Con la collaborazione di Elio Granito.
In un mondo in cui lo sport si fonde con lo spettacolo, in cui ogni partita diventa una storia da raccontare e ogni istante sul parquet può diventare leggenda, Ralph Marchetta ha saputo orchestrare una sinfonia unica. Per oltre trent’anni, in cui ha ricoperto i ruoli di Vice President e General Manager of Entertainment dei Phoenix Suns, Ralph è stato il cuore pulsante dietro le quinte, l’artefice di un’esperienza che andava ben oltre i canestri. Con la sua visione, ha trasformato ogni partita in un evento indimenticabile per i tifosi, facendo vibrare l’arena di Phoenix di energia e passione.
Oggi, Ralph ha lasciato quella posizione per lanciarsi in nuove avventure, ma è certo che la pallacanestro continuerà a pulsare nelle sue vene. In quest’intervista ci racconta della sua carriera, dei momenti più intensi vissuti nella società e di quel legame profondo, quasi indissolubile, che lo legherà per sempre al mondo della NBA.
Siete pronti a scoprire l’uomo dietro il sipario, l’artista dell’intrattenimento sportivo? Questo è il racconto di Ralph Marchetta. Questo è il racconto di un viaggio che non si conclude ma si trasforma, lasciando impresso il segno di chi, nello sport, ha trovato il proprio modo di vivere e di emozionare.
Prima parte – A cura di Elio Granito
Innanzitutto, vogliamo scoprire chi è Ralph Marchetta. Qual è stato il suo ruolo all’interno dei Phoenix Suns?
“Ho lavorato per i Phoenix Suns per 32 anni, gestivo l’arena e lavoravo a contatto con la squadra. Mi occupavo di tutti gli aspetti che riguardavano la nostra facility e lavoravo con la NBA per la schedule. Abbiamo ospitato l’All-Star Game, l’All-Star Game della WNBA, abbiamo ospitato due Finali NBA durante i miei anni lì ed è stato fantastico, è stata davvero una grandissima esperienza di carriera”.
Com’è nata questa sua passione per la pallacanestro e come la volontà di lavorare in questo mondo?
“Ah, da ragazzo guardavo la NBA, seguivo i giocatori. La scintilla è nata quando mio padre mi ha portato alle partite dei Phoenix Suns, da lì la passione per questo sport. E poi ho iniziato a lavorare per i Suns, all’arena, e così ho iniziato a incontrare i giocatori e tutto è diventato ancor più interessante e affascinante per me”.
Ci racconti il cambiamento del suo ruolo nella società, nel corso di questi 30 anni di carriera.
“Certo, ho visto dal vivo i giocatori che avevo visto solo in TV, e che erano i miei idoli da piccolo. E poi sono stato abbastanza fortunato da riuscire a lavorare con loro. Era molto interessante, 30 anni fa le cose erano molto diverse, c’era la possibilità di interagire di più con i giocatori. Li si vedeva tutti i giorni, oggi non è più esattamente così. I Phoenix Suns hanno appena costruito un centro sportivo da 40 milioni di dollari in un altro posto, e i giocatori non si vedono più all’arena tutti i giorni come una volta. Ma il brivido è lo stesso”.
Com’è cambiato, invece, nel corso della sua carriera, il mondo della NBA intorno a lei?
“Sono cambiate tantissime cose, e in tantissime aree diverse. Se ci penso, 30 anni fa la preparazione alle partite era molto basica mentre oggi è più un’esperienza di intrattenimento. È azione non-stop, anche quando non giocano succede sempre qualcosa, c’è sempre uno spettacolo da vedere. E oggi nella NBA ci sono molti più giocatori europei, solo negli ultimi 10 anni abbiamo visto quanti ne sono arrivati. La NBA è diventata più internazionale e secondo me è una buona cosa. Ci sono squadre che vengono in Europa a giocare delle partite, ormai tutti gli anni. Si va a giocare in Messico, Suns andranno a giocare in Cina e a Macao. Abbiamo squadre che vanno a giocare in Asia, in Cina e in Giappone. Tutto è diventato davvero globale negli ultimi 10-15 anni”.
Qual è stata la miglior stagione che Phoenix ha disputato, dal suo arrivo fino ad oggi?
“La stagione in cui siamo andati alle Finals, nel 1993. Quella è stata davvero una delle stagioni più belle che io ricordi. C’erano Charles Barkley, Michael Jordan e la dinastia dei Bulls dei primi anni ’90. Noi avevamo firmato Barkley proprio quell’anno, e avevamo inaugurato un’arena nuova, la America West Arena. Avevamo battuto i Los Angeles Lakers alle Western Conference Finals. Fu straordinario, alla fine abbiamo perso in finale ma fu spettacolare. E ricordo che abbiamo fatto comunque una parata per le strade di Phoenix, con tutti i giocatori. E avevamo perso! Ma c’erano comunque 100mila persone a supportare la squadra e a farci sentire quanto contava per loro. Quello è uno dei ricordi più belli che ho. Altri? L’altro anno in cui siamo andati alle Finals di recente, contro i Milwaukee Bucks. Era l’anno dopo il Covid e quella volta la stagione iniziò a dicembre. Avevamo appena concluso dei lavori di ammodernamento dell’arena ma non si potevano fare concerti, partite e eventi. La NBA iniziò senza pubblico. Camminavo da solo nell’arena, una sensazione molto strana. Ma anche quella stagione fu bellissima. Penso poi che tutte le stagioni con Steve Nash siano state spettacolari. Abbiamo avuto così tanti grandi giocatori in quegli anni, tante ottime squadre. Davvero, davvero entusiasmante”.
Chi è stato, per lei, il miglior giocatore della storia dei Suns?
“Wow! Penso che Charles Barkley avrà sempre un posto speciale nel cuore dei tifosi, lui sapeva rapportarsi con loro in modi che non tutti i giocatori possono o vogliono fare. Era ‘bigger than life’ e lo è ancora, per cui penso che avrà per sempre questo legame speciale con la città. Negli anni poi ci sono stati Steve Nash, Kevin Jonhson, Mark West. Tutti grandi giocatori e tutte grandi squadre”.
Come pensa che la morte di Kobe Bryant abbia cambiato il mondo del basket? E che eredità ha lasciato ai posteri?
“Kobe aveva un talento speciale, Phoenix e Los Angeles erano e sono incredibili rivali nello sport e soprattutto nel basket. E, per i tifosi di Phoenix, Kobe era questo, un rivale. Ma penso che tutti abbiano sempre rispettato questo suo incredibile talento, le sue qualità. Aveva davvero un dono. Ciò detto, noi volevamo battere lui e battere i Lakers. Ma quando li vedevi giocare, soprattutto quando giocava con Shaquille O’Neal, sapevi che erano così forti e che avevano dominato così a lungo… insomma, era un periodo bello interessante! Quando venivano i Lakers era sold out automatico, la gente voleva vedere Kobe giocare. E questo mi ricordava cosa succedeva con Michael Jordan quando venivano i Bulls. La gente voleva vedere lui. Era lo stesso con Kobe, la gente voleva poter raccontare di aver visto Kobe giocare”.
L’arrivo di Victor Wembanyama ha avuto un grande impatto mediatico sulla NBA. Come ha cambiato la lega?
“Il tempo ce lo dirà. Vedremo che tipo di impatto avrà. Basandosi sul suo talento, sulle sue qualità e su ciò che ha già dimostrato fin qui, penso che avrà una carriera incredibile. Poi, c’è quella componente internazionale della NBA che rende questa una storia ancora più grande e migliore”.
Crede che la presenza di così tanti europei nella NBA stia facendo assottigliare il gap tra il basket europeo e il basket americano? E, restando in tema, cosa pensa degli italiani in NBA?
“Io penso che il famoso gap sia chiuso. Se pensiamo a quanto talento arriva dall’Europa, al numero di giocatori che sono arrivati da lì solo negli ultimi 10 anni, vediamo che il talento e le qualità ci sono. Sappiamo che il sistema americano è diverso. Abbiamo il sistema dei college, ci sono delle differenze, ma si vede che con la popolarità sempre crescente della NBA in Europa, quel gap si è sostanzialmente chiuso. Penso che vedremo anche altri giocatori italiani in futuro, anche perché il talento c’è. Gallinari ne è un grande esempio, e ne arriveranno altri che avranno la capacità di fare il salto. E la NBA è più aperta che mai ai talenti internazionali, quindi anche i giocatori italiani avranno più opportunità”.
Ora che ha lasciato questa occupazione, cosa farà e quali saranno i suoi prossimi progetti?
“Ho lavorato per i Suns per 32 anni. Ero pronto a fare qualcosa di diverso e ora mi concentrerò di più su altro. Amo ancora lo sport e il basket. Mi dedicherò al settore degli spettacoli musicali e dei concerti, un altro ambito che mi è sempre piaciuto. Ma resterò un fan della NBA senza dubbio. Sono e resterò un tifoso per sempre”.
Seconda parte – A cura di Carmen Apadula
Mat Ishbia ha comprato i Suns e le Mercury per una cifra record, ovvero 4 miliardi di dollari. Cosa è cambiato con il passaggio di proprietà dalle mani di Robert Sarver al sopra citato?
“È stato un periodo davvero difficile da vivere. C’erano le indagini della NBA in corso e Robert Sarver stava vendendo la squadra. Ma quello che Mat ha portato in termini di risorse è stato incredibile, ha costruito un nuovo complesso da 100 milioni di dollari per gli uffici della squadra e per il centro d’allenamento delle Phoenix Mercury. Ha speso tanti soldi per i giocatori e investito tante, tante risorse. Ed è stata una buona cosa. È interessante come cosa. Io ho vissuto tre passaggi di proprietà: Jerry Colangelo è stato il primo owner con cui abbia lavorato, poi Sarver e infine Mat Ishbia”.
Chi è la figura, all’interno della società, più influente e che ha contribuito più di tutti all’ascesa dei Phoenix Suns, dando al team quella forma che ha oggi?
“È una buona domanda, penso che ci siano state alcune persone davvero influenti lì, durante la mia carriera. Jerry Colangelo è stato il primo, senza dubbio. Poi ci sono state altre persone che mi hanno fatto da mentore, come Al McCoy, che è scomparso di recente. È stato il telecronista dei Phoenix Suns per 52 anni! Poi Mike D’Antoni, Paul Westphal… la lista è lunga, ma Jerry Colangelo ha davvero trasformato i Phoenix Suns. Ha cambiato il volto della squadra, costruito una nuova arena e portato in città Charles Barkley. Ha fatto così tanto per Phoenix. Per questo, lui è in cima alla mia lista. Ma si tratta di una domanda davvero difficile”.
Nel 2007, licenziare Mike d’Antoni fu una mossa molto coraggiosa. Cosa ha portato a quella scelta?
“Altra domanda ardua. C’è da dire che i coach sono assunti proprio per essere licenziati, in un certo senso. Quel lavoro è così. Gli allenatori fanno il loro percorso, c’è anche la questione della chimica coi giocatori, poi il rapporto con la proprietà. E, se il proprietario perde la fiducia non si può più andare avanti. Ma Mike D’Antoni è stato un grandissimo coach per i Phoenix Suns, è stato fantastico”.
Cosa non ha funzionato con Frank Vogel alla guida della squadra?
“Penso che, in parte, oggi la differenza la fa il fatto che i giocatori hanno molta più voce in capitolo quando si tratta di scegliere l’allenatore. Oggi, più di 20 o 30 anni fa, sono molto più attivi e vocali. E, se un allenatore perde lo spogliatoio e la fiducia del capo, la situazione diventa difficile”.
Mike Budenholzer ha firmato un contratto di 50 milioni di dollari in 5 anni. Perché lui è l’uomo giusto per Phoenix?
“È difficile da dire ora, ma sembra la persona giusta per mettersi al lavoro coi giocatori. È un coach di successo ed è originario dell’Arizona, ha un legame con la comunità locale e ha avuto successo al massimo livello. Gode della considerazione dei tifosi, dei giocatori e dei proprietari. Tutte cose che indicano che potrebbe essere perfetto per questo lavoro, insomma”.
Momento nostalgia: Steve Nash è sempre stato un vero trascinatore, un giocatore intramontabile. Secondo lei, perché non è mai riuscito a fare la differenza e a garantire la giusta competitività alla franchigia per vincere un anello?
“Steve Nash è un Hall of Famer, Charles Barkley anche. È triste, perché penso che sia Nash sia Barkley meritassero di vincere un titolo. Guardando indietro, anche da tifoso, posso dire che quelle squadre avevano grande chimica, solo che alle volte le cose non vanno come dovrebbero. E penso che a noi sia successo almeno in un paio di occasioni. Steve Nash non ha mai vinto, Charles Barkley non ha mai vinto, così come altri grandi giocatori dei Suns. È un peccato e una sfortuna, ma hanno avuto delle grandissime carriere nonostante questo”.
Durant è arrivato ai Suns nel febbraio 2023. Il suo contratto scade alla fine della stagione 2025/26, in cui percepirà 54.7 milioni di dollari. Cosa vi serviva e quali erano le necessità che hanno portato a scegliere proprio i Nets e sacrificare tante scelte future (quattro prime scelte future e uno scambio di scelte al Draft 2028) per KD?
“Durant ha portato leadership e punti, si tratta di un talento di alto livello. La decisione di James Jones e del team di andare a prenderlo ha trasformato la squadra. E, se vi ricordate, era appena una settimana che Isbhia aveva rilevato la squadra. Quella è stata davvero una dichiarazione d’intenti della proprietà: vogliamo vincere e ora facciamo sul serio”.
Booker ha subito tanti infortuni muscolari nel corso della sua carriera. Pensa che questo lo abbia frenato oppure, essendo lui molto giovane, abbia ancora tanto da dimostrare?
“No, penso che avrà una carriera lunga. Lui è un giocatore pazzesco da vedere, lo è stato sin dal primo giorno a Phoenix. Lo abbiamo visto crescere, da star collegiale del Kentucky a vera superstar NBA. Davvero incredibile, ancor di più se pensiamo che c’è dell’altro. Abbiamo parlato di come le cose sono cambiate e si sono evolute negli anni. Be’, la qualità dei preparatori, dei metodi di allenamento e della medicina dello sport è cresciuta tanto in 20-30 anni. Vedete i giocatori avere carriere sempre più lunghe. Guardiamo LeBron, oppure quanto a lungo ha giocato Steve Nash. Per questo penso che Devin Booker avrà una carriera davvero lunga. E speriamo sempre a Phoenix!”.
Dopo 5 anni di alti e bassi, le strade di DeAndre Ayton e dei Suns si sono separate. Il centro bahamense è stato la prima scelta assoluta del Draft NBA del 2018, ma 5 anni dopo è stato scambiato ed è finito ai Portland Trail Blazers. Come si è arrivati a questo epilogo?
“Ayton fu la prima scelta assoluta di quell’anno, è andato all’università nell’Arizona ed era un giocatore incredibile al college. La speranza era che avrebbe fatto quella transizione nella NBA e in parte ci è riuscito, ma non del tutto. Trovare la chimica con gli altri giocatori è una cosa difficile da fare. Se la situazione a Portland è adatta a lui lo dirà solo il tempo, ma penso che a Phoenix non si sentisse felice. C’erano stati dei problemi con gli allenatori e con alcuni giocatori, insomma mancava della vera chimica. E quando si raggiunge quel punto, come succede in tutti gli sport, in cui un giocatore ha delle qualità ma manca coesione, allora le squadre si muovono nel loro miglior interesse, che spesso si traduce nel miglior interesse anche del giocatore in causa, che va a finire in una situazione più adatta a lui. Si spera”.
Ora chi è il vero uomo franchigia della squadra, considerando anche i nuovi innesti degli ultimi anni?
“Sicuramente ci sono Kevin Durant, Devin Booker e Bradley Beal che sono i Big 3 dei Suns. Quei tre sono le pietre miliari della franchigia. Ma Devin, ecco, spero che possa essere lui una parte importante della squadra per tanti anni ancora”.
La WNBA è un movimento che, soprattutto negli ultimi anni, sta andando incontro ad un’espansione non solo concreta (è prossima la creazione di una squadra a San Francisco, nel 2025) ma anche e soprattutto sociale. La presenza di Caitlin Clark sta portando gli americani a guardare il basket femminile molto più di prima. Pensa che il gap tra sport maschile e sport femminile si stia assottigliando?
“Ho visto la WNBA negli ultimi 20 anni, ed è fantastico vedere dove si trova la lega oggi. Caitlin Clark e Angel Reese sono state due giocatrici decisive durante questa stagione, ma non si tratta solo della WNBA. È un discorso che possiamo fare sullo sport femminile in generale. Negli Stati Uniti, in particolare, è incredibile quello che lo sport femminile sta vivendo. Nell’ultima stagione con le Phoenix Mercury, nelle serate migliori facevamo anche 8mila o 9mila spettatori. Con Caitlin Clark era sempre sold out, 17mila persone. Ed è stato così ovunque quando giocava lei. Gli ascolti in TV poi, sempre più elevati. Lei ha rappresentato davvero una rivoluzione per la WNBA, ma si tratta di tutto lo lo sport femminile. Prendete il calcio femminile, che negli Stati Uniti sta esplodendo ed è decollato. È davvero una cosa entusiasmante a cui assistere”.
Quali sono le differenze tra la gestione di un movimento maschile, come quello dei Suns, e di un movimento femminile, come quello delle Mercury?
“Si gioca un basket diverso. I veri puristi del basket amano la WNBA, perché lì si vede più tattica. Conta molto il tiro, pesa il gioco di squadra. La NBA, invece, è fatta di star. Le differenze ci sono, si gioca diversamente, ma non per questo è meno entusiasmante. È interessante e c’è ritmo. E poi i principi base sono gli stessi per tutte e due le leghe, il modo in cui giocatori e giocatrici agiscono, oppure anche il modo in cui allenatori e allenatrici interagiscono e cosa ne salta fuori”.
Il caso Brittney Griner è stato affrontato dai media di tutto il mondo. La notizia ha fatto tanto scalpore e la stessa giocatrice ha dichiarato che l’esperienza vissura in Russia è stata traumatica. Che impatto ha avuto il suo arresto sulla squadra? Come l’avete vissuta? E, sul fronte campo invece, come avete sopperito alla sua assenza?
“Non sono stato coinvolto in prima persona ma, facendo parte dell’organizzazione, tutti eravamo concentrati e volevamo fare il massimo possibile per riportarla a casa. Ho visto quanto abbia fatto l’organizzazione. È stata una stagione emotivamente difficile per le giocatrici perché lei non c’era, e l’assenza è stata davvero dura da sopportare. Ricordo che c’erano aggiornamenti tutte le settimane, riguardo che cosa la squadra stesse facendo per collaborare con il Dipartimento di Stato e tutte le realtà coinvolte, per riportarla a casa. La sua famiglia e tutta la comunità si sono strette attorno a lei e le hanno dato tutto il supporto possibile, ricordo quanto le persone erano felici quando hanno saputo che sarebbe tornata a casa”.
Si ringrazia Ralph Marchetta per la disponibilità e la cordialità dimostrata.