Aaron Lionti
Aaron Lionti
Metta World Peace è tornato e si dice pronto a iniziare la sua 15esima stagione NBA dopo le esperienze in Cina e in Italia.
In un intervista per il Los Angeles Times infatti il nuovo acquisto dei Lakers ha parlato della nuova NBA e di come la lega sia cambiata rispetto al suo anno da rookie nel 1999, puntando il dito contro il livello di fisicità presente oggi all’interno della lega.
Infatti, secondo il giocatore, oggi non ci sarebbe più la stessa aggressività e intensità che avevano caratterizzato l’NBA fino agli inizi degli anni 2000 “Non è più un gioco da uomini” ha dichiarato World Peace. ” E’ diventato un gioco da bambini. Ci sono giocatori molli ovunque, sono tutti soft e nessuno veramente duro. Quindi bisogna fare i conti con ciò e sapersi adattare. I genitori sono molto protettivi verso i loro bambini, che continuano a piangere. Piangono con gli allenatori, piangono con gli arbitri ‘ È fallo, è fallo!'”.
Nella stessa intervista il giocatore ha inoltre parlato del suo nuovo compagno di squadra Julius Randle, promettente giovane della franchigia gialloviola. “La sua attitudine è forte come il suo destino” ha detto Metta a proposito di Randle “E’ già un uomo. Non posso ancora aggiungere altro perché è solo un diciannovenne e io non voglio fare previsioni sul suo futuro, ma gli succederanno tantissime belle cose da qui fino ai 30 anni”.
Come si intuisce dalle dichiarazioni, secondo Metta World Peace Randle non è uno di quei giocatori che rientra nella categoria “soft”: al contrario secondo l’ex giocatore di Cantù si tratterebbe di un 2.06 che non ha il minimo timore di andare a prendersi anche i contatti nel pitturato, cosa non indifferente se si pensa che non è praticamente mai sceso in campo la scorsa stagione a causa di una gamba rotta.
In queste prime partite di preseason l’ex giocatore di Kentucky ha saputo mettersi in mostra con una grande prestazione contro i Toronto Raptors (17 punti e 5 rimbalzi in soli 23 minuti di gioco) e tante buone giocate: sarà fondamentale per lui riuscire a mettersi in mostra sin da subito, in modo da conquistare il posto che gli spetta nel quintetto dei Los Angeles Lakers.
Quello che vi riportiamo qui sotto è l’appassionato e divertente racconto di Phre, membro dello staff di Orgoglio Knicks Italiano, il quale ha deciso di condividere con noi il ricordo del suo viaggio di nozze a New York, tra aneddoti e episodi di ogni genere. Avete paura che si tratti del solito racconto sdolcinato di un neo-sposo? Non temete: l’unico vero amore di cui sentirete parlare sarà quello per il basket e per la sua squadra del cuore, i New York Knicks.
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“O say can you see, by the dawn’s early light…”
Tolgo il cappello, chiudo gli occhi, voglio godermi ogni momento. Una ragazza sta cantando l’inno nazionale e intorno a me nessuno osa fiatare. La quiete prima della tempesta. A breve si scatenerà l’inferno.
“And the rocket’s red glare…”
La partita sta per iniziare. Ma non ora, non ora. Mi godo ancora quei pochi secondi di pace prima che avvenga la trasformazione in animale da tifo.
“And the home of the braaaaaave!”
Via.
4 dicembre 2012
Il cuore mi batte all’impazzata. Sono su un treno che mi sta portando da Brindisi a Milano. Lì, il giorno dopo, prenderò l’aereo. Sì, quell’aereo che ormai aspetto da tempo. Poco meno di 3 mesi fa ho sposato Daniela, la mia ragazza dai tempi del liceo, e il viaggio di nozze non poteva che essere lì, nella Grande Mela, New York City, la città che non dorme mai.
Anch’io sono a digiuno di sonno. Non ho chiuso occhio tanta è l’eccitazione per il viaggio. Il viaggio in treno è lungo, stancante, vorrei già essere su quell’aereo.
Siamo a Milano, stazione centrale. Ci dirigiamo in aeroporto. Abbiamo deciso che passeremo la notte nel terminal, per poi prendere l’aereo l’indomani mattina. Ci buttiamo in sala d’aspetto e proviamo a riposare.
Suona la sveglia, i nostri occhi sono gonfi, ma stiamo partendo per gli States, quindi chissene. Andiamo nei bagni, ci rinfreschiamo come meglio possiamo e ci dirigiamo a fare il check-in.
Non poteva andare tutto per il meglio, ovviamente. Siamo costretti a pagare un supplemento per il bagaglio a mano poiché supera di mezzo centimetro le dimensioni consentite. Di nuovo, chissene. Andiamo a New York.
Il volo prevede uno scalo a Londra, ma l’eccitazione è in crescendo, quindi non ci rendiamo conto di nulla e, imbottiti di melatonina, arriviamo al JFK.
Inizialmente avevamo pensato di risparmiare e di arrivare al nostro alloggio con la navetta o con la metro, ma siamo a pezzi e prendiamo il primo taxi disponibile, appena fuori dall’aeroporto. Con 45$ più la mancia siamo a destinazione, Harlem.
Alloggiamo presso una fantastica guest house nel cuore del quartiere nero di Manhattan, la Maison D’art, gestita da due gentilissime ragazze francesi. La camera è enorme, con bagno privato e angolo cottura. Abbiamo anche a disposizione la macchina per il caffè.
Daniela si fa subito una doccia. Io accendo la TV. Ora, alzi la mano chi sta pensando “sei a New York e guardi la TV?”. Sì, davano New York Knicks vs Charlotte Bobcats. Avevate dubbi?
Tocca a me ora fare la doccia. Oh, non vedevo l’ora. Erano praticamente 48 ore che non toccavo acqua calda. La partita è finita, abbiamo vinto di 2 punti. Non sarà l’unica partita che vinceremo in quei 10 giorni a NY.
E’ tardi, siamo a pezzi, ma la voglia di esplorare la città è tanta, quindi un rapido giro a Times Square è d’obbligo. Nella metro è pieno di cartelloni dei Knicks e io mi sento come un bambino in overdose da saccarosio.
Dopo cena si torna in camera distrutti, ma con un sorriso a 32 denti stampato sul volto. Sono a casa.
Ora, vi starete sicuramente chiedendo per quanto dovrò ammorbarvi con un diario di viaggio e quando si parlerà finalmente di basket. Tranquilli! Farò un fast-forward ogni volta che non si parlerà dei Knicks.
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Detto fatto. 6 dicembre, mezzogiorno.
Siamo in giro già da qualche ora. Abbiamo fatto colazione da Dunkin Donuts e abbiamo fatto un giro per Central Park. So dove voglio andare ora, ho visto già un paio di cartelloni pubblicitari. Fifth avenue, NBA Store.
Vengo accolto da un signore di mezza età che mi dice sorridendo: “I like your hair”. Ho i capelli tinti di bianco, si fanno notare. Stringo gioviale la mano del signore e sono pronto alla perdizione. Distese di cappelli (segnatevela questa, si parlerà per anni del “Cappellino”), t-shirt, jersey, pantaloncini, scarpe e qualsiasi altra diavoleria la mente umana possa aver associato alla NBA.
Inutile dire che faccio incetta di TUTTO: cappelli, magliette, pigiama, scarpe, tutine per bambini (no, non sono ancora papà, ma volete mettere la maglietta bimbo “My first Knicks Tee”?), tazze, tutto. Ok, ho speso praticamente metà del mio solito stipendio mensile, ma sono soddisfatto come non mai. Saluto nuovamente il gentile signore all’entrata e, affamati, ci dirigiamo da Subway.
Facciamo un salto avanti di qualche ora. Siamo ai piedi di uno dei palazzi più famosi al mondo, l’Empire State Building, ambientazione di innumerevoli film e serie TV. Entriamo, facciamo il biglietto e ci dirigiamo verso l’entrata. La sicurezza ci ferma: “Stop!”. “Cristo, che ho fatto?” penso. “Nice shoes”, mi fa il ragazzo. Ho ai piedi le Melo M8 Advance comprate qualche ora prima. “You a Knicks’ fan?” continua l’addetto alla sicurezza. “Yup, diehard italian Knicks fan” ribatto io. Vedo l’estasi esplodere nei suoi occhi. Chiama tutti i suoi colleghi spiegandogli la situazione e tutti si congratulano con me per qualcosa che in realtà non ho fatto. Deve fargli strano sapere che qualcuno a 7.000 km di distanza possa tifare così tanto la squadra della loro città. Batto un po’ di high five qui e là, manco fossi Melo in persona, e salgo sulla cima dell’Empire. Spettacolo incredibile, vista mozzafiato, ma non sono i Knicks. Fast-forward.
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7 dicembre 2012, sera.
Abbiamo appena visitato Ground Zero, la tristezza è stampata sui nostri volti. Un’atmosfera indescrivibile.
Ora però si torna verso downtown, perché c’è una cosa che ancora non ho fatto. Ci sono passato la sera prima, ma c’era un concerto e frotte di ragazzini mi impedivano l’avvicinamento. Sì, avete capito. La Mecca. Il Garden. Me ne sto lì di fronte, impalato, a fissare la scritta. Madison. Square. Garden.
Entro. I piedi sono pesanti, le mani quasi tremano. Mi guardo intorno e a momenti non capisco che sono davvero lì. “Stai piangendo?” dice Daniela. “No, devo essermi raffreddato” rispondo tirando su con il naso e asciugandomi gli occhi. Sì, stavo piangendo. Blu e arancio, blu e arancio ovunque. Faccio foto a qualsiasi cosa mi capiti a tiro, anche al pavimento. Sono nel Garden e, per la prima volta, non è un sogno
Nel letto, quella sera, l’unica cosa che riuscirò a pensare sarà che da lì a due giorni sarò di nuovo al Garden, ma questa volta… a tifare.
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9 dicembre.
Il giorno del ballo è finalmente arrivato. Ho comprato i biglietti da mesi, prima ancora dei biglietti aerei. Ospiteremo i Nuggets al Garden. Vago per la città come uno zombie, non riesco a pensare ad altro se non alla partita che fra qualche ora sarà di scena in quel palazzone ubicato sopra Penn Station.
Mancano due ore all’incontro e ci dirigiamo alla fermata della metro più vicina. Cappello e felpa dei Knicks, sotto una t-shirt di Melo e le M8 ai piedi. Sottobraccio ho due cartelloni che fra poche ore manderanno tutti i tifosi in visibilio. Arriviamo al Garden e la prima cosa che faccio è comprare la manona con la scritta che recita “Fan #1”. Mostriamo i biglietti agli stewart e di corsa di dirigiamo verso i nostri posti. Scopro con immensa gioia che i suddetti posti, molto vicini al parquet, ci permettono di assistere al riscaldamento a condizione di non mettere piede in campo e di non importunare i giocatori. C’è già Amar’e in campo che fa qualche tiro.
Tiro fuori il primo cartellone e glielo sbatto in faccia. Recita “ITALIAN KNICKS PRIDE”. Stat non mi degna di uno sguardo, ma uno dei fotografi del palazzetto mi nota e chiede se può farmi una foto. Con tutto il “pride” del mondo, alzo il cartellone più in alto che posso e “cheese”.
Nel frattempo vedo un gruppetto di ragazzini radunati a bordo campo e Amar’e nel mezzo intento a firmare autografi. Lancio il cartellone a Daniela, mi fiondo sulla folla, tolgo il cappello dalla testa, glielo porgo e BAM! Firmato! Nascerà così la leggenda del “Cappellino”.
Torno da Daniela contento come Babbo Natale a Disneyland, sotto cocaina, che fa sesso (10 punti a chi coglie la citazione). Mostro il “Cappellino” e torno a bordo campo. Ora ci sono anche Tyson, Iman, JR e Novak. Scatto un paio di foto, ma è tempo di tornare ai nostri posti. Inizia ad arrivare molta gente e la partita sta per iniziare.
Parte la musichetta, quella che poi diventerà la sigla del nostro podcast e tutto ciò che ricordo è che non riuscivo a smetterla di gridare. Urlavo i nomi dei giocatori, urlavo frasi sconnesse, metà in inglese e metà in italiano. Insomma, urlavo.
Tip-off. La partita ha inizio e io deliro, tutto intorno a me è sfocato. Riesco solo a vedere i giocatori in campo. E’ giunta l’ora di tirare fuori il secondo cartellone, quello che farà sballare tutti. BOOM! Il nirvana. “Straight from Italy on honeymoon, just to see Melo scores like a dragoon”. I tifosi intorno a me esplodono. Tutti mi chiedono di alzarlo su il più possibile. Tutti vogliono vederlo. Tutti vogliono fare una foto. Nailed it, direbbero loro. Quello che è successo dopo lo ricordo solo grazie a testimonianze video dove si può sentire un demone urlare ininterrottamente per più di due ore. No, non vi farò vedere quei video, rischierei l’internamento. Così, fra un “NOVAKAINEEE” e un “CARMELO ANTHOOOUNY” e l’alternarsi di cartelloni, la partita finisce. Il Jumbotron recita 112-106 per la squadra di casa. La mia prima partita al Garden e abbiamo vinto. Ho rimediato un autografo. Cosa può chiedere di più un tifoso?
————————————————————————————-Salto temporale di 24 ore. E’ la sera del 10 dicembre.
Sono in uno Starbucks del Greenwich Village. Ho appena visitato il palazzo dei ragazzi di Friends, un altro sogno avverato. Mi connetto al WiFi della caffetteria e scorro distrattamente la timeline di Twitter sorseggiando il mio adorato caffè americano, quando un retweet salta alla mia attenzione.
Blue & Orange, meet Green. Join @Amareisreal at the Apple Store SoHo for a special @Nikefuel event. Tonight. 7 PM.
— Nike NYC (@NikeNYC) December 10, 2012
“Corri! Corri più veloce che puoi!” urlo a Daniela. Non capisce. Con fare convulso le mostro il tweet. Capisce. Corsa contro il tempo. Apro la mappa e cerco la fermata della metro più vicina.
Sono le 18:50 e siamo all’entrata dell’Apple Store. “We’re here to meet Stat” faccio al commesso. “Who?” mi guarda lui perplesso. Who, il cazzo. “Stat, Amar’e Stoudemire” insisto. Fa spallucce. Un collega mi sente, “this way”. “Oh, the basketball player” sento che dice il primo commesso. Ci mettiamo in fila e “that’s all” dicono i commessi. Siamo gli ultimi e lo siamo per un soffio. Un secondo dopo e non sarei riuscito ad incontrarlo. Ci spiegano che possiamo scegliere se fare una foto o fare un autografo. Non so come ma ho ancora il cartellone con me e per un attimo penso che potrei farlo autografare per poi appenderlo in casa. No, ho già un autografo. Sì, il “Cappellino”. E foto sia. “How ya doin’?” mi dice con voce grave. Tremo. Gli stringo la mano. “Huge fan from Italy” balbetto. Cheese. Altra pietra miliare di questo meraviglioso viaggio.
Passano i giorni. Gli addetti alla sicurezza mi fermano e si congratulano con me un po’ dovunque quando scoprono che sono un tifoso Knicks. Non è difficile notarlo. Non ricordo un giorno dove sono andato in giro vestito senza un accessorio blu-arancio.
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Arriva il 13 dicembre.
E’ il mio penultimo giorno nella Grande Mela, poi partirò per Chicago.
Quella sera al Garden ospiteremo i Lakers, ma io non sarò lì a tifare Knicks. Questa partita è stata in ballottaggio con quella contro i Nuggets, ma è stata scartata per via dei costi troppo elevati dei biglietti.
Siamo in camera per lavarci dopo una mattinata in giro per la città. “Dai andiamo”, sento dire da Daniela mentre sono sotto la doccia. Esco con l’asciugamano attorno la vita. “Andiamo dove?”, chiedo curioso. “A vedere la partita, no?”. Ah, forse dovevo precisare sin dal principio che mia moglie tifa Lakers. “Non abbiamo i biglietti”, ribatto mogio. Gira il Macbook verso di me. E’ aperta la pagina di Stubhub. Sono stati messi in vendita due biglietti all’ultimo momento, ad un prezzo addirittura inferiore a quelli della partita di qualche giorno fa. “E’ fatta!” esclamo. Acquisto i biglietti, corro giù per le scale a chiedere alla gentile proprietaria se può stamparli. Torno su, mi vesto e dritti in metro. Non ci credo, sto tornando al Garden.
Siamo nuovamente a bordo campo, solo che questa volta siamo dalla parte dei gialloviola. Mi si para davanti Metta e immediatamente ho gli occhi a cuoricino. Come quelli di Sailor Moon, per intenderci. Poi lo raggiunge Nash. Mi godo estasiato qualche drill dei due. Nel frattempo, dall’altro lato del parquet, scorgo Rasheed. Quante leggende del basket ho visto in così pochi giorni. Gli stewart ci invitano a tornare ai nostri posti, la palla a due è vicina. La partita scorre piacevolmente, il tifo è più accesso. Preso dall’euforia, durante un timeout, mi alzo in piedi e prima che possa rendermene conto urlo un “D’ANTONI SUCA!”. Sì, sono un eroe, lo so.
Questa volta non ho portato i cartelloni. La volta precedente mi hanno impedito di apparire sul maxi-schermo. Questa volta veniamo inquadrati e colgo l’occasione al volo per gridare “ITALIAN KNICKS PRIDE” a tutta l’America, battendo i pugni sul petto, manco fossi un gorilla.
Partita più divertente rispetto alla precedente. Beh, vedere giocare Kobe, anche se non si tifa Lakers, non è cosa da tutti i giorni. La partita finisce. Anche questa è vinta. 116-107 recita il tabellone.
Prima di andare via, faccio la conoscenza di due fenomeni vestiti da Spider-Man, uno tutto blu, uno tutto arancione. Fenomeni veri.
Saluto il Garden, so che non lo rivedrò più. Non nel futuro prossimo, quantomeno. La malinconia è tanta, ma la gioia lo è di più. Due partite, tanti giocatori a pochi metri, un autografo, una foto, tante grida. Ho sfogato anni di tifo col silenziatore in due soli giorni. Potevo davvero vedere la gioia dei tifosi casalinghi nel vedere un italiano così carico.
Esperienza meravigliosa, questa di New York. Le aspettative erano altissime e sono state tutte ripagate.
Dopodomani partirò alla volta di Chicago. Città ancora più tifosa, se possibile. Noterò che persino i McDonald’s espongono memorabilia firmate MJ. La città trasuda sport e lo sport è parte pulsante di questa città. Ma, ehi, questa è un’altra storia.
Per NBA Passion e Knicks Italia.
Altri contatti Knicks Italia:
Come riportato da Adrian Wojnarowski di Yahoo Sports, Metta World Peace ha raggiunto l’accordo con i Los Angeles Lakers e firmerà un contratto non garantito di un anno.
Il giocatore aveva partecipato, informalmente, al training camp estivo dei californiani, impressionando coach Byron Scott soprattutto per la sua concentrazione e per la sua attitudine nel guidare i giovani, specialmente Julius Randle, e si unirà agli allenamenti ufficiali della squadra alle Hawhi.
World Peace, quindi, torna in NBA dopo 1 anno passato tra Cina e Italia. Torna proprio ai Lakers, dove nel 2010 era riuscito a vincere l’anello e dove era riuscito a consacrarsi definitivamente.
Per NBA Passion,
Giuseppe Fagnani (@dartfagnans)
E’ fine ottobre. Iniziano i giochi. Tutti i riflettori sono puntati sul parquet. Mentre scendi in campo sale l’emozione, si acuisce la tensione e solo allora comprendi che il tuo sogno, accessibile a pochi, si sta coronando. Ti accorgi di avere accanto Kobe Bryant con la tua stessa casacca, i tuoi stessi colori, lo sguardo concentrato sulla sfida. Dall’altra parte Harden e Howard, nemici di lusso, ti scrutano per la prima volta. L’arbitro fischia e l’avventura inizia, ma il dramma è dietro l’angolo e ti colpisce duro, prima alla gamba, poi alla mente e infine al cuore, perché Julius Randle, settima scelta dei Lakers al draft Nba del 2014, non avrebbe mai pensato di cominciare il suo sogno così, con due miseri punti e una tibia fratturata. Il sogno è rimandato di un anno e la pazienza non si acquista da nessuna parte, la si coltiva, la si padroneggia. E allora Randle, che di pazienza ne ha poco, dopotutto ha solo 19 anni e una speranza che si sta frantumando sotto i suoi occhi, chiede aiuto all’unico che di pazienza ne ha accumulata tanta e che, in certi momenti, l’ha trasformata in sete di vittoria. Chiede aiuto al Black Mamba.
A distanza di un anno Randle è un uomo nuovo, un ragazzo più maturo, che ha saputo estrapolare il positivo da un anno di attesa, mentre guardava i suoi compagni affondare sotto i colpi dell’agguerrita Western Conference. Adesso Randle può ricominciare a muovere i passi di quel sogno che si era fermato in Texas contro gli Houston Rockets.
Come riporta Adrian Wojnarowski di Yahoo Sports, dietro il recupero del prodotto di Kentucky non ci sono solo medici e fisioterapisti, ma anche il simbolo giallo-viola per eccellenza, Kobe Bryant, che ha intuito l’enorme potenziale del suo compagno, ma soprattutto quella forza mentale e una disciplina che convertono una materia prima come il talento in un prodotto finito, nella corazza di un campione.
“Di gran lunga, la persona più importante è stata Kobe” ha dichiarato Julius.
La scelta del cinque volte campione di educare un ragazzo così giovane è la chiara dimostrazione di quali siano le capacità dell’ex Wildcats. Perché tutti sanno che Kobe è un solitario che ama spronare i suoi compagni, ma nella scelta di seguire Randle c’è qualcosa di più, c’è l’intuizione di un futuro brillante per la franchigia. Bryant è una pantera che ti osserva con attenzione , ma difficilmente ti sceglie, ti appoggia, ti fa sentire a tuo agio. Ricerca negli altri l’intensità che lui stesso promuove, ma lui è Kobe e gli altri sono solo giocatori. Ma se lui ti sceglie e ti intima di avere pazienza, convinto che ritornerai più forte di prima, allora devi avere qualcosa di straordinario, qualcosa che lo ha attirato. Julius Randle è ritornato con più fame di prima, con una struttura fisica più forte, sviluppando un’etica del lavoro che ha impressionato tutti, non solo Kobe, ma anche Metta World Peace, veterano dal sorriso difficile. Quest’estate la PF di LA ha avuto qualche work out con l’ex Cantù. L’ha sfidato in un uno contro uno, consapevole di poter battere uno dei migliori difensori di sempre. Metta, che non si tira mai indietro ad una sfida, ha accettato. L’ha spintonato, ha rallentato il suo ritmo, ha usato trucchetti incanalati durante anni e anni di esperienza, l’ha messo all’angolo, ma Julius ha continuato ad attaccare ancora e ancora. A un certo punto in una situazione di pick up, Metta ha interrotto il gioco e gli ha consigliato qualche filmato degli Spurs, per apprendere come gli speroni si muovono senza palla. La settimana successiva, come racconta con orgoglio lo stesso Randle, si sono affrontati di nuovo e Metta, dopo un po’ ha esclamato: “vedo che hai visto il filmato”. Randle è rimasto estasiato dall’intelligenza difensiva dell’ex campione con i Lakers e ha cercato di assorbire tutti i movimenti e i concetti che questa opportunità gli stava offrendo.
Adesso per Randle è giunto il momento di assaggiare di nuovo la regular season, di esprimere quel potenziale su cui, non solo la dirigenza, ma sia Bryant che World Peace hanno scommesso, per condurre i Lakers ai fasti di un tempo.
Per NBA Passion,
Gabriele Timpanaro.
Nelle ultime settimane si sono susseguiti rumors di contatti tra i Lakers e Metta World Peace per un suo possibile ritorno.
L’ex Ron Artest, ha dichiarato a thescore.com: “Io e Mitch (Kupchak GM dei Lakers ) abbiamo un buon rapporto, ma non abbiamo parlato di un mio ritorno; l’ho chiamato ma abbiamo parlato di altro”. In merito al suo stato di forma Metta ha detto “sono ancora una delle migliori ali piccole al mondo, sono pronto a qualsiasi scenario”.
Kupchak giorni fa, parlando della trattativa per riportare ‘l’amico dei panda’ a LA , si è espresso in modo vago: “non ci siamo ancora” . Ha aggiunto però che secondo lui Metta sarebbe utile alla squadra e avendo giocando all’estero, dal punto di vista fisico sta bene e in NBA sarebbe ancora un fattore.
L’ultima stagione in NBA è stata il 2013-14 coi New York Knicks, ottenendo solamente 4.8 punti e 2 rimbalzi di media in 29 partite. In Cina ai Sichuan Blue Whales e in Italia a Cantù ha invece dimostrato di essere ancora un ottimo giocatore.
Da quando nel 1999 è stato preso dai Chicago Bulls, con la 16esima scelta del draft, ha disputato 15 stagioni in NBA nelle quali ha vinto un titolo, un premio come miglior difensore dell’anno ed è stato una volta All Star. La sua esperienza maturata negli anni potrebbe aiutare una squadra in costruzione come i Lakers.
Per Nbapassion.com
Giacomo Manini @GiacomoManini twitter
Metta World Peace (alias Ron Artest) si starebbe allenando alla facility dei Los Angeles Lakers e potrebbe firmare un contratto annuale con la franchigia, secondo Adrian Wojnarowski di ‘Yahoo Sport’.
Sembra quindi vicinissimo il ritorno nella città degli angeli del giocatore capace di vincere, durante il suo periodo di permanenza ai gialloviola, 1 titolo NBA da protagonista inaspettato nel 2010, contribuendo in modo decisivo alla vittoria con la sua grandissima difesa e i suoi canestri decisivi contro i Boston Celtics, rivali storici della franchigia californiana.
World Peace si è messo in evidenza anche per i suoi comportamenti poco ortodossi, come quando in una partita tra i suoi Indiana Pacers e i Detroit Pistons fu coinvolto in una rissa contro alcuni giocatori avversari e qualche tifoso e venne squalificato per 73 incontri, ovvero per l’intera stagione rimanente.
Se tornasse in forma e mettesse definitivamente la testa a posto, per i Lakers potrebbe essere un ottimo rinforzo per il roster e permetterebbe a coach Byron Scott di avere più scelte nello spot di ala piccola, con un giocatore in grado di fare la differenza anche nei momenti decisivi.
Per NBAPassion,
Giuseppe Fagnani (@dartfagnans)
La notizia è sicuramente clamorosa ma se a riportarla è Adrian Wojnarowski allora c’è da crederci senza ombra di dubbio: i Los Angeles Lakers stanno seriamente pensando di firmare Metta World Peace (alias Ron Artest, per i più nostalgici).
L’ala piccola, che nell’ultima stagione ha girovagato tra Cina e Italia, sarebbe pronta a tornare a giocare in NBA per la franchigia con la quale vinse il titolo nella stagione 2009-10.
Stando a quanto riferito dal noto giornalista di Yahoo! Sports, i Lakers sono pronti a offrire un contratto annuale all’ex Cantù che, tra le varie voci circolate, pare abbia passato l’Off-Season allenandosi proprio nelle strutture della franchigia losangelina. L’interesse è quindi molto reale nonostante, come possiamo notare dall’immagine, le statistiche vadano contro tale operazione.
Come mai allora questo interesse per un giocatore sul viale del tramonto con un carattere per niente facile da gestire? La risposta vien da sé: Julius Randle. La 7a scelta del Draft 2014 pare abbia stretto un forte rapporto con il 35enne ex Lakers e, dopo aver saltato tutta la scorsa stagione causa infortunio, è pronto a giocare con maggiore continuità quest’anno: la vicinanza di un veterano come Metta World Peace quindi, potrebbe essere sicuramente importante per un giovane ragazzo come Randle.
Non resta quindi che aspettare per capire come la trattativa si evolverà, nella speranza della dirigenza e dei tifosi Lakers che il “Panda’s Friend” non perda le staffe come spesso accaduto nel corso della carriera e ci risparmi scene pietose come quella del Palace nel 2004 o la gomitata rifilata ad Harden nel 2012.
Per NBAPassion,
Mario Tomaino (@Mariot_22 on Twitter)
Come scritto da Josh Martin per Bleacher Report,in una sola partita giocata lo scorso, Julius Randle è riuscito a cambiare il futuro,per ora a breve termine,dei Lakers. Come molti di voi ricorderanno, Randle si infortunò nell’opener della passata regular season contro gli Houston Rockets alla gamba. Un brutto infortunio che l’ha tenuto fuori per tutta la stagione e che ha anche dato il via, secondo Mike Bresnahan del Los Angeles Times, alle riflessioni che hanno portato Gary Vitti,head trainer dei Lakers per ben 32 anni, a rassegnare le sue dimissioni. Quella partita segnò la stagione della squadra Losangelena che poi continuò in maniera disastrosa e che venne chiusa con un poco lusinghiero record di 21 vinte contro le 61 partite perse. Ma la stagione scorsa ha dato anche qualche frutto positivo. La buona stagione d’esordio di Jordan Clarckson e la possibilità di prendere nel draft di quest’anno,con la seconda scelta assoluta, un talento come D’Angelo Russel.
Ora è tornato in campo anche Randle che finalmente verrà giudicato per le sue prestazioni sul parquet al posto che per il peso della sua assenza. La scelta numero sette del draft 2014 è pronta a lasciare la sua impronta nella stagione dei Lakers. Con il suo gioco vicino l’ex Kentucky a canestro non si avvicina molto agli stereotipi delle leggende di Los Angeles come Kareem o Shaq vicino a canestro o come Magic e Kobe tra i piccoli. assomiglia di più,per alcuni aspetti, a Metta World Peace. “Tra loro ci sono stati contatti – ha dichiarato Byron Scott a Mark Medina del Los Angeles Daily News – è stato divertente. Metta è come l’esperto veterinario e Julius è un giovane toro. Metta ha dato il meglio contro di lui, ma quando gli andava addosso era lui che rimbalzava”.
Un altro possibile termine di paragone per Randle potrebbe essere James Worthy. Proprio come la giovane ala forte Worthy si infortunò alla gamba nel suo anno da rookie anche se lui si infortunò ad aprile piuttosto che ad ottobre. Una volta guarito Worthy divenne un grande giocatore,parte fondamentale dello showtime che fece impazzire Los Angeles. Come Worthy anche Randle è un giocatore che starà lontano dalla palla spesso con Russel e Clarckson a gestirla come faceva Magic. Se Randle continuerà a crescere come il front office dei Lakers si aspetta il paragone con un mostro sacro come Worthy potrebbe non essere così azzardato e i gialloviola potrebbero finalmente tornare a fare la voce grossa anche in una conference proibitiva come la western conference.
Per NBApassion.com
Matteo Tatti @matte9tatti
E alla fine successe…Metta World Peace perde le staffe in gara 5 e chiude la sua esperienza italiana nel peggiore dei modi, ovvero con un’espulsione a pochi minuti dalla fine. Decisione che tuttavia lascia molti dubbi, sia sulla motivazione ufficiale (“comportamento diretto a fomentare la reazione del pubblico”) che sulla tempistica. Gli arbitri, infatti, hanno cacciato l’ex Lakers dopo un timeout, quando il diverbio all’origine di tutto, quello fra MWP e Stone, sembrava ormai placato.
Il Taliercio non ha risparmiato fischi e insulti per i giocatori canturini e in particolare per il “37“, uscito mestamente dal campo. Il pubblico veneziano si è purtroppo reso protagonista anche di un lancio di oggetti verso la panchina brianzola, costato all’Umana un multa di 300.000 €. A seguito dell’espulsione, il giudice sportivo ha inflitto due giornate di squalifica a Metta World Peace, incappato nell’ennesima serata storta coi “grigi”.
Per NBAPassion,
Francesco Bocchini.
Niente sweep per Venezia. Dopo essere rimasta imbattuta nelle prime due gare della serie al Taliercio, l’Umana Reyer perde al Pianella di Cantù e ora conduce per 2-1 sulla squadra di coach Pino Sacripanti. Grande prova di squadra dei brianzoli, capitanati da James Feldeine e Metta World Peace, autori rispettivamente di 15 e 16 punti.
Per Cantù subito una novità nello starting five: c’è infatti Awudu Abass in campo dal primo minuto, assieme a Johnson-Odom, Feldeine, “The Panda’s Friend” e Giorgi Shermadini. Recalcati schiera dalla sua Goss, Stone, Viggiano e Peric, con Ress nello spot di “5”.
Subito Cantù si porta sul 5-0 grazie a una tripla di Metta World Peace, mentre dall’altra parte ci pensano Viggiano e Goss a togliere le castagne dal fuoco. Venezia schiera immediatamente la zona, ma viene punita da Johnson-Odom, che infila dalla lunga. Shermadini fa la voce grossa nel pitturato andandosi a completare un gioco da 3 punti, seguito da Feldeine che spara dall’arco per il 14-7 dei padroni di casa. Peric viene cancellato da Shermadini, che serve l’ex Ron Artest, il quale a sua volta non ci pensa due volte e scrive altri tre punti al suo tabellino. Fischi per l’ingresso in campo di Pietro Aradori, ex idolo del Pianella. Nel frattempo Cantù non si ferma più e con 2 liberi del suo centro titolare si porta sul 28-11. Tanta frenesia in campo da qui fino alla prima sirena, che recita un perentorio +15 in favore dei locali: 30-15. Una circolazione di palla magistrale dei biancoblu e il giusto approccio difensivo fanno da padroni in un quarto caratterizzato su tutto dal 44-9 di valutazione in loro favore.
Ortner e Goss suonano la carica in apertura di secondo periodo. Cantù pare spenta e Venezia prova ad approfittarne. Tuttavia, ci pensa Metta World Peace a tenere a distanza i lagunari con una gran tripla dall’angolo. Dulkys dai 6,75 castiga due volte la difesa canturina, Jarrius Jackson lo imita e rifà sotto i suoi, se non fosse per Dequan Jones che sale in cattedra e mantiene pressoché invariate le distanze fra le due contendenti. La Reyer cerca con le unghie e con i denti di rimanere attaccata al match: Jeff Viggiano mette a segno la prima tripla della sua serata, Stone si aiuta col tabellone e completa il miniparziale di 5-0 che riporta i suoi sul -7. 48-41 sempre per i brianzoli dopo 20′ di gioco. Secondo quarto sufficiente per Cantù, riuscita comunque a sopperire all’inerzia di una Venezia lucida e più che mai vogliosa di recuperare lo svantaggio acquisito.
Johnson-Odom con il suo fallo in attacco inaugura il secondo tempo del match. Ress ne approfitta aggiungendo due liberi a referto, ma Abass non ci sta e ridà la doppia cifra di vantaggio ai suoi. Viggiano riporta gli ospiti a -3 in un batter di ciglia, prima che Feldeine piazzi il jumper del 58-53. Tanti errori da una parte e dall’altra in questa fase di partita. Jones muove i tabellini con un’inchiodata in tap-in, prima che Buva risponda prontamente a Hrvoje Peric con la tripla del 67-63 sulla sirena di tempo. Pianella in disibilio. Ora però la scena all’ultimo e decisivo quarto del match, che si preannuncia molto incandescente.
I padroni di casa, spinti dal calore del pubblico amico, gettano il cuore oltre l’ostacolo perché a 7 minuti dalla fine è di nuovo +12, con un Feldeine in totale transagonistica. Recalcati non ha tempo da perdere e chiama timeout all’istante. Jackson sblocca Venezia dall’arco dopo 6 tentativi falliti nel quarto, ma Metta è assoluto dominatore della scena: prima scrive due punti da sotto, poi in ordine forza Jeff Viggiano all’infrazione di passi e serve successivamente Dequan Jones che segna indisturbato. Goss infila una tripla delle sue, Ortner non trema dalla lunetta dimostrando ai suoi di non voler lasciar andare il match. A 35″ dalla fine il punteggio recita 82-76.
Da qui a pochissimo succede l’impossibile, poichè in 4 secondi Cantù è costretta alla palla persa: Venezia ha una grossa opportunità, ma Phil Goss si intestardisce da solo e fa calare i titoli di coda definitivi su questa gara 3. Girandola di viaggi in lunetta finale fino al 90-80 con cui vincono i padroni di casa a discapito di un’Umana Reyer molle in avvio, che si è trovata sempre a rincorrere nel corso di tutto il match, non arrivando alla fine ai risultati sperati. Non sono bastati un Phil Goss da 17 punti e 7 assist, vero e proprio metronomo offensivo del team orogranata, e Jeff Viggiano, onnipresente nel gioco di Venezia e in grado alla fine di segnare anch’egli 17 punti con ben 9 rimbalzi.
A fronte di una buona prestazione di tutti gli esterni canturini, ciò che ha fatto più di tutto la differenza questa sera è stato il gioco interno molto efficiente dei ragazzi di Sacripanti. Shermadini (13+9) e Buva (14+9), entrambi molto vicini alla doppia doppia per punti e rimbalzi, hanno infatti dominato i lunghi veneti per tutto l’arco del match. Il 42-30 finale nel computo dei punti in area è significativo a questo scopo. Stando ai rimbalzi, invece, ha regnato la parità (44-44), ma c’è da dire che per Venezia ne han presi ben 15 Julyan Stone e 9 Viggiano, due giocatori puramente esterni dello scacchiere di Recalcati. Dati che devono far riflettere.
Tra due giorni l’appuntamento è sempre in Lombardia, per gara 4. Senza dubbio, probabile che la serie si deciderà solo dopo 5 partite e nel tripudio del Taliercio, ma nulla è ancora scritto e sarà solo il campo a far da giudice supremo.
TABELLINI
ACQUA VITASNELLA CANTÙ:
Johnson-Odom 13, Feldeine 15, Abass 3, Bloise NE, Zugno NE, Maspero NE, Jones 12, Shermadini 13, Buva 14, Gentile 4, Williams, World Peace 16
All. Pino Sacripanti
UMANA REYER VENEZIA:
Stone 4, Peric 5, Goss 17, Jackson 6, Ruzzier NE, Ress 11, Ortner 6, Nelson 2, Aradori 6, Viggiano 17, Ceron NE, Dulkys 6
All. Carlo Recalcati
Per Serie A Beko Passion,
Lorenzo Prodon (@ProdonLorenzo on Twitter)
Metta World Peace, ora si fa chiamare così, ma c’è stato un tempo in cui il principe del Queensbridge era conosciuto come
Ron Artest, personaggio a dir poco controverso del palcoscenico NBA, un giocatore bivalente, in grado di scatenare una delle più grandi e famose risse di sempre e allo stesso tempo autoproclamatosi ispiratore di pace per tutti gli esseri umani.
Artest in NBA ci arrivò nell’ormai lontano 1999, scelto come 16^ scelta del primo turno dai Chicago Bulls, ha militato nelle file dei Pacers, dei Kings, dei Rockets e dei Lakers al fianco di Kobe Bryant.
In questa puntata andremo a rivivere la stagione e i Playoffs del 2010, Ron Ron arrivato ad L.A. proprio nell’estate 2009
dopo aver firmato un quinquennale da 33 milioni di dollari, era pronto a giocare in una contender e far vedere che meritava
anche lui un anello al dito.
Per tutta la durata della stagione 2009-10, Artest e i Lakers giocano bene e fanno registrare il miglior record stagionale con
57 vittorie nella regular-season (primo posto ad Ovest), piazzandosi davanti ai Mavs e ai Suns, Metta in quell’annata viaggiò su cifre importanti per una “spalla”, con 11 punti di media, 4.3 rimbalzi, 3 assist e 1.5 palle rubate.
Ad Est le squadre più gettonate erano i Cavs di LBJ, gli Orlando Magic e gli Atlanta Hawks (rispettivamente secondi e terzi), ma in realtà come vedremo nessuna di queste 3 squadre arrivò alle Finals, furono i Celtics ad avere la meglio su queste franchigie, eliminarono prima i Cavs al secondo turno e poi nelle finali di Conference batterono i Magic per 4-2, anche i
lacustri giocarono bene nelle fasi iniziali dei Playoffs, eliminando facilmente Thunder, Jazz e Suns.
Metta nell’annata che stiamo analizzando giocò ben 100 partite (regular season + playoffs) partendo in tutte come titolare,
nei Playoffs fu una pedina fondamentale per Coach Zen il quale gli diede molta fiducia, aumentando anche il suo utilizzo in
campo e ne venne ripagato discretamente, World Peace nelle 23 partite di post-season mise a referto 11.2 punti a partita,
recuperò 4 rimbalzi e rubò in media 1.5 palle a serata.
Alle Finals prese vita per l’ennesima volta uno degli scenari più belli di questo sport, una sfida epica che racchiude in sè orgoglio, passione e voglia di vincere, da un lato i Celtics e dall’altro i Lakers, le due franchigie con più titoli vinti di sempre, nomi come Bill Russell e Wilt Chamberlain (solo per citarne due) avevano avuto l’onore di poter vestire quelle divise anni prima, questa volta in campo ci sono Bryant, Gasol e Artest contro Pierce, Garnett e Allen.
Lo scontro è a dir poco fenomenale, in un alternarsi di vittorie, si arriverà ad una soffertissima Gara 7, una di quelle gare che sogni fin da bambino di giocare nella vita (o almeno di poterla guardare in tv), Kobe e il catalano salgono letteralmente di livello finendo una spanna sopra tutti gli altri, il Black Mamba mette a referto 23 punti e Gasol strappa la bellezza di 18 rimbalzi, i bianco-verdi si piegano inesorabilmente alla devastante potenza dei giallo-viola.
Metta può finalmente prendere posto anche lui nell’Olimpo dell’ NBA indossando il suo primo (e unico) anello, la franchigia
degli angeli scrive un altro importante tassello, questa volta preceduto dal numero 16 e Doc Rivers è costretto a rodersi il
fegato per il resto dell’estate.
Qui un piccolo assaggio di quella meravigliosa Gara 7:
per NBAPassion,
@LucaNikoNicolao