I Boston Celtics, protagonisti di un grande avvio di stagione, si guadagnano la copertina della nuova edizione di Three Points. La nuova NBA deve ancora trovare le sue gerarchie, con la maggioranza delle squadre ancora impegnate in una fisiologica fase di ‘rodaggio’. Le prime settimane di regular season, però, hanno già fatto intendere che ci aspettano più sorprese del previsto. Una di queste riguarda proprio i Celtics, da soli in testa alla classifica della Eastern Conference. Il nostro viaggio comincia proprio da Boston.
1 – Riecco i Boston Celtics
I Boston Celtics sembravano aver perso il sentiero giusto, quello che porta alle NBA Finals. Gli innesti di Kyrie Irving e Gordon Hayward avrebbero dovuto dare la spinta decisiva per provare a innalzare il diciottesimo stendardo al soffitto del TD Garden, invece qualcosa è andato storto. Il percorso di una squadra giovane e in continua crescita si è rivelato incompatibile con quello di una superstar già affermata come ‘Uncle Drew’, arrivata nel Massachusetts con il proposito di ‘insegnare a vincere’ agli inesperti Celtics. Nell’unico anno con il roster al completo, sia il progetto tecnico, sia gli interpreti principali si erano dovuti ‘snaturare’ per permettere a Kyrie di rendere al meglio. In effetti, il numero 11 aveva disputato un’ottima stagione individuale, ma i Celtics, irriconoscibili per fluidità offensiva e applicazione difensiva, non erano mai riusciti a trovare la quadratura del cerchio. La previsione “tanto si riprenderanno ai playoffs” era stata puntualmente smentita; dopo un primo turno agevole contro i rimaneggiati Indiana Pacers, i Milwaukee Bucks avevano sbattuto con forza la porta sul muso degli uomini di Brad Stevens.
In estate, le partenze di Al Horford, Marcus Morris, Aron Baynes e Terry Rozier parevano aver nettamente indebolito i Celtics e gli innesti di Kemba Walker, Enes Kanter e di ben sei rookie (Carsen Edwards, Romeo Langford, Grant Williams, Tremont Waters, Tacko Fall e Vincent Poirier) non sembravano sufficienti per coprire la falla. La sconfitta all’esordio stagionale, contro degli ottimi Philadelphia 76ers, appariva come una conferma: questo 2019/20 sarebbe stato una montagna assai ripida da scalare.
Invece, da quel momento in poi sono arrivate nove vittorie consecutive, tra cui quelle contro Toronto, Milwaukee (al termine di una grande rimonta), San Antonio (in trasferta) e Dallas. Paradossalmente (o forse no), perdere uno dei più forti attaccanti NBA ha migliorato di gran lunga l’attacco dei Celtics; oggi, Boston ha il miglior offensive rating (punti su 100 possessi) della lega, l’anno scorso il decimo.
Merito di un equilibrio finalmente ritrovato, non cercato solo a parole. Kemba Walker, che di certo non avrà mai il talento di Irving, è indubbiamente il miglior giocatore della squadra, al di là dei 25 punti di media. La sua leadership è evidente, tangibile, eppure non ‘forzata’ e ingombrante come quella del suo predecessore. Accanto all’ex stella degli Charlotte Hornets, ognuno sta riuscendo a ritagliarsi un ruolo importante, brillando di luce propria quando serve. Jaylen Brown, fermo per tre partite a causa di una brutta infezione a una gamba, è rientrato più in forma che mai, contribuendo in modo determinante alle vittorie contro Spurs (30 punti) e Mavericks (25, con 11 rimbalzi). Jayson Tatum, esattamente come i Celtics, sembra tornato quello che aveva incantato il Garden due stagioni fa: poche sbavature (eccezion fatta per il pessimo 1/18 da tre punti contro Dallas), meno forzature, ma sempre pronto a farsi avanti all’occorrenza. Vedere, per credere, lo straordinario secondo tempo contro i Bucks o il game-winner ‘bryantiano’ con cui ha steso i New York Knicks. In un’organizzazione bilanciata e ‘democratica, finalmente fedele ai dettami di coach Stevens, si stanno mettendo in luce anche i giovani, tra cui spicca l’interessantissimo Robert Williams; chissà che non possa essere lui, il prossimo centro titolare dei Celtics.
Nel grande inizio di stagione biancoverde c’è anche lo zampino di Gordon Hayward. Dopo la difficilissima stagione post-infortunio, resa ancora più complicata dalle aspettative e dalle tensioni in spogliatoio, il pupillo di Stevens sembrava sulla strada giusta per tornare ai livelli che lo avevano portato all’All-Star Game con la maglia degli Utah Jazz; 18.9 punti di media in stagione, ha vissuto la miglior serata in carriera (39 punti, 8 assist e 7 rimbalzi) proprio in quella Quicken Loans Arena teatro, nel 2017, del suo terribile infortunio. Quando l’incubo sembrava finalmente passato, ecco la frattura alla mano che lo terrà fermo per circa sei settimane. Poco male; il nuovo Hayward è pronto per rialzarsi e continuare a correre. E i nuovi Celtics, tornati finalmente sul vecchio sentiero, sono pronti per fare l’ultimo passo. Quello che porta sul trono della Eastern Conference.
2 – Attenti al Lupo!
Da ancor prima che iniziasse la sua esperienza NBA, Andrew Wiggins è stato accompagnato da una serie di slogan. Il primo era “Tank For Wiggins”, coniato durante la stagione 2013/14. All’epoca, il giocatore canadese era il migliore prospetto d’America e, dopo l’obbligatoria stagione collegiale con i Kansas Jayhawks, sarebbe stato indubbiamente la prima scelta assoluta al draft. La prospettiva di portarsi a casa colui che veniva definito “il LeBron James canadese”, o anche “il Michael Jordan della foglia d’acero” (altri slogan) spingeva varie franchigie a, mettiamola così, ‘non disperarsi troppo’ in caso di ripetute sconfitte.
A vincere l’ambito premio erano stati i pessimi Cleveland Cavaliers, quelli del giovane Kyrie Irving, ma anche di Dion Waiters, Anthony Bennett e Andrew Bynum. Pochi giorni dopo, la decisione di LeBron James di ‘tornare a casa’ aveva cambiato drasticamente le prospettive in Ohio. I Cavs avevano preferito puntare su una superstar fatta e finita come Kevin Love, piuttosto che su un talento da far crescere con calma, così avevano spedito Wiggins ai Minnesota Timberwolves, tra le contropartite per la stella da UCLA. Nel Minnesota, Andrew aveva vissuto un’ottima stagione d’esordio, culminata con il premio di Rookie Of The Year. L’altrettanto eccezionale debutto di Karl-Anthony Towns, l’anno dopo, aveva generato nuovi slogan intorno a Wiggins e ai T’Wolves. Mentre a Minneapolis spopolavano frasi come “All Eyes North”, da noi prendeva piede il mantra “Occhio a Minnesota”. Quando sembrava che giocatore e squadra fossero pronti per il definitivo salto di qualità, ecco il passo falso, rappresentato dalla parentesi Tom Thibodeau – Jimmy Butler, che ha di fatto portato la franchigia in una pericolosa fase di stallo. Tutti quegli slogan sono presto diventati una sorta di ‘barzelletta’, un motivo di dileggio da parte del popolo del web.
In questo inizio di 2019/20, però, qualcosa sembra cambiato. Liberi da ogni pressione e da aspettative esagerate, i Timberwolves stanno mostrando che, sotto la neve, un po’ di brace arde ancora. La squadra di Ryan Saunders ha vinto sette delle prime undici partite disputate, superando formazioni da playoffs come Brooklyn, Miami, Detroit e San Antonio. In questo ottimo avvio, il contributo di Wiggins è evidente; al momento, il canadese sta facendo registrare le migliori cifre in carriera (25.9 punti, 5.1 rimbalzi, 3.6 assist e il 47.8% dal campo) ed è stato l’assoluto protagonista delle vittorie contro Heat (25 punti, con tre bombe decisive negli ultimi tre minuti), Warriors (40 punti e 7 assist), Pistons (33 punti) e Spurs (30). Dopo l’infortunio della point guard titolare, Jeff Teague, spesso è stato Andrew a farsi carico delle operazioni di playmaking, con risultati notevoli: nelle quattro gare senza Teague, la sua media-assist è salita da 1.7 a 5.8. I rinvigoriti Wiggins e Towns (il cui grande inizio di stagione gli è valso la nomina a Western Conference Player Of The Week) sono gli uomini-copertina di un gruppo che sembra finalmente pronto a farsi sentire. Al loro fianco, da segnalare l’ottimo impatto dei sempre affidabili Robert Covington e Josh Okogie e di giocatori meno attesi come Treveon Graham, Jake Layman, Shabazz Napier e il rookie Jarrett Culver.
Guai a lanciarsi in prematuri entusiasmi, soprattutto visti i precedenti, però l’eterna promessa Minnesota e l’eterno incompiuto Wiggins stanno mostrando segnali piuttosto incoraggianti. Anche la situazione attuale a Ovest, con il crollo di Golden State, gli stenti di Sacramento e Portland e il pessimo avvio di New Orleans, sembra indurre all’ottimismo e ad ambizioni playoffs che, nelle previsioni della vigilia, sembravano ormai un’utopia. A questo punto, possiamo lanciare un nuovo slogan, anche se con tutta la cautela del caso: “Attenti al Lupo!”.
3 – Tony Parker, il motore della Dinastia
Tra gli indimenticabili protagonisti della dinastia dei San Antonio Spurs, Tony Parker è forse il meno celebrato. Del resto, Tim Duncan è la pietra miliare, l’indiscutibile fenomeno e l’indiscusso leader senza cui nulla sarebbe potuto accadere, il due volte MVP e tre volte miglior giocatore delle finali. Manu Ginobili è colui che maggiormente ha rappresentato il trait d’union (un po’ di francese è d’obbligo, in questo caso) tra la NBA e il basket FIBA, il primo a far capire che un giocatore cresciuto cestisticamente ‘come noi’ avrebbe potuto davvero sfondare e vincere anche nella lega più competitiva al mondo. E poi il suo sangue latino lo ha reso l’idolo incontrastato del pubblico di San Antonio, in gran parte ispanico.
Tony Parker è sempre stato ‘l’altro’, il terzo dei ‘Big Three’. Eppure lui, sulla carta europeo (nato in Belgio, nella splendida Bruges, e cresciuto in Francia) ma di fatto americano, per estrazione familiare (il padre, statunitense, ha giocato a Loyola State University) e per lo stile di gioco da playground, è stato l’insostituibile motore di una squadra che, pur cambiando gli elementi di contorno, è stata capace di mantenersi ad altissimi livelli così a lungo.
Quando è arrivato, nel 2001, le aspettative su di lui erano quelle generalmente riposte su un giocatore scelto a fine primo giro (ventottesima chiamata): un elemento da inserire progressivamente nelle rotazioni, sperando che possa rivelarsi un valido complemento per le star della squadra. Invece, Parker è diventato in breve tempo una di quelle star. Già nella sua stagione da rookie è stato promosso in quintetto (al posto di Antonio Daniels) da coach Gregg Popovich, che ha capito presto di aver trovato il sostituto di Sean Elliott, fresco di ritiro. La sua innata capacità di battere l’uomo ha seminato il panico nelle difese NBA per diciassette anni (senza contare l’ultima, trascurabile esperienza a Charlotte), e il suo letale pick and roll con Duncan ha procurato notti insonni a diversi allenatori avversari, Phil Jackson e Mike D’Antoni in primis.
Le sue accelerazioni, le sue famose virate e la sua capacità di mettere in ritmo i compagni hanno allungato la carriera di Duncan e Ginobili (ma anche quella di David Robinson, suo compagno per le prime due stagioni) e hanno contribuito a rendere all’altezza giocatori che, i altri contesti, non lo sono stati. I suoi canestri impossibili hanno deciso partite importanti, se non intere serie playoff. Il premio di Finals MVP vinto nel 2007 e le sei convocazioni all’All-Star Game sono solo coccarde da riporre in bacheca; le migliori testimonianze del suo reale impatto sulla Dinastia Spurs sono i volti e le parole di compagni e allenatori, l’affetto incondizionato dei tifosi e quel numero 9, che, da lunedì notte è appeso lassù, accanto a quelli degli immortali.