Loro dentro, noi fuori. Così, secco, inoppugnabile, ben chiaro. In puro stile slavo. La Serbia non partecipava alle Olimpiadi dal 2004, quando ancora era attaccata al Montenegro, ultimo baluardo (caduto due anni dopo) del sogno panslavo di Tito. Dodici anni di attesa, come per noi. Loro il viaggio a Rio se lo sono guadagnati, noi restiamo a casa a guardare, ad aspettare il prossimo giro a Tokyo, a tamponare il tamponabile. Ma su questo ci torniamo tra qualche riga.
Dodici anni, e in mezzo una crisi e una rinascita. Perché loro ci riescono, il più delle volte. Deve essere legato a quel che raccontava Boris Stankovic, grande saggio del cesto europeo e jugoslavo: “In Serbia, la storia si misura tra tempo di guerra e tempo non di guerra”. Logico e fisiologico quindi che un popolo abituato alle ricostruzioni riesca a porre velocemente e bene le basi per il rilancio di quella che è la selezione di punta dell’intero movimento sportivo locale. Undicesimi ad Atene 2004 e Tokyo 2006, noni all’Eurobasket casalingo del 2005: segnali scoraggianti, preludio al quattordicesimo posto di Spagna 2007. Da lì, la risalita: le qualificazioni all’Europeo polacco che videro i serbi superare l’Italia, l’argento immediato nel 2009 contro la Armada Invencible e in un batter d’occhio siamo arrivati fino al 2016.
Un percorso meno lungo e travagliato del nostro, e non c’è dubbio che la guida di Dusan Ivkovic di questo percorso sia stata l’alfa e l’omega. Santone, guru, maestro: il florilegio e glorilegio di sinonimi non descrive appieno il contributo del sapiente Duda, richiamato in sella per invertire la parabola da pericolosamente discendente a pericolosamente ascendente. Fu rivoluzione, e fu immediata. Fuori i vari Drobnjak, Pavlovic, Stojakovic, Radmanovic, Jaric, Milicic, che in nazionale avevano iniziato a venirci a fasi alterne e magari neanche con la testa giusta, impegnati com’erano nelle rispettive carriere NBA, fuori anche Igor Rakocevic, che testa e cuore aveva continuato a mettercele ma iniziava a mancare delle gambe. Al loro posto, un’infornata di giovani virgulti: Markovic, Teodosic, Tepic, Tripkovic, Velickovic, Nemanja Bjelica, Paunic, Macvan, Keselj, Marjanovic, affiancati ai più esperti Savanovic, Erceg, Krstic. Col tempo, i primi due sarebbero diventati i cervelli gemelli della Serbia, alcuni avrebbero fatto dentro-fuori, alcuni sarebbero rimasti, altri sarebbero andati, per far spazio a nuove leve come Bodganovic, Kalinic, Jokic, Jovic, Nedovic, Dangubic, o a qualcuno più scafato che una chance ancora non aveva avuto davvero l’ora di giocarsela, ad esempio Stimac o Raduljica. Nel frattempo, è cambiato il ct, da Ivkovic a Djordjevic, ma non è cambiata la filosofia, che derivava in fondo dalla tradizione.
Già, la tradizione, quella che se avessimo seguito anche noi, ora staremmo festeggiando il viaggio olimpico. Perché i serbi, al contrario di noi, sono a Rio perché hanno seguito il solco tracciato da chi è venuto prima di loro. Noi e il nostro postmodernismo fatto di showtime, penetrazioni a testa bassa, isolamenti, triple, cose fatte strane, siamo rimasti a casa, mentre la Serbia ha raggiunto il risultato con le sue antichità sempre attuali: nella propria metà campo aiuto e recupero, difensori distanti dall’attaccante ma non troppo, marcatura fisica solo nella zona della palla e sotto canestro, mentre in attacco movimento costante di uomini e pallone, circolazione interno-esterno ed esterno-interno, e giocatori che, prendendo posizione, lasciano sguarnita una porzione del campo che occupata in corsa dal tagliante diventa non difendibile. Sasha Djordjevic con pochi semplici accorgimenti, ha impostato una nazionale che inseguiva l’obiettivo a cinque cerchi dal 2004. Oltre a questo, alla fine ha fatto la differenza l’identità volitiva della Serbia più forte di sempre, che è
Serbia, identità volitiva
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