Il 1998 fu un anno di svolta per la storia della NBA. Il secondo (e apparentemente definitivo) ritiro di Michael Jordan aveva chiuso di fatto un’epoca, quegli Anni ’90 in cui la lega aveva raggiunto picchi di popolarità senza precedenti. Il lockout che accorciò la stagione successiva diede inizio ad una nuova era, quella in cui il mondo del basket statunitense avrebbe dovuto cercare nuovi padroni, nuovi protagonisti, nuove stelle a cui affidare il difficile compito di mantenere inalterata la passione dei fan. Quella a cavallo tra i due millenni sarà ricordata come la ‘Generazione X’, quella che segnò il passaggio dagli anni d’oro di MJ a quelli di LeBron James, Kevin Durant e Steph Curry. Anche quella generazione fu caratterizzata dall’ascesa di giocatori straordinari e vincenti. Mentre i vari Kobe Bryant, Shaquille O’Neal, Tim Duncan e Kevin Garnett collezionavano anelli e trofei, però, ci furono anche atleti che, nonostante un talento che aveva poco da invidiare a quello dei più grandi, per un motivo o per un altro si ‘smarrirono’, sprecando l’occasione per entrare nell’Olimpo degli immortali del Gioco. In questo pezzo ripercorreremo le storie di alcuni di loro, i quali indubbiamente hanno infiammato i cuori di moltissimi appassionati, ma che non sono mai riusciti a fare l’ultimo passo verso la grandezza, in una sorta di Top 10 dei ‘talenti perduti’ della Generazione X.
10 – Gilbert Arenas
‘Agent Zero’ rappresenta l’identikit perfetto dei nostri protagonisti; arrivato al tramonto dell’era-Jordan (nel 2001, mentre Mike si godeva la passerella finale), la sua rapida ascesa fu frenata sia dagli infortuni che, soprattutto, da un carattere instabile e assolutamente inadeguato per diventare una leggenda. Snobbato dalla maggior parte degli addetti ai lavori (ai quali dedicò il numero 0, come i minuti in cui – secondo loro – avrebbe dovuto giocare in NBA), Arenas fu chiamato dai Golden State Warriors con la trentunesima scelta al draft. La squadra era pessima (o meglio, inguardabile), ma Gilbert riuscì comunque a farsi notare. Nel 2002 vinse il premio di MVP della tradizionale partita tra rookies e sophomores all’All Star Game, l’anno dopo fu eletto Most Improved Player Of The Year. Si contraddistinse anche per i numerosi falli tecnici e per i litigi con compagni e allenatore, quel Brian Winters che di certo non stravedeva per lui. Liberatosi del contratto con Golden State, Arenas decise di firmare con i Washington Wizards, la squadra che aveva appena dato l’ultimo addio (cestisticamente parlando) a ‘His Airness’. L’anno della definitiva esplosione di Agent Zero fu il 2005, quando lui, Antawn Jamison e Larry Hughes trascinarono Washington alla seconda apparizione ai playoff dal lontano 1988. Arenas e Jamison (con lui anche agli Warriors) furono convocati all’All Star Game, entrambi per la prima volta. I playoff degli Wizards finirono al secondo turno (contro i Miami Heat di Wade & Shaq), ma nella capitale era nata una stella. Tra il 2005 e il 2007, Gilbert Arenas divenne l’idolo incontrastato dei tifosi e si affermò come una delle migliori point guard della NBA. Tre volte All-Star (votato fra i titolari nel 2007) e autore di svariati canestri decisivi, Agent Zero si regalò persino una serata da 60 punti (di cui 16 nel solo overtime – record NBA) contro i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant.
Sul finire della stagione 2006/07, la luna di Arenas cominciò a mostrare il suo lato oscuro. Si infortunò gravemente ad un ginocchio e, dopo aver giocato appena una decina di partite nel 2008, fece ritorno in campo sul finire della stagione seguente. Anche a causa della sua assenza, la squadra precipitò, dicendo addio ai sogni di gloria. Iniziò la stagione 2009/10 mostrando incoraggianti segnali di ripresa, ma presto si abbatté su di lui una vicenda ai limiti del grottesco. Emerse infatti che Gilbert custodiva delle armi da fuoco nel suo armadietto, con le quali a volte si divertiva a terrorizzare i compagni. Un giorno ebbe un acceso diverbio con Javaris Crittenton (attualmente in carcere per omicidio), con cui condivideva la bizzarra passione per le pistole, e i due sfoderarono i rispettivi campionari. Quell’episodio portò a delle indagini, e Arenas fu sospeso a tempo indeterminato dalla lega. La sua parabola tra le stelle del basket era arrivata al capolinea. Tornò in campo con le maglie di Orlando e Memphis, ma la carriera di Agent Zero era ormai irrimediabilmente compromessa.
9 – Latrell Sprewell
Le NBA Finals del 1999, le prime del post-Jordan furono tra le più squilibrate di sempre. Da una parte la corazzata dei San Antonio Spurs, guidata da uno dei più grandi giocatori degli Anni ’90, David Robinson, e da uno dei dominatori del decennio che stava per iniziare, Tim Duncan; dall’altra, la più improbabile delle finaliste, i New York Knicks. Prima e unica squadra nella storia ad arrivare in finale partendo dall’ottava testa di serie (nonostante gli infortuni dei due ‘Monstars’ Patrick Ewing e Larry Johnson), quella versione ‘selvaggia’ dei Knicks era guidata da un trio di esimi rappresentanti della Generazione X: Marcus Camby, Allan Houston e Latrell Sprewell. Quest’ultimo, con il numero 8 sulle spalle, chiuse con 35 punti e 10 rimbalzi la decisiva gara-5. ‘Spree’ arrivò in NBA nel 1992 (insieme a Shaquille O’Neal e Alonzo Mourning) e, con la maglia dei Golden State Warriors, si affermò come una delle guardie più esplosive e talentuose della lega. Tre volte All-Star e All-NBA nel 1994, faceva coppia con un’altra star emergente di quegli anni, Chris Webber. Nonostante avesse a roster giocatori di ottima qualità (c’erano anche i veterani Tim Hardaway e Chris Mullin), la squadra di coach Don Nelson raggiunse i playoff solamente nel 1994. Nelson fu sostituito da Rick Adelman, poi fu la volta di P.J. Carlesimo, allenatore noto per i modi piuttosto ‘rudi’ con cui si approcciava ai giocatori. Il primo giorno di dicembre del 1997, durante un allenamento, Carlesimo rimproverò duramente Sprewell, che per tutta risposta cercò di strangolarlo. Uscì dalla palestra, fece un giro in Lamborghini, rientrò e colpì l’allenatore con una gomitata.
Come nel caso di Arenas, la sua carriera fu rovinata da un solo (gravissimo) episodio. La NBA lo sospese per un anno ma lui, a differenza di ‘Agent Zero’, riuscì a tornare ad alti livelli. In maglia Knicks arrivò alle Finals nel 1999, quando fu asfaltato dalla banda-Popovich, e si guadagnò una nuova chiamata all’All Star Game. In quegli anni si fece notare anche per diverse vicende extra-parquet, come la volta in cui buttò fuori strada un automobilista, ‘reo’ di averlo sorpassato, o quella in cui si ruppe una mano durante una rissa. I Knicks non riuscirono a ripresentarsi alle Finals e decisero di spedire Latrell ai Minnesota Timberwolves. La stagione 2003/04 fu la migliore nella storia dei ‘giovani lupi’. Trascinati da un Kevin Garnett in versione MVP e dalla coppia Sprewell – Sam Cassell a supporto, arrivarono alle finali di Conference, dove furono eliminati dai Lakers. Contro ogni aspettativa, quella fu l’ultima apparizione di Minnesota ai playoff (almeno al netto di questo 2017) e, allo stesso tempo, l’ultimo atto della carriera di ‘Spree’. In estate, la dirigenza gli offrì un rinnovo da 21 milioni di dollari in tre anni, ma lui rispose con una frase raccapricciante: “Ho una famiglia da mantenere!”. Dopo la disastrosa stagione 2004/05 divenne free-agent. Diverse squadre si fecero avanti, ma lui rifiutò tutte le proposte. Disse che preferiva ritirarsi, piuttosto che giocare al minimo salariale. Così fu. Dopo che la sua carriera fu terminata, Sprewell andò incontro a numerosi problemi con la giustizia e con il fisco, finendo sull’orlo della bancarotta.