Il match delle polemiche nel torneo olimpico di boxe femminile, categoria welter (69 kg), tra l’italiana Angela Carini e l’algerina Imane Khelif è durato 46 secondi, e si è concluso col ritiro della pugile azzurra e le lacrime.
Dopo una manciata di secondi e un diretto destro in pieno volto, potente, Carini si è avvicinata al suo angolo e ha deciso di abbandonare il match di quarti di finale del torneo. Un epilogo rapido per un incontro carico di polemiche, anche politiche, alla vigilia. Imane Khelif 3 anni fa a Tokyo si era fermata ai quarti di finale, ha un record di 9-5 in 14 incontri in carriera. Non è Mike Tyson e la boxe non è solo colpire più forte delle altre, ma per le sue caratteristiche fisiche iperandrogine, definite anche “intersessuali“, colpisce forte, i suoi colpi fanno male come documentato da altre avversarie dell’algerina in passato.
Abbastanza forte da convincere Angela Carini a alzare bandiera bianca. Una scelta difficile per la pugile campana che dopo l’incontro ha sfogato con le lacrime tensione e delusione. Dopo il verdetto, Carini ha parlato di una scelta di buon senso: “Non me la sono più sentita di combattere dopo il primo minuto. Ho iniziato a sentire un dolore forte al naso. Non è da me arrendermi, ma proprio perché non ci riuscivo ho detto basta e messo fine al match. Io sono salita sul ring per mio padre, la scorsa Olimpiade mio padre era in fin di vita, questa era la mia Olimpiade e volevo percorrere l’ultimo chilometro. Se mi sono fermata l’ho fatto solo per la mia famiglia“.
Imane Khelif è una donna, è stata ammessa a combattere dal CIO, esattamente come 3 anni fa a Tokyo. Nel 2023 ai mondiali per dilettanti di categoria però, non era stata ammessa perché i gender test della federazione IBA “avevano dimostrato la presenza di cromosomi maschili XY” nel sangue dell’atleta. Ma il CIO non riconosce la IBA dal 2019 per dubbi sulle sue politiche di finanziamento e gestione. Al termine del match, con la stampa Angela Carini non ha voluto discutere sulla regolarità o meno del suo incontro: “Non sono nessuno per giudicare o prendere una decisione, se questa ragazza è qui ci sarà un motivo. Ho combattuto e sono salita sul ring nonostante le mille polemiche che ci sono state. Mi alleno con mio fratello, ho sempre combattuto con uomini, io non so, ho sentito troppo dolore oggi. Se ho avuto paura di farmi male? Non ho mai avuto paura di farmi male, quando scavalchi il ring sei consapevole di poter andare al tappeto ma non ce la facevo a portare al termine al match“.
Delusa e arrabbiata, Carini non ha voluto stringere la mano all’avversaria dopo l’incontro, un gesto sicuramente non “olimpico”. La boxeur campana ha però argomentato la sua decisione e ha reso bene l’idea di un’atmosfera pesante attorno all’evento. Alla vigilia, dopo l’estrazione degli incontri, l’abbinamento con Khelif era diventato occasione di scontro politico e ideologico, tra chi descriveva la pugile algerina “un trans” o “un uomo che si finge donna” per vincere facile. Le leggi algerine vietano, vale la pena di ricordare, qualsiasi operazione di cambio di sesso e negano i diritti LGBTQ, per la federboxe algerina Imane Khelif è una donna a tutti gli effetti.
Il “caso Khelif” non è il primo nello sport a alti livelli di atleta dalle caratteristiche genetiche e fisiche androgine. Tra 2012 e 2016 tanto si parlò dell’ottocentista sudafricana Caster Semenya, due volte oro olimpico tra Londra e Rio de Janeiro, e che ha dovuto combattere per anni con federazioni, comitati olimpici e politica per farsi riconoscere il proprio diritto di gareggiare. Semenya però, banalmente, non tirava pugni. Al netto dei parametrici biologici e medici, non è in discussione che in questo caso si debba parlare anche di “livello minimo di sicurezza” garantito per le atlete. Anche in una disciplina in cui ci si fa male come la boxe.
Un’area grigia in cui si inseriscono – lasciando il tempo che trovano, come tutte le polemiche da esperti e esperte da divano – le posizioni di chi attacca Khelif e la sua partecipazione ai Giochi come dimostrazione di un’agenda politica globalista, di Nuovi Ordini Mondiali e della “dittatura woke“. E di chi attacca invece Angela Carini “perché si è ritirata senza combattere” non considerando minimamente psicologia, valori e sacrificio di un’atleta che partecipa alle Olimpiadi, e che magari avrebbe voluto vederla scambiarsi colpi devastanti come quelli tra Rocky Balboa e Ivan Drago in Rocky V, con le secchiate di sudore e sangue sulle prime file.
La discussione è in realtà tutta scientifica e tecnica, e alla quale tocca alle federazioni dare sintesi. Nel caso di iperandroginia o intersessualità, si dovrebbe considerare la maggior produzione di testosterone alla stregua del doping? E quindi, si dovrebbe consentire a atlete con tali parametri biologici di gareggiare contro atlete con parametri diversi? CIO, federazioni nazionali e internazionali vanno in ordine sparso e tocca ai tribunali sportivi e non dirimere queste questioni, con i tempi e gli strascichi già sperimentati nei tanti casi di doping e di identità sessuale di un atleta. Del resto, anche ai tempi di Oscar Pistorius si parlò di chiaro vantaggio tecnico per l’atleta sudafricano, per via delle sue protesi a alta tecnologia e prestazioni: nel 2008 Pistorius iniziò a gareggiare con i normodotati nonostante il parere contrario della IAAF che riteneva che le protesi fossero per lui un vantaggio rispetto agli avversari. Ci volle una sentenza di tribunale per ammetterlo alle competizioni.