisville, Kentucky, dove farà visita al padre. Tutto sembra procedere per il meglio, finché nella valigia del giocatore viene trovata una lattina dai colori psichedelici, riportante la scritta “Arizona Iced Tea”. All’interno, però, il tè è chiuso in una bustina, e non sembra un prodotto tipico dell’Arizona. Anzi, forse non è nemmeno tè. Aprendo il pacchetto e annusandone il contenuto Da un’analisi più accurata, si capisce che la sostanza nella lattina è marijuana.
Al terminal è subito il caos. Il giovane All-Star si giustifica dicendo: “Io non ne so assolutamente nulla, la valigia è di mio fratello D’Alessio“. Gli agenti lo portano al comando di polizia, dove iniziano a setacciare minuziosamente i loro archivi. Quella che emerge è una storia di grande degrado sociale. Il babbo, DeFilippo Russell, ha due passioni preponderanti: la musica napoletana (oltre a D’Angelo e D’Alessio, ha altri tre figli: DiCapri Russell, Ranieri Russell e la piccola Laurito Russell) e la droga. Nel 2015, mentre il giovane D’Angelo si preparava a sbarcare in NBA, DeFilippo era stato arrestato per possesso di marijuana e codeina. Vengono recuperati alcuni filmati, risalenti alle ultime estati, che mostrano come i valori paterni siano stati tramandati ai ragazzi, i quali sono soliti darsi alla baldoria sia nelle tranquille serate casalinghe (che rischiano però di diventare estremamente pericolose), sia nelle scampagnate all’aria aperta. Non volendo infierire ulteriormente su una situazione familiare già così delicata ed essendo la dose trovata nella bustina inferiore a 50 grammi, gli ufficiali decidono di rilasciare il ragazzo. Prima però, gli consegnano un’altra busta, contenente una convocazione in tribunale, e gli pongono un quesito fondamentale, in vista del processo: “Senti un po’, Ninodangelo, ma chi ve la dà tutta quella roba?”. La futura guardia di Golden State ci pensa a lungo, ma poi decide di vuotare il sacco: “Ce la dà la nonna. La roba è tutta di nonna Grace.”. Gli agenti sembrano interdetti, ma alla fine lo lasciano andare. Il giorno dopo, un detective viene mandato nelle bucoliche pianure del Kentucky a indagare sulla vecchina in questione. Ci metterà poco a intuire che le parole di D’Angelo rischiano di aprire un vero e proprio Vaso di Pandora.
Il collega Tyreke, dal canto suo, decide di tener fede al suo nome ‘giocando’ in modo più pesante. Il 17 maggio viene squalificato per due anni dalla NBA dopo aver fallito un test antidroga. Vista la tipologia degli esami e l’entità dell’inibizione, si deduce che l’ex Rookie Of The Year sia risultato positivo ad almeno una sostanza fra anfetamine e metanfetamine varie, cocaina, LSD, eroina, codeina e morfina. Interrogato a riguardo, Evans rilascia una sconvolgente video-intervista, in cui ammette senza problemi le sue innumerevoli dipendenze.
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Posizione numero 8: i Los Angeles Lakers
All’inizio della nuova stagione, i Los Angeles Lakers partono tra gli assoluti favoriti per la conquista del titolo NBA. Gli arrivi di Anthony Davis e di un gruppo di solidi veterani da affiancare a LeBron James nella caccia all’anello fanno sì che l’estate gialloviola possa essere considerata un successo. Prima che tutto si concludesse con un ‘lieto fine’, però, l’avvincente saga californiana ha regalato gli ultimi (?), memorabili fuochi d’artificio.
In concomitanza con la fine della regular season 2018/19, le dimissioni di Magic Johnson da president of basketball operations (9 aprile) e la rescissione consensuale del contratto di coach Luke Walton (12 aprile) gettano la franchigia nel caos. Mentre da fuori si cerca di capire chi, tra Rob Pelinka, Jeanie Buss, LeBron James, Phil Jackson, Kurt Rambis, la moglie di Kurt Rambis, Kobe Bryant, la moglie di Kobe Bryant, Alex Caruso, la moglie di Alex Caruso, Jack Nicholson e Wendy (sua moglie nel film Shining) prenda realmente le decisioni, c’è da assegnare la panchina vacante. Ed è qui che viene raggiunto l’apice del grottesco.
Nello scorso episodio di Garbage Time, l’altra NBA, ci eravamo lasciati in pieno toto-allenatori. Una volta sfanculati da abbandonate le piste Doc Rivers e Rick Carlisle, i Lakers avevano ristretto il novero dei candidati a Monty Williams e Tyronn Lue (alla faccia dei maligni, che accusavano LeBron di influenzare troppo il front-office). La situazione trascende nel patetico il 3 maggio, in concomitanza con il quarantaduesimo compleanno dell’allenatore campione NBA 2016. In giornata, Monty Williams trova un accordo con i Phoenix Suns, lasciando la pista sgombra per una romantica reunion tra Lue James e il suo vecchio, amato head coach. Da quel momento inizia un corteggiamento spudorato, manco si trattasse di Red Auerbach. In serata, Lue spegne le candeline su una torta raffigurante un canestro, il logo dei Lakers e la scritta “Happy Birthday Coach” (la scena viene immortalata in una foto la cui veridicità non è mai stata smentita dai protagonisti). Il matrimonio cestistico tra le due parti sembra ormai cosa fatta, ma le trattative si interrompono sul più bello. La stampa locale attribuisce la clamorosa ‘fumata nera’ (è una metafora, D’Angelo, stai tranquillo…) a una netta differenza tra richiesta e offerta economica e a un disaccordo sui componenti del coaching staff. Secondo i meglio informati, invece, dietro all’inatteso rifiuto ci sarebbe la delusione di Lue per non aver ricevuto un messaggio di auguri da parte di LeBron, il suo allievo prediletto. L’esito della vicenda avrà un forte sapore di beffa, per i Lakers; a metà agosto, Tyronn Lue viene ingaggiato dai ‘cugini’ Clippers, come assistente di Doc Rivers. La figuraccia non va per niente giù ai tifosi gialloviola, che organizzano addirittura una protesta in stile ultras italiani. Il 10 maggio, una decina di perdigiorno supporter si ritrova di fronte allo Staples Center armata di cartelloni contro la dirigenza e contro lo stesso LeBron James. Alcuni inneggiano addirittura alla famiglia Ball (che ritroveremo più avanti, non temete), chiedendo, a questo punto, di puntare su papà LaVar come capo-allenatore.
La matassa si sbroglia tre giorni dopo, quando la panchina viene affidata a Frank Vogel, affiancato da un assistente piuttosto ‘ingombrante’: Jason Kidd. La situazione è finalmente stabile e, il 15 giugno, la chiusura della trattativa per Anthony Davis regala all’ambiente gialloviola un entusiasmo che non si avvertiva da tempo. Fine dello show dunque? No, per fortuna! A mantenere in vita lo spettacolo ci pensa colui che lo ‘Showtime’ l’aveva creato, negli Anni ’80: Earvin ‘Magic’ Johnson. ‘Mr. Tampering Man’, futuro hall of famer di questa rubrica, trova il modo per alzare ulteriormente lo standard di eccellenza della specialità. Il primo luglio inizia la free-agency e il piatto più prelibato si chiama Kawhi Leonard, fresco campione NBA e Finals MVP con i Toronto Raptors. Sebbene Magic non sia più alle dipendenze dei Lakers, il suo istinto tamperistico è più vivo che mai. Johnson tenta quindi un numero mai visto in precedenza: il tampering esterno (no, non è un assorbente). L’ineffabile istrione, unendosi a James e Davis, tempesta di telefonate il povero Kawhi il quale, dopo un po’, si trova costretto a rispondergli in malo modo. L’obiettivo di fargli indossare la maglia gialloviola fallisce miseramente, tra le risate di scherno di Leonard e del suo entourage (i quali avevano chiaramente intimato alle pretendenti di mantenere il totale riserbo). Mentre Magic si vanta pubblicamente dei suoi inutili tentativi, Kawhi segue Lue ai Clippers e si porta dietro anche Paul George, altro ‘promesso sposo mancato’ dei Lakers.
In questi casi, si ricorre spesso all’immortale sentenza lasciata ai posteri da Igor, il bizzarro maggiordomo del film Frankestein Junior: “Potrebbe esser peggio… Potrebbe piovere!”. Ma anche in casa Lakers, come nel capolavoro di Mel Brooks, piove veramente! Il 17 ottobre, la rottura di una tubazione scatena un diluvio nella sala stampa dello Staples Center. Che sia un oscuro presagio? Oppure un semplice trailer per la nuova stagione della più avvincente sit-com della storia NBA?
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Posizione numero 7: La famiglia Ball
Ve lo giuriamo sull’amicizia tra Lega e Russia: noi ci proviamo a non menzionare i Lakers e la famiglia Ball. Sappiamo benissimo che il primo argomento può ledere la sensibilità di molti tifosi e che il secondo non fa altro che alimentare il circo gestito da quel clown di LaVar Ball. Però ogni vicenda legata in qualche modo alla NBA che contiene figure da cioccolatai, cadute di stile e fesserie di vario genere DEVE essere riportata fra queste righe, per puro dovere di cronaca. E anche perchè, non possiamo negarlo, il Big Baller Brand ci paga milioni, miliardi, fantastiliardi di petroldollari per parlare (male) dei suoi fondatori e dei suoi testimonial.
La parte del leone (o di qualcos’altro che faccia rima), stavolta, la fa il figlio mezzano di LaVar, LiAngelo Ball. Dipinto dal padre come una sorta di fusione tra Michael Jordan, LeBron James, Wilt Chamberlain e Chuck Norris, conquista a tal punto gli scout NBA che nessuna franchigia lo sceglie al draft 2018. Mai domo, riesce a intrufolarsi nelle selezioni per la G-League, ma viene rimbalzato senza pietà. Nel frattempo papà, deluso dalla poca lungimiranza dei general manager e dalla mancanza di tatto di UCLA, che aveva sospeso il buon ‘Gelo per aver taccheggiato in un negozio in Cina (come se fosse un reato, ma dai… Lasciamoli divertire ‘sti ragazzi…), fonda una lega professionistica alternativa, la Junior Basketball Association. Sponsorizzata dal BBB, la lega vanta la bellezza di otto squadre, chiamate tutte Ballers. LiAngelo smentisce categoricamente di volersi unire; d’altronde, lui è superiore, è un talento da NBA. A luglio, però, la nostalgia prende il sopravvento, e Geluzzo diventa un nuovo giocatore dei Los Angeles Ballers. Per fargli posto viene tagliato Brandon Phillips, che poco dopo accusa LaVar e soci di avergli pagato solo un terzo del salario pattuito e di non avergli rimborsato le spese di viaggio. Il fenomenale figliolo fa registrare cifre mostruose in campo, forse leggermente condizionate dal fatto di aver giocato un totale di 4 partite a quasi 42 minuti di media. Ad agosto, i Ballers (come da facilissimo pronostico, visto che tutte le squadre hanno lo stesso nome) vincono il prestigioso titolo JBA. LiAngelo viene nominato MVP, Cavaliere del Lavoro, Presidente degli Stati Uniti e Santo Padre. Ormai è pronto per dominare anche in NBA.
Ad aprile, LaVar è categorico: “LiAngelo è molto meglio di Zion Williamson. Se fosse uscito oggi dal college, sarebbe lui la prima scelta assoluta”. Poi, fa un clamoroso (…) annuncio: “‘Gelo parteciperà alla Summer League 2019! La NBA può iniziare a tremare”. L’attesa per il suo debutto è palpabile, ma a rovinare i sogni di gloria di mezza NBA ci pensa la malasorte. A giugno, un intristito LaVar dichiara: “Purtroppo, LiAngelo dovrà operarsi alla caviglia, per cui niente Summer League… Ringraziate il cielo, avversari! In ogni caso, state in guardia: rientrerà in tempo per l’edizione 2020!“. Qualche maligno opina: “Ma non ha fatto una mazza da agosto a oggi, come ha fatto a infortunarsi? E poi si deve operare proprio adesso? Che minchia doveva fare prima?”. Poi spuntano fuori i soliti professoroni, che pensano di saperne più degli altri sui tempi di recupero: “Azz, meno male che tra un anno avrà recuperato! Avevo paura che non ci fosse abbastanza tempo!”.
Nonostante il terribile problema fisico, talenti come il suo non si possono lasciar scappare. A settembre, riecco LaVar, più orgoglioso che mai: “I Brooklyn Nets hanno manifestato interesse per LiAngelo, così come i Miami Heat e gli Oklahoma City Thunder. Peccato che si sia infortunato, altrimenti dovevate preparare lo spumante per il prossimo giugno”. Ovviamente, nessuna delle squadre menzionate conferma di aver messo gli occhi su uno che, negli ultimi due anni, ha giocato solo 7 partite nella lega di suo padre. Che sia tutta pretattica? Che non vogliano mostrare le loro carte? Pavidi che non sono altro…
Non sono solo le peripezie del prode LiAngelo a tenere banco in casa Ball. Lonzo, che incredibilmente non è riuscito a guidare i Los Angeles Lakers al titolo NBA, viene spedito con una valigia piena di ringraziamenti ai New Orleans Pelicans. Un incidente di percorso poco gradito sia dal padre, che accusa i gialloviola di aver commesso il più grave errore della loro storia, sia dal figlio, il quale si sfoga pubblicando un video rap contenente uno spietato dissing contro la sua ex-squadra: “Lo sai che mi occupo dei miei affari, ma L.A. si pentirà della sua decisione”. Dopo aver ascoltato tale capolavoro, Eminem ufficializza il suo ritiro dalle scene, chiedendo scusa per non essere mai stato all’altezza, Snoop Dogg promette che, d’ora in poi, si dedicherà esclusivamente al giardinaggio e Sfera Ebbasta sentenzia: “Non è la mia tazza di tè, ma me l’hai fatta piacere. Hai spaccato!”.
Oltre che illuminando la scena hip-hop, Lonzo passa la sua estate gettando ulteriore fango (con la M maiuscola) sul suo ormai ex-marchio, il Big Baller Brand. Queste le sue parole: “Le scarpe che avevo durante la Summer League erano davvero di pessima qualità: le ZO2 semplicemente non erano fatte per giocare a basket. Darren Moore si portava sempre dietro uno zaino con 4 paia delle mie scarpe, perchè dovevo cambiarle ogni quarto di gioco o si sarebbero rotte. Non si può giocare a basket con delle scarpe che si possono rompere dopo un quarto di una partita“. Niente male, come recensione!
A preoccupare maggiormente il povero LaVar, però, è il terzogenito, il giovane LaMelo. In campo, il ragazzo promette di fare strada: gli scout fanno carte false per vederlo giocare e i siti specializzati lo danno come possibile scelta in lotteria al prossimo draft NBA. A casa, invece, la situazione è più complicata. Da tempo, LaVar si è accorto di come il figliolo si stia pian piano discostando dai sani principi trasmessi con tanta saggezza da suo padre. Un giorno, LaVar sorprende ‘Melo in cattiva compagnia; è la goccia che fa traboccare il vaso. Anzi, IlVaso. Un sano confronto padre-flglio non è più rimandabile.
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Posizione numero 6: Darren Collison
Se pensate che Tyreke Evans sia il giocatore che gli Indiana Pacers hanno perso per la ragione più imprevedibile, probabilmente vi è sfuggito il motivo per cui Darren Collison, ad appena 31 anni, ha deciso di ritirarsi dalla NBA. Mettiamo subito le mani avanti (anche perchè scrivere con le mani dietro è impossibile): i livelli di epicità raggiunti da Chris Douglas-Roberts, a.k.a. Supreme Bey, protagonista indiscusso dello scorso episodio di Garbage Time, l’altra NBA (se ve lo siete persi, prima vergognatevi, poi recuperatelo qui), non saranno mai pareggiati. La vicenda di Collison si può forse paragonare a quella di Spencer Butterfield, passato dalla Serie A italiana alle agenzie immobiliari americane. Ma, come scriverebbero i giornalisti veri (da non confondere con Thegiornalisti, ormai defunto complesso musicale), andiamo con ordine.
Darren Michael Collison nasce a Rancho Cucamonga, una cittadina dal nome bellissimo e dall’aspetto sicuramente meno piacevole nella zona di Los Angeles… Va bè, dai, cerchiamo di velocizzare: a UCLA sembrava un playmaker che avrebbe spaccato il mondo e dominato in NBA, invece quello si è rivelato il suo compagno Russell Westbrook. Lui ha avuto una carriera comunque onestissima: dieci anni in NBA tra New Orleans, Indiana, Dallas, Los Angeles (sponda Clippers), Sacramento e nuovamente Indiana, partendo spesso come point guard titolare. L’unico ‘incidente di percorso’ è arrivato il 30 maggio 2016, quando è stato arrestato per violenza domestica ai danni della moglie. Dichiaratosi colpevole, è stato condannato a venti giorni di reclusione e tre anni di libertà vigilata. La NBA lo ha sospeso per le prime 8 partite della stagione 2016/17 e Collison ha partecipato volontariamente a un programma anti-violenza, organizzato dalla lega stessa.
Archiviata la spiacevole parentesi, la sua carriera è proseguita tranquillamente, fino all’eliminazione dei suoi Pacers al primo turno degli scorsi playoff. Mentre Tyreke Evans si faceva pescare con il naso nel sacco, il buon Darren completava l’accoppiata diavolo-acqua santa con il seguente annuncio: “Sebbene io ami ancora il basket, so che ci sono cose più importanti, ovvero la mia famiglia e la mia fede. Sono un Testimone di Geova, e la mia fede significa tutto per me. Provo tanta gioia nel fare volontariato, nell’aiutare gli altri e nel diffondere il Verbo per il mondo. La gioia che provo è impareggiabile. Detto questo, ho deciso di ritirarmi dalla NBA.”.
Con la speranza che (citando una memorabile battuta della Gialappa’s Band, riferita all’altrettanto memorabile calciatore-reverendo Taribo West) predichi bene e razzoli altrettanto, quello di Collison è un vero e proprio atto di fede. Rinunciare agli svariati milioni che avrebbe certamente guadagnato con il prossimo contratto NBA per dedicarsi alla professione religiosa potrà sembrare stupido a molti, ma è indubbiamente una scelta coraggiosa. La sua storia non è sfuggita a una casa di produzione cinematografica, la stessa che aveva impresso su pellicola la vicenda umana di Royce White (se non sapete di cosa si tratti, sentitevi profondamente in colpa, cospargetevi il capo di cenere e recuperate qui lo scorso episodio di Garbage Time, l’altra NBA). A breve, la svolta spirituale di Collison diventerà una fiction. A giudicare dal trailer, si sente puzza di capolavoro.
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Posizione numero 5: la pensione di Wade e Nowitzki
C’è chi dopo aver appeso le scarpe al chiodo va a vendere case, chi si dedica alla professione di fede e chi diventa un vero e proprio ‘santone’. Ci sono alcuni ex-giocatori NBA che rimangono nel giro in veste di commentatori, altri che provano a diventare allenatori. Poi ci sono quelli che non fanno una cippa, come Dwyane Wade e Dirk Nowitzki. Terminate in contemporanea le loro lunghe e pluridecorate carriere NBA, i due hanno rinfoltito la schiera dei cosiddetti ‘baby-pensionati’.
L’impatto con la nuova condizione sociale può essere assorbito con modalità diverse. Alcuni, non sapendo più come occupare le loro giornate, finiscono per perdere il controllo, regredire psicologicamente e fracassare inesorabilmente gli zebedei alle loro famiglie. Lo storico capitano dei Miami Heat appartiene a questa categoria. La signora Wade, la conduttrice/attrice/modella (che caspita di lavoro fa?) Gabrielle Union, ospite al The Late Show di James Corden, offre un resoconto dettagliato sulla nuova vita del marito, avvalendosi di filmati che non lasciano scampo a equivoci: “Non ha idea di cosa stia succedendo attorno a lui. […] Ora che si è ritirato si sorprende di qualsiasi cosa. Della casa, della collezione di pantaloni corti di ogni colore. Non ha idea nemmeno di quanto costi il latte. Credeva di dover spendere 20 dollari per comprarlo… […] Non era mai stato in un autolavaggio, e l’ha trovato un posto fantastico. […] È tutto un’avventura per lui. Come scoprire che esistono i coupon per fare la spesa al supermercato o portare dal veterinario i nostri 5 cani (tra cui Gaetano, fonte di innumerevoli problemi, ndr.)”.
Nowitzki, d’altro canto, la prende con maggiore filosofia. Anzi, la disoccupazione lo rende persino entusiasta! Interrogato su quali siano i suoi propositi per l’estate, risponde così: “Bere, mangiare di tutto, è ciò che ho sempre sognato. Stare in vacanza senza preoccuparsi di niente, di stare in forma. Riprenderò ad allenarmi, ma per ora non ho motivazioni per farlo”. In un’altra intervista, conferma che le sue intenzioni non sono certo cambiate: “Mangio tutti i giorni un gelato. Mi sono provato alcuni completi e non mi stanno già più. Penso di pesare circa 7 kg in più. Onestamente, non mi sono più allenato dall’ultima partita disputata. Quest’ultima stagione è stata dura. Molte persone non lo hanno notato ma ho fatto fatica. Avevo male durante le partite. Non mi sono divertito come mi accadeva negli anni passati. Come mi sento? Sollevato”.
Un approccio decisamente più rilassato e consapevole, ma solo in apparenza. Le persone che hanno incontrato Nowitzki di recente si dicono sinceramente preoccupate per il campione tedesco. Alcuni abitanti di Manerba del Garda, che preferiscono rimanere anonimi, sostengono che Dirk, in campeggio con un amico sulle sponde del lago, si sia mostrato piuttosto insofferente nei confronti della popolazione autoctona. Impressioni negative sono giunte anche da un ristoratore locale, che ha notato come il regime alimentare di WunderDirk stia effettivamente prendendo una deriva pericolosa.
Insomma, qualcuno trovi un’occupazione ai due vecchi All-Star! Wade ha dichiarato di volersi allenare a Los Angeles con l’amico LeBron James, adducendo la vecchia e banale motivazione: “io mi sono ritirato, ma non si sa mai…”, ma credere che lui e Dirk possano tornare davvero in NBA appare più un’utopia, che una speranza realistica. Ettore Messina, ci sei? Se può giocare Luis Scola, cosa ti avranno mai fatto di male due Finals MVP? Ma ti immagini che partite a briscola con loro tre? Da noi si troverebbero sicuramente bene; c’è la Milano da bere, la settimana della moda, un sacco di cantieri… Forza, salviamoli finché siamo in tempo!
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Posizione numero 4: Jimmy Butler e i nuovi Miami Heat
L’arrivo di Jimmy Butler ai Miami Heat è stata una delle mosse più importanti dell’ultima off-season NBA. Pat Riley ed Erik Spoelstra lo hanno voluto per raccogliere il pesante testimone del neo-pensionato Dwyane Wade e riportare la squadra ai playoff. Inizialmente, qualcuno ha sollevato delle perplessità sul valore dell’operazione, soprattutto in virtù del fatto che nessun’altra superstar abbia ancora raggiunto Butler in Florida. E se il solo Jimmy non fosse sufficiente per tornare competitivi?
Con l’inizio del training camp, però, si comincia a capire che il nuovo numero 22 è stato scelto principalmente per un motivo: dare una svolta attitudinale alla franchigia. La notte precedente la prima sessione di allenamento, il custode della training facility degli Heat è dedito alle sue consuete attività: trangugiare burritos e inviare foto del membro alle sue amiche su Whatsapp. Alle 3.30, d’improvviso, sente bussare alla porta. Trasale, prende la lupara e si precipita allo spioncino; con sua enorme sorpresa (la stessa provata dalle destinatarie dei suoi messaggi), si trova di fronte Butler, armato di pantaloncini, canotta, fascetta per i capelli e tanto, tantissimo entusiasmo. “Allora, Pedro, battiamo la fiacca? Dai, accendi le luci, tira fuori il carrello dei palloni e prepara il bilanciere, si comincia! E tirati su quella cerniera, perdio!”. Pedro, sconcertato, si sistema la zip e controlla il programma di allenamento affisso in bacheca: la prima seduta è prevista alle 10 di mattina, ben sei ore e mezza più tardi. L’indomani, ‘Jimmy G. Buckets’ (che in estate si era presentato alla stampa dicendo: “Non sono lo stronzo che pensate io sia”) è piuttosto chiaro, ai microfoni dei giornalisti: “Voglio che la cultura del lavoro, qui, si sposi al meglio con la mia etica del lavoro. Oggi ho fatto un po’ di allenamento extra mentre la maggioranza di voi stava ancora dormendo. Mi piace lavorare in palestra. A che ora sono arrivato oggi? Alle 3.30 di notte. Voi stavate ancora dormendo, vero?”.
Coach Spoelstra è in brodo di giuggiole: “La sua è una mentalità da Hall Of Fame”. Anche i compagni sembrano positivamente impressionati dall’approccio dell”ex giocatore dei Sixers tanto che, la notte successiva, il suo esempio viene seguito da Bam Adebayo e Meyers Leonard. Quest’ultimo commenta così la sua decisione:“Se mentre sogno c’è qualcuno che si allena alle 3.30, questo mi dà onestamente fastidio. Voglio esserci anch’io. La sveglia l’altra mattina per me è suonata alle 3.10. Sono sceso, ho bevuto la mia tazza di caffè ed ero pronto per il rock and roll mattutino”. Una cultura nuova, senza dubbio, ma guai a pensare che siano tutte rose e fiori, in quel di South Beach. Poco dopo il raduno, infatti, James Johnson viene allontanato dal gruppo poiché “fuori forma”. La franchigia annuncia che verrà riammesso quando si ripresenterà in condizioni ottimali.
I molteplici risvolti di questa vicenda meriterebbero un’analisi più approfondita. E che ci stiamo a fare noi di Garbage Time, l’altra NBA? A fine settembre, abbiamo obbligato con la forza un nostro collaboratore a recarsi nella fredda e squallida Miami e a infiltrarsi al training camp degli Heat. Seppur visibilmente provato dallo sforzo, il nostro inviato ha svolto un lavoro egregio, realizzando un reportage sconvolgente che getta una luce diversa su quanto accaduto. Da ciò che emerge, è stato proprio Jimmy Butler a dirigere il raduno, mettendo letteralmente sotto torchio i suoi nuovi compagni. Sveglia rigorosamente all’alba (domenica inclusa) e una serie di massacranti prove fisiche, che hanno impietosamente evidenziato il ritardo di preparazione di James Johnson. Per il numero 16 sono stati giorni d’inferno. Quando Butler ha scoperto una sua grave violazione del regolamento interno, poi, l’allontanamento è stata una naturale conseguenza. A dare un po’di tregua al nuovo ‘regime di terrore’ è arrivata una notizia per certi versi inaspettata, visto il personaggio in questione: Jimmy, diventato padre di una splendida bimbetta, ha dovuto assentarsi per qualche giorno, saltando le prime partite di regular season. Forse, dietro a quella corazza impenetrabile, si nasconde davvero un cuore d’oro…
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Posizione numero 3: BangBros
Aspettate a mandare a letto i bambini, si parla comunque di bask…. Anzi, mandateli pure a letto. Anche se fossero le tre del pomeriggio, dite loro che c’è sempre un valido motivo, che voi alla loro età avreste obbedito senza fiatare e via discorrendo. Qui la faccenda si fa decisamente scottante. Restiamo a Miami, la casa del perennemente stupito Wade e del sergente Butler, perchè dalla metropoli sulla spiaggia arriva la notizia che Garbage Time, l’altra NBA aspettava da sempre.
Nel 2020 scadrà il contratto di sponsorizzazione che lega l’arena degli Heat e American Airlines. Visto che la compagnia aerea ha già dichiarato di non voler rinnovare la partnership, la franchigia di proprietà di Micky Arison si sta muovendo per valutare nuove proposte. Ed è qui che scendono in campo i geni. Il 13 settembre, sulla scrivania di Arison compare un’offerta da dieci milioni di dollari in dieci anni, firmata nientemeno che da BangBros, noto (solo per sentito dire, ovviamente) portale hard con sede proprio in città. L’azienda, che motiva la proposta con la frase “Non c’è niente di più tipico per Miami”, propone di rinominare il palazzetto BangBros Center, abbreviabile in BBC. Peccato che quella sigla, negli USA, non evochi solamente il trio difensivo della Juventus (Barzagli – Bonucci – Chiellini) e la storica emittente televisiva britannica. Pare, infatti (ma anche qui ci basiamo esclusivamente su informazioni di seconda mano), che BBC sia anche un acronimo in cui le due B stanno per Big e Black e la C si riferisce a un animale da fattoria che è solito cantare al mattino. Stando alle opinioni dei puritani della zona, associare l’espressione “grande gallo nero” a un evento in cui un gruppo di maschioni super-fisicati, in buona parte afroamericani (uno dei quali soprannominato ‘Bam’), si barcamena tra falli e penetrazioni, sarebbe poco elegante. Mah, valli a capire, ‘sti americani…
Per vincere lo scetticismo e la taccagneria (“American Airlines aveva offerto 42 milioni per vent’anni” vi pare una scusa credibile per rifiutare?) dei possibili partner, la stimata (solo da persone immorali, naturalmente) società invita Arison e Pat Riley a una serata di presentazione del marchio. Proprietario e presidente appaiono piacevolmente coinvolti dall’atmosfera elegante della location e dal buon gusto dello staff. Ad un certo punto, però, la trattativa si arena improvvisamente. Secondo fonti vicine alla franchigia, l’improvviso dietro-front sarebbe dovuto a un piccolo misunderstanding tra Arison e una delle dipendenti. E’ proprio vero: a volte il diavolo (e non solo) si nasconde nei dettagli (e non solo)…
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Posizione numero 2: Josh Jackson
Per superare BangBros nella poco invidiabile Top 10 di Garbage Time, l’altra NBA, ci volevano dei veri e propri ‘casi umani’; eccoli serviti. Il primo si chiama Josh Jackson, ed è la spiegazione vivente del proverbio “Chi nasce pirla, non può che morire testa di cazzo” (forse era un po’ diverso, ma così spiega meglio il soggetto in questione).
Facciamo un piccolo salto indietro, tornando a giugno del 2017. In avvicinamento al draft, c’è molta incertezza su quali giocatori verranno selezionati con le prime chiamate. In particolare i Boston Celtics, che hanno i diritti sulla terza scelta, sono indecisi tra Jayson Tatum, ala di Duke, e Josh Jackson, pari-ruolo di Kansas. Entrambi giocatori talentuosi e versatili, il loro inserimento in un gruppo già solido e collaudato come quello di Brad Stevens potrebbe far compiere il decisivo salto di qualità ai biancoverdi. Per dissipare ogni dubbio, il general manager Danny Ainge organizza un incontro conoscitivo con entrambi i prospetti. Il colloquio con Jackson non si conclude nel migliore dei modi, così alla fine la spunta Tatum. Jackson viene scelto dai Phoenix Suns con la quarta chiamata; ci vorrà pochissimo tempo per capire a quale delle due franchigie sia andata meglio.
Il 21 ottobre, Tatum è già diventato l’idolo del TD Garden. Dopo il bruttissimo infortunio occorso a Gordon Hayward, il ragazzo si è ritrovato improvvisamente in quintetto, e ha risposto andando in doppia cifra in due delle sue prime tre partite NBA. Quella sera, Josh Jackson è allo Staples Center di Los Angeles, dove i suoi Suns vengono piastrellati dai Clippers con un eloquente 130-88 (42 punti di scarto; quasi una vittoria, rispetto al -48 incassato tre giorni prima, contro Portland). Anche Jackson, come Tatum, non sta andando malissimo: 11 punti nella gara di debutto, 12 contro i Lakers e 12 in quest’ultima partita. Sul finire dell’incontro, però, ecco il primo segnale di squilibrio. Tornando in panchina, Jackson si rivolge a un tifoso (presumibilmente idiota quanto lui) mimando una serie di spari e concludendo l’esibizione con un “fuck you” che farebbe la gioia dell’aspirante sponsor dell’arena di Miami. La romantica manifestazione d’affetto non va particolarmente a genio alla NBA, che infligge al giocatore una multa da quarantacinquemila dollari. Jackson si giustifica così: “Volevo mostrare a quel tifoso il dito medio, ma poi c’ho pensato e non l’ho fatto perché sarebbe stato sbagliato. Quindi ho cercato di fare una cosa simile che non si riconoscesse. […] Mi hanno chiamato con diversi nomi mentre tornavo in panchina, è questo che mi ha mandato fuori di testa”. In realtà, pare che il dito medio fosse semplicemente un cenno di saluto, che Jackson avrebbe imparato guardando la TV. Non è ancora chiaro, invece, quali fossero gli “altri nomi” a cui si riferiva Josh; probabilmente, il molesto supporter l’avrà chiamato Michael Jackson, chissà… Ad ogni modo, non si tratta della prima multa presa dal giocatore nella sua brevissima carriera. Ai tempi del college, infatti, lui e il compagno LaGerald Vick (talento spropositato, così come la sua ignoranza), avevano distrutto l’auto della fidanzata di quest’ultimo, McKenzie Calvert, componente della squadra femminile di basket. Lo scherzetto, arrivato in seguito ad alcune frizioni tra le parti, era costato ai due compagnoni (che viaggiano sempre in coppia, si sa) una sanzione da tremila cucuzze pro capite.
Durante la sua permanenza in Arizona, Jackson si fa notare più per le sue prodezze fuori dal campo, che per i suoi effettivi progressi tecnici. Il primo gennaio 2018 si presenta all’allenamento mattutino visibilmente ubriaco e reduce da un after da paura. Quando coach Jay Triano lo incarica di una rimessa laterale, lui si volta e spara una vomitata degna dell’Esorcista; seduto in panchina per tutto l’incontro successivo. La situazione non migliora al suo secondo anno NBA. Il 27 febbraio, è atteso a un incontro promozionale con i fan, a cui partecipa anche il general manager dei Suns, James Jones. Quest’ultimo scalda il pubblico: “Siete carichi? Tra poco sarà con noi nientemeno che Joooooooooosh Jackson!! Su le mani!”. Passano i minuti, e l’entusiasmo va scemando: “Tra poco arriva, SunsNation, abbiate fede! La speranza è l’ultima a morire e Jackson è l’ultimo ad arrivare, ma arriva!”. Alla fine Jackson non arriva. Il GM cerca di rimediare offendo birre ai presenti e bevendone lui stesso tre o quattro, per non pensare. Jones telefona al giocatore senza ottenere risposta. Jackson lo richiama qualche ora più tardi, ma le sue spiegazioni sono confuse e tutt’altro che convincenti. Quale calamità avrà trattenuto il giovane atleta? Il traffico? Un improvviso malore? Uno tsunami? Ma no! Era andato al compleanno di un amico! Ecco un’altra bella multina, stavolta di duemila sacchi.
L’apice della vicenda umana di ‘Double-J’, però, viene raggiunto quest’estate, al termine dell’ennesima stagione vergognosa dei Suns. Il 10 maggio, tenta di intrufolarsi (senza il necessario pass) nell’area VIP del Rolling Loud Music Festival di Miami. Headliner della serata è la leggenda country-blues Michael Jimmy Bill, il suo idolo incontrastato. Bloccato dalla security, Jackson oppone resistenza e viene ammanettato. Con un colpo di genio decide di scappare, ma viene prontamente riacciuffato dagli agenti, rinviato a giudizio e infine rilasciato, dopo il pagamento di una cauzione da mille dollari. Per quanto assurdo possa sembrare, le sue peripezie non finiscono qui. A fine giugno Lorena Villela, una ragazza con cui Josh ha avuto una bambina (con immancabili dispute legali sulla paternità), accusa il giocatore di aver fumato marijuana vicino alla piccola, di appena cinque mesi, intossicandola.
Le conseguenze legali dell’estate brava di Jackson non sono ancora note. Quel che è certo è che i Suns ne hanno abbastanza: il 7 luglio, con un messaggio di stima da parte di James Jones, Josh viene catapultato a Memphis. Anche la sua nuova franchigia non sembra vedere in lui un futuro MVP; dopo aver declinato la team option per il prossimo anno di contratto (che è l’equivalente NBA della frase “facciamo che ti chiamo io quando ho tempo”), i Grizzlies lo assegnano alla squadra di G-League, dove inizierà la stagione. Dove, come e se la finirà non è ancora chiaro; dipende dalla prossima Jacksonata.
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Posizione numero 1: DeJuan Blair e D.J. Cooper
Chi sono questi due geni? A) L’ex primo ministro britannico e l’ex allenatore dell’Inter (il cui cognome è scritto diversamente, ok…) che si sono reinventati produttori dance. B) Due cestisti che hanno chiuso le loro carriere nel modo più idiota possibile. Sarebbe magnifico se la risposta esatta fosse la prima ma purtroppo, come è intuibile dall’argomento principale di questa rubrica (no, non BangBros), bisogna barrare la casella B). Ma conosciamo meglio i nostri vincitori.
DeJuan Blair, nato, cresciuto e studiato a Pittsburgh (Pennsylvania), arriva in NBA nonostante gli abbiano asportato i legamenti crociati anteriori di entrambe le ginocchia in seguito a delle operazioni chirurgiche risalenti ai tempi del liceo. Sempre in quel periodo, sale agli onori delle cronache perchè, esasperato dalle continue chiamate delle università che cercano di reclutarlo, si sbarazza in modo poco ortodosso del suo cellulare. Al draft NBA 2009 viene scelto dai San Antonio Spurs, con la trentasettesima chiamata. Come già accaduto in passato, i texani fanno bingo, trasformando una seconda scelta in un validissimo elemento da rotazione. Passa quattro stagioni più che oneste a San Antonio ma, appena cambia aria, la sua carriera si affossa; un anno mediocre a Dallas, due pessimi a Washington, poi Cina, D-League, Argentina e G-League (che è sempre la D-League, ma con i soldi di Gatorade).
Il 5 agosto 2019, arriva un colpo di mercato che fa tremare l’intera Serie A: Blair viene ingaggiato dalla Prosciutto Carpegna Basket Pesaro (per favore, diteci cosa dobbiamo fare affinché si smetta di dare i nomi degli sponsor alle squadre. Pensate a quei poveri giocatori costretti a raccontare alle loro famiglie: “Oggi abbiamo perso contro la Prosciutto Basket”. Chi gli ridarà mai la credibilità perduta? D’altro canto, non si può negare che il nome “Miami BangBros” farebbe un certo effetto).
Sulle rive dell’Adriatico serpeggia l’entusiasmo: i tifosi sognano già valanghe di scudetti, apparizioni alle Final Four di Eurolega e, perchè no, l’allargamento della NBA a 31 franchigie. Il giorno della presentazione, la Vitifrigo Arena (giustamente, il Prosciutto Basket deve stare nel Vitifrigo, altrimenti scade) si prepara a rivivere le emozioni dello stadio San Paolo di Napoli nel 1984, quando Diego Armando Maradona incontrò i suoi nuovi fan. A rovinare l’atmosfera di giubilo, però, arriva una telefonata della FIBA: “Scusate, ma a noi risulta che Blair sia squalificato fino al 2021”. Effettivamente, emerge che il giocatore non ha superato un test antidoping a cui si è sottoposto in Argentina, nella stagione 2017/18. Dopo aver visto i sogni di gloria infrangersi davanti ai suoi occhi, il presidente della VL, con l’espressione disperata di John Belushi in The Blues Brothers, si giustifica così: “Non potevamo saperlo! Nella lista squalificati Wada non risultava nulla, quella Fiba è stata aggiornata subito dopo la nota inviata a noi e Blair ha giocato in Uruguay dopo la squalifica, relativa a prodotti assunti in Argentina nel 2017″. A dare una sfumatura di giallo a questa tragedia sportiva ci pensa lo stesso Blair, il quale presenta un reclamo alla FIBA sostenendo di non aver mai letto le comunicazioni relative alla squalifica, in quanto inviate a un indirizzo e-mail non suo. Una scusa che regge, visto che la pena iniziale di tre mesi è stata estesa proprio per l’irreperibilità del giocatore. Il contratto di Blair viene rescisso e tutti amici come prima, ma a Pesaro permane il mistero: che minchia di indirizzo mail ha lasciato alla FIBA?
Donell ‘D.J.’ Cooper ha saputo fare di meglio; magari non avrà giocato nella NBA come Blair, ma ha trovato comunque il modo per entrare nella leggenda. Dopo una buona carriera collegiale a Ohio University, nessuno lo sceglie al draft 2013 (quello in cui la prima chiamata assoluta è stata spesa per Anthony Bennett, per intenderci). Così, come molti suoi colleghi, attraversa l’oceano Atlantico. Per tre stagioni fa avanti e indietro tra Grecia e Russia (presentando nel frattempo un’inspiegabile richiesta per ottenere la cittadinanza bosniaca), poi si sposta in Francia. Nel 2017, con la maglia dell’Elan Bearnais, viene eletto MVP del campionato. Al termine della stagione successiva, disputata tra le fila del Monaco, a Cooper viene comminata una squalifica di due anni per aver raggirato un controllo antidoping. La verità sulla vicenda emerge soltanto nell’agosto del 2019, e manda il nostro D.J. preferito dritto dritto nella Hall Of Fame di Garbage Time, l’altra NBA. Un’analisi più approfondita delle sue urine ha rivelato tracce di un ormone solitamente prodotto dalle donne in stato di gravidanza; in poche parole, Cooper è incinto! Il giocatore si fa prendere dal panico. Prova ad approfondire la questione affidandosi a dei professionisti, ma finisce per combinare altri guai. Disperato, chiama la FIBA, che gli fa recuperare il senno: “Maledizione, signor Cooper! Lei non è stato squalificato perchè è incinto, ma perchè ha consegnato le urine di una donna!”. Il nostro eroe si rasserena, poi però viene assalito da un forte senso di responsabilità nei confronti di Mademoiselle Silvanì, una ragazza parigina di nobili origini con cui ha passato una notte di fuoco tempo addietro e che si è gentilmente offerta di prestargli il campione per il test. Un incontro chiarificatore tra i due, a questo punto, è indispensabile.
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EPISODI PRECEDENTI:
Garbage Time, l’altra NBA – Episodio #1
Garbage Time, l’altra NBA – Episodio #2