Il Destino, Paul Pierce
E pensare che la sua squadra del cuore da piccolo, si chiamava Los Angeles Lakers. Chi poteva immaginarlo che sarebbe diventato il rivale numero uno dei gialloviola di Kobe insieme ai suoi Celtics?
È il 24 giugno del 1998 siamo al General Motors Place, Vancouver, Canada. Il treno è giunto. È scoccata l’ora. Le porte della NBA si stanno per aprire. Paul Pierce decide di rendersi eleggibile al draft. Subito sale l’attenzione intorno a lui, e in molti lo danno fra le top five. La 1^ scelta va ai Los Angeles Clippers, che selezionano Michael Olowokandi.
Le chiamate continuano e si arriva cosi alla 10^ scelta. Paul Pierce, dato al massimo fra le prime cinque chiamate, non era ancora stato selezionato e non era di buon umore. Il ragazzo di Oakland, cresciuto a Inglewood, passato per Kansas, viene selezionato allora dai Boston Celtics: il resto è storia.
Icona del team del Massachusetts, ha deciso di finire quest’anno la sua carriera con la maglia dei Los Angeles Clippers, ma ha dichiarato apertamente di voler chiudere da giocatore dei Celtics, quindi firmando un contratto con la sua prima squadra in NBA.
Una cosa che ha sicuramente contraddistinto Paul Pierce è stato il suo tiro. Sì, perché fin da piccolo non hai mai avuto un fisico possente né degli ottimi piedi, ma il tiro pulito quelli si, lo aveva. Lo step back fa parte del suo repertorio e in questi anni ci ha sempre deliziato con delle giocate al cardiopalma soprattutto nei secondi finali. Anche oggi infatti, nonostante, l’età riesce a muoversi sul campo con discreta leggiadria e essere decisivo nei momenti importanti.
Il Soprannome
“My name is Shaquille O’Neal and Paul Pierce is the truth”
Dice a fine partita Shaq. Lakers-Celtics, 13 marzo 2001. Boston perde quella partita 107-112, ma Pierce mette a referto 42 punti tirando con 13/19. Il commento di O’Neal gli ha definitivamente “appiccicato” il soprannome che si porterà dietro da quel momento in poi. The Truth, la verità, perché Paul Pierce ha una capacità: ti fa capire veramente chi sei.
Come Al Harrington, ai playoff 2003, triste protagonista di una delle più grandi umiliazioni personali del secolo, dopo aver provocato il #34 sul tiro per decidere gara uno dei playoff: l’ala dei Pacers urla qualcosa, The Truth lo ascolta e risponde, poi palleggia e si arresta da otto metri, step back. Beh il finale potete immaginarlo.
Oppure come la partita disputata qualche anno fa contro i Hawks con la maglia dei Wizards.
Chiusa la serie in quattro gare contro i Raptors, Washington si presenta al cospetto della sorpresa della stagione, gli Atlanta Hawks. Pari uno dopo due partite, ancora una gara tre decisiva. Parità a quota 101 con quattordici secondi da giocare, rimessa Wizars. La palla finisce nelle mani di Pierce in lunetta. Cronometro che scorre in testa, otto, sette, sei, virata, palleggio arresto in step back e tiro sulla sirena con tre difensori addosso: parabola infinita, palla contro il tabellone, canestro allo scadere. È l’epilogo di un’altra, l’ennesima, clamorosa prova di forza firmata Paul Pierce
Pensate voi ..sarà un caso, solito tiro fortunato dell’ultimo secondo. Invece NO. Dopo qualche giorno si ripete, di nuovo.
La serie tra Hawks e Wizards è sul 3-2. Gara 6. Sotto di 3 punti The Truth potrebbe averlo rifatto. E’ questione di decimi di secondo, neanche, millesimi. Gli arbitri si affidano alla provvidenza dell’instant replay, che non lascia interpretazioni: il tiro non è valido. Paul Pierce è incredulo, si gratta nervosamente il capo guardando verso l’alto. Gli occhi sono lucidi come quelli di Doc Rivers quando capì che qualcosa stava finendo. Forse, per Paul, è l’ultima fermata.
La sua carriera non è stata sempre rosa e fiori, ne ha messi tanti decisivi ma ne ha sbagliati altrettanti. Contro i Raptors, qualche anno prima non riuscì ad infilare uno step back, condannando i suoi Celtics.
“Eravamo sopra 94-93 con poco tempo alla fine e avevo l’opportunità di chiudere la partita. Antoine Walker penetrò sulla linea di fondo e mi scaricò la palla per un tiro pulito. Lo sbagliai.
I Raptors avevano la palla con pochi secondi rimasti sul cronometro e…”
“Era il mio incubo.
Più di dieci anni dopo, ricordo ancora quella strana sensazione che ebbi subito dopo il canestro dei Raptors. Nello spogliatoio ero vicinissimo alle lacrime e coach Pitino ci stava difendendo di fronte alla stampa. E’ un grande allenatore. Mi sento ancora con lui dopo tutto questo tempo.
Fui l’ultima persona a lasciare lo spogliatoio dopo la partita. E’ così che funziona di solito quando sbaglio il tiro decisivo. Resto sempre in disparte e riguardo tutta la scena nella mia testa. Penso a cosa avrei potuto fare per cambiare il risultato finale e continuo così fino a quando non ritrovo la fiducia in me stesso per farlo alla prossima occasione.
In un certo senso, per me, sbagliare il tiro più importante è una fonte di forza e fiducia. Ma segnarlo? Beh, quello è il momento per cui vivo.”