Allo scoccare della mezzanotte fra domenica 18 e lunedì 19 aprile 2021, un improvviso annuncio sconvolge il mondo dello sport (e non solo): è nata la Super League. Gli ideatori della nuova associazione calcistica europea sono Florentino Pérez e Andrea Agnelli, presidenti di Real Madrid e Juventus, e al progetto hanno già aderito le italiane Inter e Milan, le spagnole Barcellona e Atletico Madrid e le inglesi Manchester United, Manchester City, Liverpool, Arsenal, Chelsea e Tottenham. Le dodici squadre costituenti saranno le partecipanti fisse della nuova competizione, insieme ad altri tre club ancora da identificare. I cinque posti rimanenti verranno assegnati di anno in anno su invito, presumibilmente in base ai risultati ottenuti nei campionati nazionali o nelle manifestazioni europee.
Tra gli indiziati principali per arrivare a quota 15 ci sarebbero Bayern Monaco e Paris Saint-Germain, che però si dichiarano subito disinteressati a partecipare. D’altronde, i bavaresi godono di buona salute economica (a differenza di molti fra i club fondatori) e hanno una particolare struttura societaria controllata parzialmente dai tifosi, mentre i francesi hanno un leggerissimo conflitto d’interessi: il loro proprietario, Nasser Al-Khelaifi, è infatti nel comitato organizzativo dei Mondiali FIFA 2022 in Qatar.
Il formato della Super League e il “modello americano”
Dal sito ufficiale si apprende che le partite della nuova Super League si disputeranno (o si sarebbero disputate, visto l’epilogo; da qui in avanti, il condizionale verrà omesso per comodità) ogni mercoledì, ovvero in sovrapposizione con i turni infrasettimanali di campionato e con il calendario di Champions League. Il torneo prevede due gironi da dieci squadre ciascuno, con partite andata e ritorno tra le componenti di ogni gruppo. Le prime tre classificate dei rispettivi gironi si qualificheranno per la fase finale (andata e ritorno fino alla finalissima in campo neutro), mentre la quarta e la quinta si affronteranno in una sorta di play-in.
Il fatto che non siano previste promozioni o retrocessioni dettate da meriti o demeriti sportivi, se non per le cinque squadre ‘jolly’, spinge gran parte degli analisti (più o meno qualificati) a parlare di “modello americano”. E’ facile ipotizzare che il riferimento sia quello delle major sportive statunitensi, capaci di generare ricavi e profitti miliardari anche in tempi di pandemia (ci torneremo). Per raggiungere quegli standard bisognerebbe però introdurre concetti ancora lontanissimi dalle organizzazioni sportive europee, come il salary cap, la luxury tax (o l’hard cap, utilizzato nella NFL) e il contratto collettivo, con quest’ultimo che richiede innanzitutto la formazione di un’associazione giocatori. Meccanismi a cui la Super League, stando alle dichiarazioni di Florentino Pérez, sembra comunque puntare a lungo termine. Si è infatti parlato di un tetto salariale, di un settore di sviluppo (l’equivalente della G-League per la NBA), dell’istituzione di un torneo femminile e della possibilità di reclutare o formare autonomamente la classe arbitrale.
Ciò che accomuna la Super League alle grandi federazioni americane è il fatto che si tratti di una lega autogestita, auto-regolamentata e auto-alimentata, in cui i ricavi vengono generati, amministrati e suddivisi da e tra gli stessi club. A dare la spinta iniziale ci penserà la potente finanziaria statunitense JP Morgan, che verserà 3,5 miliardi di euro nelle casse dei 15 fondatori (235 milioni per ciascuna, contro i circa 63 garantiti attualmente dalla spartizione UEFA). Un importo che verrà restituito, insieme agli interessi del caso, tramite i ricavi prodotti dai diritti televisivi (e magari anche dalla creazione di un network privato, come ha fatto la WWE negli Stati Uniti), dalle sponsorizzazioni, dal merchandising e dal botteghino. Secondo le stime dei soci fondatori, il giro d’affari consentirà di destinare, nel giro di pochi anni, 10 miliardi di euro a un “fondo di solidarietà” (o “rimborso danni” potrebbe insinuare qualcuno) per le federazioni nazionali.
Nella sua declinazione iniziale, il formato della Super League rispecchia più quello della nuova Eurolega di basket, dalla cui creazione è scaturita una dura battaglia con la FIBA. Una sfida combattuta a suon di cause legali e follie organizzative (come quella di sovrapporre le finestre per le Nazionali al calendario dell’Eurolega), che però, per ovvie ragioni, non ha generato nemmeno un briciolo del clamore mediatico di questi giorni. Una guerra che si potrebbe ormai definire vinta dai grandi club, che oggi si affrontano in una competizione di altissimo livello da affiancare al campionato. Esattamente ciò che si propone di fare la nuova associazione di Pérez, Agnelli e soci.
L’ira dei Signori del Calcio
La prima reazione contraria alla formazione della Super League è quella di UEFA e FIFA, gli enti che governano il calcio europeo e mondiale. Se i migliori club del vecchio continente organizzassero un torneo alternativo per conto loro, l’interesse di pubblico, media e sponsor nei confronti della Champions League e delle altre manifestazioni crollerebbe drasticamente. La preoccupazione per l’eventualità è tale da spingere il presidente UEFA, Aleksander Ceferin, a parlare di “immoralità”, “attacco ai valori dello sport” e “tradimento”. Parole importanti, ma che stonano un po’ se emesse da organizzazioni che esercitano un monopolio pressoché totale del mercato e che, nel corso dei decenni, sono state travolte da innumerevoli bufere giudiziarie. Chissà se anche ai tempi di Joseph Blatter (comodamente seduto su una poltrona con il logo FIFA per 38 anni) e Michel Platini si parlava di moralità e di valori dello sport.
In seguito all’iniziativa dei dodici ‘ribelli’, da Ceferin e compagni sono partite minacce di sanzioni esemplari, tra cui alcune doverose di menzione.
- Escludere le squadre dalle coppe e dai campionati. E’ facile pensare che qualcuno tra i ‘dissidenti’ abbia accolto l’idea con una grassa risata, pensando al valore di una Liga senza Real Madrid, Barcellona e Atletico o a un Mondiale senza Lionel Messi, Cristiano Ronaldo, Luka Modric e via discorrendo. Oltretutto, escludendo le big dai campionati si commetterebbe il ‘crimine’ di cui le big stesse vengono accusate: negare alle squadre minori la possibilità di batterle.
- Escludere i giocatori dalle nazionali. Oltre alle indubbie difficoltà legali dell’opzione, qualcuno vada a spiegare ai tifosi egiziani che dovranno fare a meno di Mohamed Salah al prossimo Mondiale perché il suo datore di lavoro ha deciso di aderire a un torneo privato.
- Mercato possibile solo tra le squadre della Super League. Una soluzione che riuscirebbe a sfavorire sia i fenomeni emergenti, costretti a giocare in categorie inferiori fino alla scadenza del contratto, sia i piccoli club, che perderebbero i loro migliori atleti a costo zero. Niente Male!
L’armata degli oppositori
L’ondata di sdegno seguita alla comparsa della Super League travolge l’Europa intera, raccogliendo pareri contrari in tutte le stratificazioni sociali. Molti tifosi sfogano la loro rabbia sui social network, salvo poi indirizzare le loro argomentazioni a seconda della fede calcistica. Alcuni corrono davanti allo stadio più vicino (ovviamente rimanendo all’interno del proprio comune, come da decreto) per legare striscioni di protesta alle cancellate. I gruppi ultras, nei cui ranghi, per fortuna, non rientrano certamente mafiosi, squadristi, razzisti, antisemiti e omofobi, dichiarano che “questo non è il nostro calcio” (dove “calcio” è inteso come sport, non come gesto) e che “il calcio è lo sport del popolo”. A differenza dell’elitaria NBA, una lega seguita esclusivamente dai Giovani di Confindustria e che offre opportunità solo ad atleti privilegiati come l’ex-venditore ambulante Giannis Antetokounmpo, l’ex-senzatetto Jimmy Butler e l’ex-rifugiato di guerra Thon Maker.
Lo scrittore Maurizio De Giovanni, intervistato dal TG1 (in quanto… rappresentante della Super League? Esponente UEFA? Inventore del calcio? No, autore di alcuni libri sul Napoli), si lascia andare in diretta nazionale alla seguente massima: “Non siamo gli Stati Uniti: qui da noi i bambini vogliono sognare”. E’ ben noto, infatti, come gli aridi ragazzini statunitensi non ambiscano a diventare giocatori di football o di baseball per colpa della tirannia di NFL e MLB.
Alla schiera degli oppositori si uniscono presto molti addetti ai lavori. Fabio Licari, sul sito Gazzetta.it, parla di “folle spettacolarizzazione stile-NBA”. La stessa NBA a cui la “folle spettacolarizzazione” potrebbe presto regalare un contratto televisivo da 75 miliardi di dollari in nove stagioni. Roberto De Zerbi, allenatore del Sassuolo, in un discorso visibilmente dettato dalla passione e dalla (indiscutibile) buona fede parla di “colpo di Stato”, cita involontariamente i Modena City Ramblers (“E’ come se il figlio di un operaio non possa in futuro sognare di fare il dottore”) e dichiara di non voler giocare la partita contro il Milan, accusando i rossoneri di non voler giocare contro le ‘piccole’. Durante questo emozionante siparietto, nessuno gli fa notare che i club della Super League non intendono abbandonare i campionati delle rispettive nazioni.
Per guidare un grande esercito servono però leader di un certo calibro. Prima interviene la Conferenza Episcopale Italiana, con un monito romantico e rivoluzionario allo stesso tempo: “Lo sport non è business!”. ”Cosa ne capiscono i vescovi di sport?” potrebbe chiedere qualcuno. “Ne sapranno certamente più che di famiglia o di matrimonio” potrebbe rispondere qualcun altro. “Ne capiranno sicuramente di business” potrebbero azzardare i maligni. Ma a giocare il carico pesante, e a posteriori decisivo per le sorti della Super League, intervengono i politici.
Una mobilitazione politica senza precedenti
Nel giro di poche ore, l’intera classe politica europea fa fronte comune contro la Super League. Dalla Francia s’indigna il presidente Emmanuel Macron, dall’Italia arriva la condanna unilaterale di Mario Draghi, Enrico Letta, Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Tutti criticano Florentino Pérez e soci con un trasporto raramente manifestato in precedenza, forse nemmeno quando Vladimir Putin ha occupato la Crimea o quando Recep Tayyip Erdogan ha ordinato il primo degli innumerevoli attacchi missilistici in Siria.
A proposito di Erdogan e Putin: anche un loro caro amico interviene a spada tratta contro la Super League. Il governo ungherese impreziosisce il suo indispensabile comunicato ufficiale con la seguente frase: “Il primo ministro Viktor Orban crede nell’unità dello sport a livello europeo, così come nel principio di solidarietà”. Per i meno attenti: Orban è un antieuropeista con dichiarate tendenze di estrema destra. Ecco alcuni highlights della sua carriera politica: ha fatto costruire un muro al confine con la Serbia per bloccare l’immigrazione; ha definito “eroe nazionale” un ex-pilota al servizio dei nazisti; ha negato ogni responsabilità della sua nazione per il collaborazionismo con Hitler; ha introdotto diverse modifiche costituzionali atte ad accrescere il potere del presidente e a ridurre la libertà di espressione e di stampa; ha creato una commissione governativa di controllo televisivo; ha reso illegali la famiglia omogenitoriale e il cambio di sesso; ha proposto la reintroduzione della pena di morte in Europa. Chi meglio di lui può rappresentare ideali come l’unità e la solidarietà?
Il grande condottiero nella crociata anti-Super League è però Boris Johnson, primo ministro britannico. Forse vi ricorderete di lui quando si faceva beffe con pernacchia dello stesso COVID-19 che, qualche mese più tardi, lo avrebbe mandato in ospedale. Il biondo statista newyorchese (è nato e cresciuto nella Grande Mela) comincia avvertendo la nuova associazione che “faremo tutto il possibile per contrastarla, siamo pronti a prendere qualsiasi provvedimento”. Si parla di stop ai visti per i giocatori stranieri e di sospensione del servizio di polizia durante le partite. Dopodiché, Johnson (Boris, non Magic) convoca i suoi consiglieri più qualificati, ovvero i rappresentanti delle tifoserie organizzate inglesi, a Downing Street, esprimendo pubblicamente “irremovibile sostegno ai tifosi”. Da quell’incontro scaturisce un’idea rivoluzionaria: un ente statale di controllo sul sistema calcistico.
Alle prime minacce di Boris (lo statista, non la serie televisiva), Florentino Pérez risponde in modo sibillino: “Evidentemente è stato informato male da persone che ora hanno dei privilegi che non vogliono perdere”. In effetti, una mobilitazione così decisa e repentina e un coro così unanime possono avere tre spiegazioni realistiche: si considera lo sport una priorità assoluta (una notizia che potrebbe risultare inedita a molti), ci si schiera con la maggioranza per raccogliere consensi, oppure si teme che i delicati equilibri del sistema federale sportivo europeo si possano improvvisamente spezzare. Un sistema supercollaudato che ha permesso a molti ‘pesci pilota’ di nutrirsi per decenni sulla scia dei grandi squali, ma che da qualche tempo mostra qualche crepa di troppo (stay tuned).
La caduta della Super League
Non è ancora chiaro se a far terminare sul nascere il progetto Super League siano state le rivolte di piazza, le proteste di allenatori e capitani, le esigenze degli ultras, i moniti dei vescovi o le prediche di Orban. Probabilmente, a risultare decisive sono state le pressioni del governo britannico, oppure le indimenticabili parole di Maurizio De Giovanni al TG1. Sta di fatto che nella serata di martedì 20 aprile, nemmeno 48 ore dopo l’annuncio della sua nascita, la nuova lega si sgretola. Le sei squadre inglesi abbandonano la cordata, proiettando Boris Johnson in leggero vantaggio su Maurizio De Giovanni nei pronostici dei bookmakers. Liverpool e Arsenal arrivano persino a scusarsi con i propri tifosi, ammettendo al contempo l’influenza degli stakeholders (ovvero tutti coloro che portano soldi al club, non solo chi si reca allo stadio con la sciarpa) nella scelta di desistere. A quelli delle ‘Big Six’ seguono i passi indietro dell’Atletico e delle due milanesi.
Se oltremanica ci si cosparge il capo di cenere, nello Stivale si resta sul vago. L’Inter dichiara di non essere più interessata al progetto, come se qualcuno le avesse proposto di acquistare uno stereo nel parcheggio di un autogrill. La leggenda del Milan Paolo Maldini, oggi dirigente rossonero, sostiene di non essere stato informato dell’iniziativa. Del resto, non sarà certo una questione che lo riguarda… Andrea Agnelli, presidente della Juventus e co-promotore della Super League, osserva come non ci siano più le premesse per avviare subito le operazioni, prima che del fieno gli rotoli accanto, sospinto dal vento. Mentre Aleksander Ceferin, saldo sulla sua poltrona, gongola soddisfatto (“Ammirevole ammettere di aver sbagliato. L‘importante adesso è andare avanti insieme e ricostruire l’unità di cui godeva prima questo sport” dichiara, prima di esplodere in una risata da cattivo dei film), i dodici migliori club calcistici d’Europa confezionano una figura di palta (con la M maiuscola) dalle proporzioni epiche.
Sogni, favole e meritocrazia
Per il momento, la breve ma intensa epopea della Super League finisce tra gli sfottò dei tifosi e lo scherno dell’opinione pubblica. Una sorte tutto sommato meritata per i promotori dell’iniziativa, che hanno sbagliato tutto lo sbagliabile, e non solo da domenica 18 aprile 2021 in avanti. L’urgenza di creare una superlega è stata principalmente dettata dal colossale indebitamento in cui molti di loro si sono cacciati, spendendo molto più del possibile e aggirando in ogni modo le fragilissime normative sul fair play finanziario. L’annuncio ‘a sorpresa’ ha provocato una reazione istintiva e feroce del mondo esterno e delle istituzioni, a cui i membri fondatori si sono dimostrati incredibilmente impreparati.
Nel comunicato tramite il quale la Super League annuncia la sospensione delle attività, però, compare una frase significativa: “Riconsidereremo i passaggi più appropriati per rimodellare il progetto”. Questo significa che l’attuazione di tale progetto potrebbe essere semplicemente rimandata, ma non esclusa del tutto. In attesa che la questione si riproponga, tra uno sfottò e l’altro, sarebbe utile domandarsi se l’idea della Super League sia solo un colpo di testa primaverile di un gruppo di svitati miliardari, oppure un passaggio inevitabile, una naturale evoluzione del ramo professionistico dello sport più amato al mondo.
Secondo una delle accuse ricorrenti, tra quelle mosse in questi giorni, con la Superlega “si infrangerebbero i sogni di vedere un piccolo club competere contro quelli grandi”. Bisogna innanzitutto capire cosa si intende per “competere”. Se si traduce con “giocarci contro” il problema non si pone, visto che le firmatarie del progetto rimarrebbero iscritte ai campionati nazionali. Se si teme che le big, con le casse ulteriormente gonfiate dalla Super League, diventino troppo forti per poterle avvicinare in classifica, non si considerano le limitazioni imposte da un eventuale salary cap e l’amara realtà attuale; secondo le stime del sito Transfermarkt.it, il valore attuale della rosa della Juventus supera quello dei roster di Bologna, Parma, Sampdoria, Genoa, Spezia, Benevento e Crotone combinati. Oltre un terzo delle partecipanti alla Serie A. Forse con “competere” si intende “provare a vincere il campionato”?
Campionati nazionali vinti dal 2010/11 al 2019/20
- Serie A: 9 Juventus, 1 Milan. I 5 titoli precedenti sono stati assegnati all’Inter, uno dei quali a tavolino. Dall’istituzione del torneo a girone unico (1929) a oggi solo altre 9 squadre hanno vinto lo scudetto, solo Roma e Lazio dal 1991 in poi.
- Liga: 6 Barcellona, 3 Real Madrid, 1 Atletico Madrid. Nella storia solo altre 5 squadre hanno vinto lo scudetto, solo Valencia e Deportivo La Coruña dal 2000 in avanti.
- Bundesliga: 8 Bayern Monaco, 2 Borussia Dortmund. Il Bayern ha vinto 30 scudetti, dietro c’è il Norimberga con 9, di cui l’ultimo nel 1968. Il Borussia Dortmund è a quota 8, con il trionfo più recente datato 2012.
- Ligue 1: 7 Paris Saint-Germain, 1 Lille, 1 Montpellier, 1 Monaco. Tra il 2001 e il 2008 ha vinto solo il Lione.
La Premier League inglese è sicuramente più equilibrata: dal 2000 in avanti hanno vinto Manchester United, Arsenal, Chelsea, Manchester City, Leicester (ne riparleremo) e Liverpool. Cinque di queste sei squadre hanno inizialmente aderito alla Super League.
Analizzando altri campionati che hanno portato le loro squadre di vertice a competere (e in alcuni casi a vincere) in Champions League, troviamo situazioni ancora più estreme.
- Campionato ucraino (nato nel 1992): il primo scudetto è stato vinto dal Tavrija, gli altri 28 da Dinamo Kiev o Shakhtar Donetsk.
- Campionato greco: dal 1996 a oggi (25 anni) ha vinto 2 volte il Panathinaikos, 1 volta l’AEK Atene e 1 il PAOK Salonicco. Tutti gli altri anni l’Olympiakos, che ora ha in bacheca 46 scudetti.
- Eredivisie (Olanda): dal 1964 a oggi ha vinto 2 volte l’AZ Alkmaar, 1 volta il Twente, tutti gli altri anni una tra Ajax, PSV Eindhoven e Feyenoord.
- Scottish Premiership: dal 1985 a oggi hanno vinto solo Rangers e Celtic.
- Primeira Liga Portoghese: in tutta la sua storia (dal 1934 a oggi, 87 anni), solo due volte non ha vinto una tra Benfica, Porto e Sporting: il Belenenses nel 1946 e il Boavista nel 2001.
Di fatto, nei campionati attuali si compete solo per non retrocedere (…) o per essere eliminati ai gironi di Champions League dai club più ricchi. Le cosiddette “favole”, come il titolo del Leicester o la qualificazione in Champions League dell’Atalanta, sono episodi più unici che rari. Puntualmente, l’Atalanta di turno sarà costretta a cedere i suoi migliori giocatori ai grandi club per sopravvivere e attendere il prossimo miracolo. Due piccole note a margine: il proprietario del Leicester, il thailandese Aiyawatt Srivaddhanaprabha (per i saggi amici “Top”), è miliardario in dollari; l’Atalanta, malgrado i recenti successi, ha avuto per anni uno stadio fuori norma per gli standard europei, trovandosi costretta a giocare l’Europa League a Reggio Emilia (!) e la Champions a San Siro. Queste considerazioni ci portano all’altro tormentone di questi folli giorni: “Con la Super League si distrugge la meritocrazia”. La meritocrazia è quella che da decenni consente di vincere solo alle squadre più ricche, e paradossalmente più indebitate?
A proposito di meritocrazia, sogni e favole: nel periodo di massimo splendore del calcio italiano, tra gli Anni ’90 e i 2000, a contendersi lo scudetto c’erano le “sette sorelle”. Tre di queste erano il Parma di Calisto Tanzi, la Lazio di Sergio Cragnotti e la Fiorentina di Vittorio Cecchi Gori. Oltre alla passione per il calcio, questi imprenditori hanno in comune una bella condanna per bancarotta fraudolenta. Le altre “sorelle” sono rimaste coinvolte nell’inchiesta sui Rolex regalati agli arbitri (2000), nello scandalo Calciopoli (2006) o in entrambe le vicende. Ah, i bei valori di una volta!
Il “modello americano” (parte seconda)
Come se la cavano, dall’altra parte dell’oceano, le grandi leghe sportive? Partiamo dall’aspetto competitivo.
Campionati USA (2011-2020)
NFL: 8 vincitori diversi
NBA: 7 vincitori diversi
MLB: 8 vincitori diversi
NHL: 7 vincitori diversi
MLS: 7 vincitori diversi
Tornei meno scontati, dunque. Persino meno scontati della Champions League, conquistata da 5 squadre diverse nell’ultimo decennio. Chissà quanti soldi sperperano, quegli sprovveduti degli americani! Beh, nel 2019, prima dell’avvento del COVID, la National Football League ha fatto registrare introiti per 16 miliardi di dollari. I risvolti economici della pandemia hanno ridotto l’importo a 12 miliardi, mentre la National Basketball Association si è dovuta accontentare di 8,3 miliardi. Sebbene ognuna di queste federazioni abbia di volta in volta problemi interni di vario genere, il loro sistema gestionale ha dimostrato di poter reggere l’urto con un’emergenza sanitaria mai vista prima.
Sempre nel 2020, la UEFA ha ricavato 3,25 miliardi di euro (3,9 miliardi di dollari). Un dato sconcertante, se paragoniamo il bacino d’utenza dell’associazione calcistica europea a quello della NBA e, a maggior ragione, della NFL. Provate a entrare in un supermercato e chiedere a dieci persone chi sia Patrick Mahomes: vedrete che, nel giro di cinque minuti, qualcuno chiamerà la sicurezza.
Considerando che 2,04 di questi miliardi vadano divisi tra i 32 club partecipanti alla Champions League e che 295 milioni spettino alla UEFA, è facile intuire l’origine del malumore di Pérez, Agnelli e soci, ormai (o meglio, fino alle minacce di Boris Johnson) consapevoli di avere il coltello dalla parte del manico. Presentando la Super League, il presidente del Real Madrid ha parlato esplicitamente di “troppi pesci piccoli che mangiano grazie ai soldi generati da quelli grossi” (come i pesci pilota di cui sopra, che sono comunque animali rispettabilissimi), facendo notare come i 12 club fondatori siano supportati dall’80% dei tifosi di tutto il mondo. Perché a dare linfa al movimento non è solo il mercato europeo, indissolubilmente legato alle romantiche tradizioni di un tempo. Pérez, con evidente mancanza di autocritica, ha predetto che il crescente indebitamento delle grandi squadre finirà per far collassare l’intero sistema, travolgendo quelle piccole.
A tutto ciò, Florentino ha aggiunto un’altra questione cruciale: il sempre maggiore disinteresse del pubblico giovane (quello che dovrà sostenere il movimento nei prossimi decenni) nei confronti del calcio tradizionale. Un disamoramento indotto forse dalle nuove modalità di fruizione dei contenuti offerti dalle svariate piattaforme multimediali disponibili. Nel mondo del “tutto e subito” bisogna essere in grado di proporre qualcosa di innovativo, interattivo, avvincente e spettacolare, altrimenti si viene divorati. Le future generazioni non si ricorderanno di Baggio, Cruijff, Eusebio e Meazza, delle domeniche a spasso con la radiolina e di Novantesimo Minuto. Pretenderanno e premieranno il prodotto migliore, che permetterà loro di crearsi nuovi idoli e una nuova storia da tramandare.
Se la risposta alle loro esigenze e l’evoluzione del gioco stiano nella nuova Champions a 36 squadre o nell’avvento della Superlega non è dato sapersi (saranno i bambini italiani, statunitensi, iraniani, togolesi e australiani di oggi a determinarlo), ma perché escludere a priori una delle due opzioni? Fermo restando che il tono e le modalità di comunicazione potrebbero fare una differenza abissale tra il successo e un definitivo fallimento, sarebbe costruttivo interrogarsi sul reale significato del progetto Super League. E’ davvero un processo atto alla distruzione dei grandi valori che oggi regnano sovrani, oppure l’inevitabile svolta di un sistema arrivato al collasso?
1 commento
Fino ad ora il miglior articolo sul tema, dico la mia.
Partirei prima di tutto da un ragionamento culturale, la cultura degli sport europei è diversa dalla cultura degli sport a stelle e strisce, i tornei americani sono nati così, siamo d’accordo ci sono state nel tempo scissioni e fusioni delle leghe, ma il sistema è lo stesso pressoché dagli albori: unica lega, stesse squadre, no retrocessioni, ci scambiamo i giocatori e diamo a tutti la possibilità di vincere tramite i vari draft e lo spartire del bottino, non ultimo per far si che tutto il comparto sia ben gestito organizziamo bene tutto il comparto finanziario con salary cap, luxury tax, contratto collettivo ecc…,; tutti felici e contenti. Cos’ha in comune la Super League con tutte queste cose? Solo il numero chiuso delle squadre, è un po’ poco per pensare a rivoluzione del calcio.
Si parla dell’ormai insostenibilità del calcio, ma perché a risolvere quest’insostenibilità la soluzione sarebbe quella di creare una lega senza senso fatta dalle squadre più ricche, che di fatto sono quelle che hanno creato questa insostenibilità? La verità è che le stesse squadre fondatrici sono quelle con i rossi di bilancio più spaventosi e, non bastando più l’introito della CL, hanno pensato bene di autofinanziarsi creando questa cosa folle e spartendosi il bottino. Forse la rifondazione del calcio deve partire da basi più solide, forse dovrebbe essere istituita una lega che fa da capo ai campionati europei e per tutti dovrebbero essere stabilite le stesse regole: premi retrocessione congrui a tutti, ridistribuzione più equa dei diritti televisivi, salary cap, luxury tax ecc… una casa si costruisce dalle fondamenta e non dall’intonaco, una volta istituiti dei concetti e delle regole che appianino le disparità allora forse si può pensare ad un mini torneo di elite da aggiungere alla champions, e per mantenere la meritocrazia magari potrebbero partecipare le prime due di ogni campionato, Quello non assicurerebbe uguale spettacolo?
Finché le più ricche possono permettersi di comprare un giocatore a 100 mln e dargli 30 mln netti a stagione mentre ci sono squadre di cui 30 mln è il tetto ingaggi lordo di tutta la squadra, niente può curare questa malattia chiamata insostenibilità, basta guardare il Monza: galleggiava in serie C, è stato acquistato da Berlusconi ed è quasi tornato in serie A dopo 3 anni, questo perché? Se sei ricco è facile convincere Boateng e Balotelli a giocare in Serie B. La Super Lega non farebbe altro che alimentare tutto questo. Se le grandi squadre fossero costrette ad appianare gli ingaggi (come finalmente è stato fatto nel campionato cinese, e di fatto c’è stato il fuggi fuggi dei vari giocatori europei), forse un giocatore non deciderebbe sempre e solo per il denaro ma magari comincerebbe a credere in un progetto, in una squadra, in una piazza.
E’ facile fare il confronto delle vittorie con le leghe americane, ma ha poco senso proprio per il sistema delle leghe dove bene o male tutte le squadre da un anno all’altro possono quasi ottenere una squadra da titolo, o costruirla nel tempo grazie alla solidità finanziaria di cui gode la lega, e non ultimo, perché in totale negli Stati Uniti ci sono 30 squadre che sono abbastanza facili da gestire rispetto all’Europa dove ci sono 20 squadre per campionato senza contare le leghi minori. Nel calcio le piccole squadre che hanno ottimi giocatori, sono costrette a venderli alle grandi squadre per far quadrare i bilanci, le grandi squadre acquistano ottimi giocatori e vincono campionati, le piccole continuano a puntare su giovani promesse per poi rivenderle, è un cane che si morde la coda. E grazie a questo circolo vizioso alcuni tra gli uomini più ricchi del pianeta acquistano piccole squadre che poi gestiscono come delle piccole aziende giocando su questo sistema, senza mai retrocedere e senza mai puntare a risultati concreti, e questo per non rischiare di diventare il Barcellona di turno, che ha si fagocitato premi negli ultimi anni, ma li ha pagati molto molto cari a guardare i conti. Abbastanza assurdo.
Come è possibile che i club più ricchi facciano i finti benefattori, quando di fatto hanno deciso chi può partecipare e chi invece non può? Perché 6 inglesi, 3 italiane e 3 spagnole? Fatalità Bayern e PSG non ne hanno fatto parte, forse perché queste due hanno i conti a posto e hanno aspettato fino all’ultimo per evitare di fare la figura degli idioti? Questi squadroni piangono e si lamentano degli incassi della Champions, ma è illogico che la Juve abbia guadagnato dalla CL 84 mln e abbia avuto una riduzione di 2.9 mln a causa del covid, mentre l’Atalanta che è uscita ugualmente agli ottavi ne abbia guadagnati 56 e abbia avuto una riduzione di 1,9 mln. Ci rendiamo conto che c’è qualcosa che non va? Ci rendiamo conto che non c’è proporzione? E hanno anche il coraggio di lamentarsi.
Io penso sia stata una furbata per sistemare i conti mascherandola da rivoluzione del calcio, vorrei vedere cosa avrebbe detto Agnelli se fosse stato uno di quelli non invitati anziché uno dei fondatori, anche perché non reputerei in questo momento la Juve uno dei club top visto che in 3 anni è stata eliminata dalla champions da Ajax, Lione e Porto e quest’anno rischia anche di non qualificarsi, discorso analogo può essere fatto per metà delle inglesi e per l’Atletico Madrid.
Che rivoluzionino davvero il calcio, a favore di tutti però.