“D’altronde questa è la NCAA, tutto è possibile”. Focalizzate lì l’attenzione, tenete a mente questa frase, fatela entrare nella vostra testa. Ci siamo lasciati così l’ultima volta. Nessun commento fu più azzeccato di questo. Di solito noi veniamo a conoscenza di fatti e avvenimenti che riguardano il March Madness, la cosiddetta Follia di Marzo, il periodo più caldo della stagione della pallacanestro giovanile negli Stati Uniti, ma pare che questa follia sia perdurata anche oltre i 31 giorni del mese più pazzo dell’anno, nessuno si sarebbe mai aspettato di dover parlare, per forza di cose, di April Madness.
I tifosi dei Gators potranno sicuramente avvalorare la mia tesi. Quegli stessi Florida Gators che nella guida ufficiosa alla NCAA Final Four 2014 avevamo dato come favoriti. Che poi in finale ci sarebbero potuti arrivare, se solo DeAndre Daniels non fosse sceso sul terreno di gioco. E avrebbero potuto incontrare gli altri favoriti del quartetto, ovvero i Wisconsin Badgers. Anche in questo caso, il condizionale è d’obbligo: perché loro, come Florida, avrebbero potuto prendere parte alla sfida più importante della stagione, quella che ogni atleta affiliato alla NCAA sogna di poter giocare, se solo non avessero incontrato due guastafeste come Young e Randle. Ma procediamo con ordine, perché è stata una serata davvero intensa.
Il ruggito degli Huskies
Dovuta precisazione: in realtà i cani abbaiano, specialmente se si tratta di una razza tanto allegra quanto giocherellona come quella degli husky siberiani. Napier e compagni no, si sono solo travestiti da husky, perché il loro ruggito non solo ha manifestato il carattere predatore come quello di un leone ma ha addirittura intimorito gli alligatori della Florida. Eppure la partita era cominciata nel migliore dei modi per i ragazzi di coach Donovan: Michael Frazier II, Patrick Young e Casey Prather avevano costretto Connecticut a chiamare un time-out dopo 3 minuti di gioco sul punteggio di 0 a 7. Timida reazione con una schiacciata del ghanese Brimah ed un layup di Daniels, ma non basta perché alla girandola di punti si aggiungono anche Scottie Wilbekin e Dorian Finney-Smith, entrambi con un jumper. Ma da quei 16 punti nei primi 10 minuti si passerà ad un black-out interminabile. UConn, presa per mano da Shabazz Napier, DeAndre Daniels ed il tedesco Niels Giffey, rimonterà lo svantaggio e chiuderà la prima frazione sul 25 a 22. Nella ripresa, gli Huskies si affideranno ad una difesa che azione dopo azione si è trasformata in un fortino insormontabile, il vero asso nella manica di Kevin Ollie: negli ultimi 20 minuti, UConn non hanno concesso neanche un tiro agli avversari, i quali con molta difficoltà sono arrivati a canestro. Non a caso, Florida ha concluso la serata con il 38.8% dei tiri riusciti totali, dei quali solo 1 su 10 dalla linea dei 3 punti.
La palma del migliore in campo se l’è conquistata sul campo il big junior DeAndre Daniels, non solo per il suo costante supporto: il centro californiano è stato il primo giocatore ad aver messo a segno una doppia-doppia (20 punti e 10 rimbalzi) in una Final Four dal 2003 ad oggi. Prima di lui, un certo Carmelo Anthony che padroneggiava nei Syracuse Orange. La sfida si conclude sul 63 a 53 per Connecticut, con una prova magistrale anche dell’uomo più atteso, Shabazz Napier (6 assist e 4 turnover per lui). I Gators dal canto loro hanno registrato il minor numero di assist (3) in una Final Four dal 1984 ad oggi, quando gli assist entrarono a far parte ufficialmente delle statistiche. Ogni pronostico è stato azzerato. E gli husky vogliono continuare a ruggire.
L’ultimo maledetto secondo
Finito un incontro, se ne fa un altro. Si pulisce il parquet, le due squadre si riscaldano, i rispettivi quintetti si preparano a scendere in campo, e si ricomincia. Faccia a faccia ci sono i Kentucky Wildcats, quella che nella preview delle Final Four definimmo come ammazza grandi per eccellenza (Wichita State e Louisville, per citarne due), e i Wisconsin Badgers che, sulla carta, avrebbero dovuto risolvere la pratica senza enormi difficoltà. L’obiettivo dei biancorossi era quello di neutralizzare Julius Randle, il quale però si è neutralizzato da solo, facendosi male a metà prima frazione conseguentemente ad un atterraggio errato dopo un tiro in sospensione, tornando poi sul rettangolo di gioco ma al 50% del suo reale stato di forma. A questo punto il team guidato da John Calipari sembrava non avesse più speranze di poter almeno impensierire i propri oppositori. In effetti il primo tempo si è concluso con la coppia Dekker-Brust che ha portato i Badgers sul 36-40.
Al rientro dagli spogliatoi, coach Calipari decide di affidare il destino della sua squadra interamente ad un uomo: James Young. La guardia tiratrice diventa la chiave di volta della gara dei Wildcats: al suo primo anno con la casacca blu, il freshman proveniente dal Michigan ha portato a termine la sua serata con 17 punti, 5 su 11 dentro l’area e 6 su 7 dal tiro libero, ai quali si aggiungono ben 5 rimbalzi. Sono stati proprio i rimbalzi, infatti, ad aver deciso la prestazione di Kentucky: Randle e compagni hanno sovrastato Wisconsin con 32 rimbalzi rispetto ai 27 dei propri rivali, tra i quali si contano ben 11 rimbalzi in fase offensiva, 5 in più dei Badgers. Nonostante Young e nonostante i rimbalzi, la banda Ryan si trovava ancora su, con un piede nella finalissima di questa sera. E se non fosse stato per Aaron Harrison, ora staremmo parlando d’altro. È lui il buzzer-beater in persona, è lui il guastafeste che non vorresti mai conoscere ma che prima o poi ti ritrovi sulla tua strada a bloccarti il transito. Terzo tiro all’ultimo secondo riuscito in questo torneo NCAA che equivale al terzo sorpasso completato: dopo Wichita State e Michigan, ora anche Wisconsin. L’incredulità e lo sconforto si stampano sui volti di giocatori, staff tecnico e tifosi biancorossi. Kentucky è in finale, i gemelli Harrison sono stati ancora una volta gli ultimi ad arrendersi. Perché finché la sirena non suona, loro stessi ci hanno insegnato (e dimostrato) che può accadere di tutto.
Quattro motivi per seguire il National Championship Game
Insomma, comunque vada sarà un successo. Per la prima volta nella storia della NCAA, nella finale per il titolo del torneo collegiale si affronteranno due università che non appartengono ai primi tre posti nel ranking delle rispettive zone. East contro Midwest, Connecticut contro Kentucky, due formazioni che nella scorsa edizione neanche avevano partecipato alla Big Dance, come la chiamano nel Nord America, ovvero la massima competizione collegiale in assoluto (non solo della pallacanestro), rendendo questo National Championship Game unico, il primo a presentare due squadre che nella passata stagione non avevano partecipato al torneo, ripetendo quanto è accaduto nel 1966 quando Texas Western batté Kentucky in una storica, rocambolesca, impressionante gara. E ci sono quattro motivi per cui il paragone tra il ’66 ed il 2014 non è poi così banale.
– Le difese faranno la differenza, da entrambe le parti. Per quanto riguarda UConn, Ryan Boatright e Shabazz Napier hanno mietuto un’altra vittima sabato scorso, surclassando Wilbekin e le guardie di Florida tanto in difesa quanto in attacco. Sono riusciti a domare uno dei migliori team in quanto ad efficienza realizzativa, quello che per molti è stato considerato come il miglior pacchetto offensivo delle Final Four, concedendo loro solo tre assist in tutto l’arco del match e riservando così lo stesso trattamento che è stato adottano con i Michigan Wolverines. Kentucky, invece, può contare sui gemelli nativi di San Antonio, Aaron e Andrew Harrison, capaci di tirare fuori la giocata più importante nel momento meno atteso. In finale sono approdati proprio grazie ad una loro giocata, assist di Andrew e tiro da tre di Aaron. Dunque, impostare nel migliore dei modi la fase difensiva potrebbe risultare utile per la conquista del titolo.
– DeAndre Daniels e Julius Randle, due stili diversi, due percorsi diversi. Il centro in maglia blu è l’attaccante più atteso, specialmente per quanto ha dimostrato durante le varie fasi del NCAA Tournament, fatto sta che la doppia-doppia di Daniels è bastata per vietare a Florida l’ingresso nel National Championship Game. Il #2 californiano si presenterà questa notte con una media di 17 punti e 7 rimbalzi a partita, statistiche da non sottovalutare poiché parzialmente simili a quelli registrati dal freshman Randle, autore di 16 punti e 11 rimbalzi a partita. Paradossalmente, il pivot dei Wildcats potrebbe compiere il grande passo verso i palcoscenici NBA già dalla prossima stagione, mentre per Daniels ci sono molte meno chance di entrare a far parte dell’NBA Draft di questa estate. Ma questo non influirà di certo nella performance di questa sera. E solo uno di loro due vedremo gioire a fine partita.
– Chi sfrutterà maggiormente la linea dei tre punti? Dopo quanto abbiamo assistito nelle scorse occasioni, buona parte della gara si deciderà da lì. UConn ha avuto la meglio su Florida anche dai 3 punti: Napier e Boatright hanno centrato 5 dei 12 tentativi totali, contro un solo tiro su 10 tentati dai Gators, merito soprattutto di un fortino invalicabile. Anche se i Wildcats hanno messo a segno solo 2 su 5 tiri da fuori area, stessa percentuale dei Badgers con 8 su 20 dietro la linea, gli Huskies non possono sottovalutare James Young e Aaron Harrison. Chiedete a Bo Ryan.
– In panchina i due allenatori, John Calipari e Kevin Ollie, dovranno unire tutti gli ingredienti ideali per poter salire sul gradino più alto del podio. Tutte e due, inoltre, hanno risposto a suon di successi a tutte le critiche piovute durante la regular season nei confronti delle rispettive selezioni. Da una parte, John Calipari è ad un passo dalla conquista del suo secondo titolo NCAA negli ultimi tre anni, con giocatori diversi in tutto e per tutto da quelli che nel 2012 alzarono al cielo il loro ottavo trofeo nella storia di questa università, e difficilmente gli si potrà contestare qualcosa sul modo in cui si crescono dei ragazzi in una squadra giovanile. Qualche metro più distante da Calipari c’è Kevin Ollie, che fino a quattro anni orsono continuava a giocare come playmaker nella NBA (non nei campetti di periferia, per dire). Lui, a 41 anni, ha ottenuto con le unghie e con i denti la sua prima finale NCAA da allenatore, al secondo anno sulla panchina degli Huskies, un college che conosce molto bene, avendoci militato per quattro anni, dal ’91 al ‘95. Magari sarà troppo presto per definirlo un allenatore già pronto, ma di certo il suo carisma e la sua grinta sono caratteristiche che nel Connecticut mancavano dai tempi di Jim Clahoun. E chissà se coach Ollie non seguirà i suoi passi.
Valerio Scalabrelli – @Scalabro92
(fonte: Tribuna Italia)