Mandata in archivio la fase a gironi, lo stacco serve a ritemprarsi un attimo. Sono stati dieci giorni intensi fatti di tanto basket, tanti spunti, tanta passione, tanto spirito. Metterlo per iscritto, provando anche magari a fare il punto sui futuri quarti di finale, è operazione di tipo semiotico, perché l’utilizzo di simboli e segni condivisi non può spiegare appieno qualcosa che ha anzitutto dimensione teorica, ma ciò che emerge sarà per forza di cose lacunoso. Ci proviamo ugualmente, con impegno e buona volontà.
Taca banda.
USA-Argentina
Partiamo da un’ovvietà: gli statunitensi fanno paura. Restano i favoriti e possono perdere l’oro soltanto loro. Ma proprio qui sta la notizia: possono perderlo.
Team USA è stato deludente, al di là delle cinque vittorie. I mostri del 2008 e del 2012 sono altra storia, e persino le versione giovani e arrembanti dei Mondiali paiono lontane anni luce. Perché quelle erano squadre che per morivi diversi affamate e agli avversari non lasciavano che le briciole, e forse neanche quelle. Questi Stati Uniti sono, invece, umani, o almeno, così si sono dimostrati. Dopo le prime due gare vinte in scioltezza nell’ordine hanno avuto la meglio sull’Australia anche capace di metterli sotto, hanno pensato di averla già vinta nel primo quarto contro la Serbia rischiando di andare al supplementare sull’ultimo tiro slavo, e contro la Francia hanno messo in campo lo spirito da “Festa della patata”.
Poi chiaro, i quarti di finale sono tutta un’altra cosa, nelle gare dentro-o-fuori emerge la grinta, ma questo non varrà per i soli americani, ma anche per gli avversari che si troveranno di fronte. Anthony, Durant e Irving hanno cantato e portato la croce, risolto nei momenti decisivi, mentre la truppa al seguito si è limitata ad andare a sprazzi con picchi alti (Butler, DeRozan), bassi (Thompson) e addirittura deleteri (Cousins e Jordan). Hanno giocato al gatto sornione col topo, ma il topo, in quanto topo, consapevole di essere topo fa di tutto per non farsi artigliare. Poi può capitare che il primo topo sia particolarmente esperto (Scola, Ginobili. Nocioni), o sgusciante (Campazzo, Deck) o imprevedibile (Laprovittola) o energico (Delìa) e allora i fattori di cui tener conto si moltiplicano.
In sostanza, se gli Stati Uniti faranno gli Stati Uniti, l’Argentina farà l’Argentina: non si darà per vinta, sputerà sangue, metterà il fisico e le mani addosso, colpirà quando avrà l’occasione e non mollerà fino alla sirena conclusiva. Non è più tempo di passeggiate, tocca correre, e sta a Team USA capire che o si adatta o prevalgono gli altri, che sono meno talentuosi ma ferocemente determinati a sopravvivere. Forma mentis che gli uomini di coach K dovrebbero avere presente, visto che proprio gli americani hanno fondato la loro filosofia come popolo sul darwinismo sociale.
Spagna-Francia
Di nuovo? Sì, di nuovo. Facciamo un rapido résumé (e qui chi scrive fa sfoggio del passato, peraltro non troppo glorioso, al liceo internazionale francese).
Eurobasket 2009, la Spagna vicecampione olimpica nella kermesse continentale ha stentato, si qualifica da quarta del secondo girone alla fase a eliminazione diretta, trova una Francia in forma che nell’Additional Round ha seccato Italia e Belgio, la batte di 20 punti e si invola verso il suo primo titolo europeo; Mondiale 2010, le due vicine di casa si ritrovano nel girone alla prima giornata, e i Bleus senza Tony Parker si prendono una mini vendetta ma gli iberici arriveranno parimenti davanti nel girone e usciranno ai quarti contro la Serbia mentre la corsa dei francesi si ferma contro i turchi padroni di casa agli ottavi; Eurobasket 2011, l’atto conclusivo è tra Spagna e Francia, che dura solo quarto e mezzo prima di trovarsi col fiato corto a inseguire un avversario fuori portata; Olimpiade 2012, quarti di finale, la Roja già sconfitta dalla Russia sceglie di perdere l’ultima gara contro il Brasile per non finire nella parte di tabellone degli Stati Uniti, trova gli Enfants de la patrie sul proprio cammino, gara a basso punteggio decidono i Gasol, che arriveranno fino alla finale contro Kobe, LeBron e compagnia; Eurobasket 2013, semifinale a Lubiana, partita tirata, supplementare, pandemonio ma alla fine Parker c’è, Batum c’è, Marc Gasol pure ma non basta, perché mancano Pau e Navarro, in seconda battuta Ibaka e Reyes, e insomma, la Francia si invola verso il suo primo oro continentale; Mondiale 2014 in Spagna, le due sono compagne di girone e il primo match dice +24 secco dei padroni di casa, ma non è finita, perché le due si ritrovano nei quarti e i Bleus rendono la pariglia, +15, eliminazione della Roja e ondata di critiche per Orenga che lascerà posto allo Scariolo-bis; infine, Eurobasket 2015, la Spagna ricorda, non perdona, e in semifinale a Lille colpisce a domicilio come i francesi l’estate prima, infliggendo l’unica sconfitta della manifestazione. Il finale ce lo ricordiamo tutti, quindi omettiamo info inutili.
Ora, domanda: se avete letto attentamente il papiro qui sopra e non vi siete abbioccati, dobbiamo davvero spiegarvi ulteriormente perché questo sarà un incontro fondamentale?
Lituania-Australia
Senza via di scampo. Gli Aussies ormai non possono più nascondersi, devono giocare a carte scoperte: sono stati il fenomeno tecnico della fase a gironi, e quando sei un fenomeno tecnico la logica conseguenza è che diventi, prima o poi, anche un fenomeno mediatico. Puntualmente, la selezione australiana è diventata “la nazionale che ha mostrato il miglior basket del torneo” e una “candidata alla medaglia”.
La realtà, al di là dell’esaltazione per motivi personali o professionali, è meno poetica e più prosaica: l’Australia ha giocato bene, in difesa concedendo l’arco solo quando era strettamente necessario e in attacco curando le spaziature e il bilanciamento tra le conclusioni dei lunghi e quelle dei piccoli, trovando Patrick Mills in versione Re Mida, Broekhoff e Dellavedova pronti a mordere le caviglie di qua e il canestro di là, Bogut solido, Baynes mobile e quasi chirurgico sotto le plance, e in più dalla panca si è alzato spesso e volentieri Andersen apparentemente ringiovanito. Indubbiamente una bella pallacanestro, da interpretare e da vedere, ma altrettanto bella è stata quella argentina, quella spagnola (post consueto impasse iniziale) e quella slava, declinata sia in chiave croata che serba.
Anche la Lituania ha avuto i suoi magic moments, indubbiamente, ma ha patito la dipendenza da Kalnietis e l’inconsistenza (punita ad ogni giro da coach Kazlauskas) di Valanciunas. In generale i baltici hanno nel loro punto di forza anche il loro punto debole: per vincere devono trovare fiducia, e trovano fiducia solo se trovano il canestro, grazie alla straordinaria sensibilità dei loro polpastrelli. Quello che è piaciuto di più (a chi scrive, s’intende, e auspichiamo anche alla futura squadra) è stato Domantas Sabonis, che magari non sarà un esterno nel corpo di un lungo come il padre ma ha senso del canestro, della posizione e carattere indomito per tappezzare quell’area dove, al momento, Valanciunas è disperso in azione. Oltre a lui, la Lituania se vuole superare la next sensation australiana, dovrà contare su Kalnietis, Seibutis, Kuzminskas, Maciulis, gente che ha la calamita per il canestro. E sul solito entusiasmo cestistico baltico, chiaramente.
Serbia-Croazia
“Ma in generale la Jugoslavia è sempre stato un paese unito, nonostante ci fossero tanti popoli diversi al suo interno. Anche oggi, quando la Croazia perde, la prima squadra per cui facciamo il tifo è la Serbia. Sono nostri fratelli”. Il virgolettato non è di un politico o di un intellettuale o (per venire al nostro ambito) un cestista, ma di una caratterialmente scintillante quarantenne con cui chi scrive ha avuto il piacere di lavorare. Un’altra ragazza croata, brevemente incontrata alla fermata dell’autobus, confermava pochi giorni dopo: “Sì, eravamo come fratelli, poi hanno voluto separarci, interessi internazionali immagino, ma dopo la guerra i rapporti sono tornati buoni, come se non fosse successo nulla”.
Scorci e voci di vita vissuta dalla gente comune, quella vox populi che rappresenta, come diceva un antico proverbio, in fondo la voce della verità, o almeno di una parte di essa, da cui magari può derivare un significato al famoso episodio che vide Divac strappare la bandiera croata dalle mani del tifoso: non più odio verso i separatisti, come qualcuno superficialmente ha raccontato, ma sofferenza per lo scisma imminente con i propri fratelli. Nota a margine: sentimento che forse gli italiani non comprenderanno mai appieno, persi come sono dietro i loro campanilismi.
Serbia-Croazia è anche questo. Non solo, ma anche. Serbia-Croazia è sempre e sarà ancora una gara dura, piena di colpi al limite e qualcuno pure proibito, non perché i due paesi si detestino, ma perché sono composti di gente altrettanto dura, generosa, ma dura, che come diceva Boris Stankovic (padre cestistico di entrambe e originale deus ex machina del Dream Team) ha sempre distinto tra periodo di guerra e periodo non di guerra, e forse proprio per questo è sempre andata meglio negli sport di squadra (calcio, basket, volley, pallanuoto e via dicendo), perché è abituata a fare dell’unione la propria forza. Per la nota a margine, vedi sopra.