Una delle squadre più famose della storia NBA sono sicuramente i Philadelphia 76ers di Allen Iverson e coach Larry Brown.
Nel 2001 quei Sixers erano riusciti ad arrivare in finale contro i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal, ma il sogno si infranse contro il sonoro 4 a 1 imposto dai ragazzi di coach Phil Jackson. Durante la stagione successiva, Philadelphia voleva nuovamente tentare l’assalto al titolo, ma durante la stagione sono sormontate diverse problematiche. Una di queste legata ai dissidi tra il coach e il leader della squadra. Infatti coach Brown rimproverava a Iverson di non allenarsi abbastanza e in modo costruttivo.
Le tensioni sfociarono nell’eliminazione dai playoffs del 2002 al primo turno per 3 a 2 contro i Boston Celtics di Paul Pierce. Iverson nel frattempo stava ancora soffrendo per la morte di uno dei suoi migliori amici, Rahsaan Langford, sulla quale era iniziato allora da poco il processo per omicidio. Pochi giorni dopo l’eliminazione, AI3 e Brown ebbero una discussione nei pressi della facility della squadra e poche ore dopo Iverson convocò una conferenza stampa. Il discorso che tenne con i giornalisti è passato poi alla storia cestistica: il tono del giocatore era ironico, incompreso, rabbioso e drammatico. La parola “practice” (allenamento) risuonò più di venti volte. Iverson, infatti, rifiutava di essere valutato per i suoi allenamenti, quando in partita era uno dei migliori giocatori della lega e non a caso l’anno prima aveva vinto il titolo di MVP.
Nella giornata di ieri a “Sixers talk podcast” coach Brown ha rivelato qualche dettaglio in più riguardo quell’evento. “Ricordo che Allen saltò un incontro. Di solito si tiene un incontro con i giocatori a stagione finita. Si parla di quello che è stato fatto bene, cosa bisogna migliorare e i giocatori dicono all’allenatore cosa migliorare. Allen non si fece vedere. Lo incontrai al campo d’allenamento dopo che non si era fatto vivo e l’unica cosa che voleva dirmi era questa. ‘Non mi scambierai, coach. Ti prego, promettimi di tenermi. Voglio restare qui. Voglio giocare a Philly. Amo Philly. Non desidero giocare in nessun altro posto’”.
Poi ha continuato Brown: “’Allen, devi cambiare. Sei il giocatore più forte. Tutti ti cercano. Se tu potessi lavorare di più su te stesso, e non giocare ogni partita al massimo, potresti aiutarci a fare un passo in avanti. Saresti un grande esempio per i ragazzi più giovani. Se non ti vedono fare le cose giuste, è davvero difficile per un allenatore tirare fuori il meglio dal gruppo’. Mi ascoltò. Era molto rispettoso, ma continuò. ‘Coach, dimmi che non sarò scambiato’. Glielo confermai. E poi ci furono tre o quattro ore di distanza dalla conferenza stampa. Non posso dirvi cosa ha fatto in questo lasso di tempo. Lui dai giornalisti voleva sentirsi dire ‘Hey Allen, il coach ha detto che non hanno intenzione di scambiarti?’.
“Invece la prima cosa che fecero è stato chiedergli degli allenamenti. Questo lo ha fatto andare fuori di testa”. Infatti, l’idea iniziale di Iverson era quella di dichiarare eterno amore alla franchigia e alla squadra in quella conferenza stampa. Ma le continue domande dei giornalisti riguardo le sue pratiche d’allenamento lo fecero ripiombare nella rabbia che aveva superato poco prima.
Inutile negare che il rapporto tra coach Brown e AI3 ha avuto sempre molti alti e bassi. Tuttavia, tra i due c’era rispetto reciproco e a lungo andare hanno sempre riconosciuto un grande valore all’altro. Iverson, non a caso, poi ha definito Brown come il miglior allenatore al mondo e l’ex coach dei Pistons nella cerimonia del ritiro della maglia del giocatore nel 2014, nel video messaggio a lui dedicato, ha detto: “Mi ha mandato Dio ad allenarlo”. Così durante la trasmissione ha corroborato queste impressioni.
“Mi ha reso un allenatore migliore. Anche una persona migliore. Ero solito dirgli che le persone lo amavano come Magic Johnson, Larry Bird, Michael Jordan e Julius Erving. Nessuna competeva così duramente come faceva lui. Certo: mi ha causato diversi problemi. Lui non si approcciava alla pallacanestro come Kobe Bryant o Michael Jordan. E lo sapeva. Questa cosa mi ha frustrato perché non pensavo ci fosse nessuno più atletico e talentuoso di lui. E nella mia carriera ho allenato diversi grandi giocatori. Aveva un grande rispetto per compagni ed allenatori, ma c’erano cose che avrebbe potuto fare meglio”.
Poi ha concluso. “Ma alla fine sono orgoglioso di averlo allenato perché mi ha aiutato a fare un passo in avanti. Penso che con lui ho dato il meglio di me: non avrei potuto far meglio. Andare in giro e sentire le persone dire ‘Quella squadra del 2001 con Allen Iverson potrebbe essere la più bella che abbia mai visto’ per me è meraviglioso. Contando che non abbiamo neanche vinto il titolo”.