Con l’arrivo del nuovo millennio, molte delle sgargianti divise degli Anni ’90 sparirono dalla circolazione. Squadre come Toronto Raptors, Vancouver Grizzlies e Phoenix Suns optarono per un ‘ammodernamento’ del loro look, decretando di fatto la fine di un’epoca. A Washington, si scelse di procedere in maniera leggermente diversa: non sarebbero cambiate solo le maglie, sarebbe cambiato tutto. I nuovi Wizards guidarono la città attraverso un decennio caratterizzato da follie e sogni infranti, leggende in declino e stelle nascenti, ma soprattutto dall’inaspettata ascesa e dalla brusca caduta di uno dei massimi esponenti della ‘Generazione X’. Erano gli Wizards degli Anni Zero.
I Washington Bullets non erano la prima incarnazione della franchigia capitolina. Quando debuttarono in NBA, nella leggendaria stagione 1961/62, si chiamavano Chicago Packers, ma un anno dopo furono rinominati “Zephyrs” per cancellare ogni accostamento con i Green Bay Packers, arci-rivali dei Chicago Bears nella NFL. Nella ‘Windy City’, però, non c’era ancora terreno fertile per una squadra di basket professionistico. Nel 1963, la franchigia si spostò a Baltimore, dove assunse il nome “Bullets”. Già utilizzato dai primi Baltimore Bullets agli albori della NBA (sparirono nel 1954), era un omaggio alla Phoenix Shot Tower, storico monumento cittadino. Un nome che seguirà il club, dieci anni più tardi, anche a Washington. Negli Anni ’70, i Washington Bullets avevano conosciuto il loro momento di massimo splendore, vincendo un titolo NBA (1978) e perdendo altre tre finali. Con l’addio dei pilastri Wes Unseld ed Elvin Hayes, la squadra era sprofondata in una mediocrità apparentemente eterna. Nemmeno rimettere insieme le due punte di diamante dei ‘Fab Five’ di Michigan, Chris Webber e Juwan Howard, era servito a smuovere le acque. Nel 1997, terminata rapidamente (con un netto 3-0 in favore dei Chicago Bulls) l’unica apparizione ai playoff dal lontano 1988, scattò la rivoluzione.
In realtà, il processo di ‘aggiornamento’ della franchigia era iniziato qualche anno prima. In una città dall’elevato tasso di criminalità e omicidi come Washington, il termine “Bullets” non richiamava più il deposito munizioni di Baltimore. Nel novembre del 1995, l’assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, amico di vecchia data del proprietario Abe Pollin, diede la spinta definitiva: la franchigia avrebbe cambiato nome. Come da prassi, fu indetto un sondaggio tra i tifosi per decidere la nuova denominazione. Da un novero di soluzioni non proprio irrinunciabili (tra cui spiccava Washington Express, in arrivo al binario cinque) emerse Washington Wizards; a partire al 1997, sarebbe stata la nuova identità della squadra. Quello stesso anno vennero inaugurati un nuovo palazzetto, l’MCI Center, e le nuove divise, che ripresero i colori (azzurro, bianco e oro) adottati due anni prima dai Washington Capitals, franchigia NHL di proprietà dello stesso Pollin. La svolta ‘stilistica’ non fu accompagnata da un rilancio sportivo. Le ottime prestazioni di Webber (nominato per la prima volta All-Star nel 1997) non bastarono per tornare ai playoff, così il giocatore venne spedito a Sacramento in cambio di Mitch Richmond e Otis Thorpe. Mentre C-Webb trascinava i Kings verso vette inesplorate, gli Wizards sprofondavano nei bassifondi della Eastern Conference.
Nel gennaio del 2000, la franchigia diede il benvenuto a una figura piuttosto rilevante: Michael Jordan. Ritiratosi ufficialmente un anno prima, ‘His Airness’ non era riuscito ad allontanarsi del tutto dal mondo NBA, per il quale tanto aveva fatto e dal quale tanto aveva ricevuto. L’idea di entrare a far parte di uno staff dirigenziale lo stuzzicava fin dall’inizio della sua ‘pensione dorata’, ma le alternative non erano molte. I rapporti con il front-office dei Chicago Bulls non erano mai stati idilliaci, e il brusco smantellamento della squadra aveva raffreddato ulteriormente la relazione con il general manager, Jerry Krause. Gli Charlotte Hornets, squadra ‘di casa’ per MJ, erano in odore di trasferimento a New Orleans, per cui non se ne fece nulla, per il momento (Jordan acquisterà le prime quote degli allora Charlotte Bobcats nel 2006). Se la reunion con Phil Jackson ai Los Angeles Lakers era stata più una suggestione, che una reale possibilità, l’ipotesi più concreta fu Milwaukee, ma i Bucks non intendevano cedere all’ex-giocatore alcuna quota minoritaria, cosa che invece accettò Pollin. Sebbene tra la star e il proprietario degli Wizards non corresse proprio buon sangue (i due avevano avuto qualche contrasto in occasione del lockout nel 1998/99), accostare il nome di Michael a quello della squadra appariva come un’imperdibile occasione di rilancio. Così, Jordan divenne socio e president of basketball operations della franchigia.
La sua fu una presenza ingombrante fin da subito: innanzitutto, si fece accompagnare da una cerchia di fedelissimi (perlopiù collaboratori del suo storico agente, David Falk), che vennero considerati fin dal loro arrivo come una sorta di ‘clan’, poi cedette gli elementi di spicco del roster, Juwan Howard e Rod Strickland. Mike non si limitava alle operazioni manageriali: spesso si allenava con la squadra, finendo spesso per mettere in imbarazzo i giocatori più giovani. Mentre Washington perdeva una partita dopo l’altra (chiuderà tredicesima a Est nel 2000, quattordicesima l’anno dopo), tra gli appassionati cresceva un dubbio: non è che il miglior giocatore degli Wizards sia quello che siede alla scrivania?
La risposta arrivò il 25 settembre 2001. Dopo aver speso la prima scelta assoluta al draft per selezionare Kwame Brown e dopo aver affidato la panchina a Doug Collins (predecessore di Jackson ai Bulls e pupillo di MJ), Michael Jordan annunciò il suo secondo ritorno in campo. Giustificò la sua decisione con la memorabile espressione “For the love of the game” e comunicò che il suo stipendio (1 milione di dollari annui, ovvero il minimo salariale) sarebbe stato devoluto alle famiglie colpite dagli attentati al World Trade Center e al Pentagono. Nel rispetto del regolamento NBA, cedette le sue quote e lasciò il ruolo dirigenziale, ricevendo da Abe Pollin una garanzia: una volta appese definitivamente le scarpe al chiodo, la poltrona sarebbe stata ancora lì.
Di colpo, gli Wizards divennero una delle principali attrazioni NBA. L’MCI Center fece registrare un tutto esaurito dopo l’altro, le maglie bianco-azzurre numero 23 andarono a ruba e molti fan di vecchia data si riavvicinarono alla lega che avevano abbandonato con il ritiro del loro eroe.
Se sul piano del marketing l’operazione-Jordan fu un trionfo assoluto, a livello prettamente sportivo le cose non migliorarono più di tanto. Il quasi quarantenne MJ mostrò di non aver perso lo smalto di un tempo. Giocò due stagioni a 21.2 punti di media, fu il miglior realizzatore degli Wizards nel 2001/02 e aggiunse alla sua leggendaria collezione di gemme una gara da 51 punti (il 29 dicembre 2001, contro i ‘suoi’ Charlotte Hornets), a cui ne seguì una da 45 (due giorni dopo, contro i New Jersey Nets), e una prestazione da 43 punti fatta registrare il 21 febbraio 2003, quattro giorni dopo il suo quarantesimo compleanno. L’All-Star Game di Atlanta (l’ultimo giocato in carriera) fu organizzato in suo tributo, e la sua ultima partita, al First Union Center di Philadelphia, terminò con una standing ovation e con le lacrime di tifosi e avversari.
Con tutti i riflettori puntati sul numero 23, però, i compagni più giovani faticavano ad emergere. Kwame Brown non riuscì a reggere il peso della prima scelta e la pressione derivata dalla presenza di Jordan, guadagnandosi presto l’indelebile etichetta di ‘bidone colossale’. Richard ‘Rip’ Hamilton, stella nascente della squadra, fu notevolmente limitato dal rientro di MJ e, nel settembre del 2002, fu spedito ai Detroit Pistons nella trade che portò a Washington Jerry Stackhouse. Nel biennio ‘griffato’ Air Jordan, gli Wizards non riuscirono a qualificarsi per i playoff.
Il divorzio tra la superstar e la sua ultima franchigia fu piuttosto traumatico. Una volta smessa la divisa, la poltrona promessa da Abe Pollin non c’era più. Esasperato dagli scarsi risultati della squadra e dall’eccessiva influenza di MJ e del suo entourage in ambito dirigenziale, il proprietario, nello stupore generale, licenziò Michael Jordan. Seppur sorprendente, quella non fu l’unica mossa che, nell’estate del 2003, diede una svolta epocale alla franchigia: coach Collins fu rimpiazzato da un altro Jordan, Eddie (non imparentato con Michael), Ernie Grunfeld fu nominato general manager e, con lo spazio salariale liberato dai recenti scambi, venne messo sotto contratto Gilbert Arenas, da poco eletto Most Improved Player Of The Year. Stavano per iniziare gli Anni Zero.
Dopo un interessante biennio collegiale ad Arizona, culminato con la finalissima NCAA del 2001 (persa contro Duke), Arenas era stato scelto per trentunesimo dai Golden State Warriors nello stesso draft in cui gli Wizards avevano chiamato Kwame Brown. A suo dire, scelse il numero zero “come i minuti in cui dicevano avrei giocato in NBA”. Quella versione degli Warriors era tremenda: nonostante un roster giovane e talentuoso, in cui spiccavano Jason Richardson, Antawn Jamison e Larry Hughes, chiuse la stagione 2001/02 come fanalino di coda della Western Conference. L’anno successivo, Gilbert si impose come ‘secondo violino’ alle spalle di Jamison e mostrò i primi lampi da ‘realizzatore seriale’; passò dai 10.9 punti di media dell’anno da rookie ai 18.3 del 2002/03, guadagnandosi il premio come giocatore più migliorato. A causa delle norme contrattuali dell’epoca, Golden State non poteva permettersi di rinnovargli il contratto, così Arenas divenne free-agent e si accordò con gli Wizards.
A Washington, dove Gilbert si riunì con Larry Hughes e Antawn Jamison, nacque il mito di ‘Agent Zero’. Tra il 2004 e il 2007, Arenas si affermò come una delle stelle più luminose del firmamento NBA. Convocato a tre All-Star Game consecutivi e incluso per tre volte in un All-NBA Team, nel 2005/06 chiuse la regular season a 29.3 punti di media. I suoi anni d’oro furono impreziositi anche da numerosi clutch shots e da una leggendaria performance da 60 punti contro i Lakers di Kobe Bryant, che a sua volta rispose con 45. Per l’occasione, gli Wizards indossavano la dorata alternate jersey, che fece sporadiche apparizioni sui parquet NBA tra il 2006 e il 2009.
Intorno al ‘tascabile’ fenomeno, la dirigenza costruì una buonissima squadra. Nel 2004, Jamison (fresco di nomina a Sixth man Of The Year) arrivò da Dallas in cambio di un Jerry Stackhouse in fase calante. L’anno dopo, il ‘povero’ Kwame Brown fu spedito ai Lakers (passare dalle ‘angherie’ di Jordan a quelle di Bryant non dev’essere proprio un gran modo per rilanciare la propria carriera), in cambio di Caron Butler. Approdato nella NBA dopo una giovinezza tragica, segnata da violenza, droga e carcere (racconterà tutto nella notevole autobiografia Tuff Juice), Butler andò a formare con Arenas e Jamison il più improbabile dei ‘Big Three’, manifesto perfetto di quella generazione ‘dannata’.
Guidati dai tre All-Star, gli Wizards divennero ospiti fissi dei playoff. Nonostante una Eastern Conference non proprio irresistibile, però, non riuscirono mai ad andare oltre il secondo turno del 2005. L’anno dopo furono eliminati al primo round dagli emergenti Cleveland Cavaliers di LeBron James, che buttarono fuori Washington anche nel 2007. Quella stagione fu segnata da parecchi infortuni in casa Wizards. Jamison, Butler e Arenas accusarono problemi alle ginocchia. L’ala da North Carolina se la cavò con dodici gare di stop, ma agli altri due andò decisamente peggio. Una volta rientrato, ‘Tuff Juice’ si fratturò una mano, giocando appena 63 partite in regular season. L’infortunio di ‘Agent Zero’, subito a causa di un contatto fortuito con Gerald Wallace dei Bobcats, ebbe conseguenze nefaste: fu necessaria un’operazione al menisco, perciò la stella fu costretta a chiudere anzitempo la stagione. Forse non fu chiaro fin da subito ma, per quegli Wizards, il treno era ormai passato.
Gli infortuni si rivelarono un problema insormontabile per gli uomini di Eddie Jordan. Gilbert Arenas giocò le prime otto partite della stagione 2007/08, salvo poi tornare sotto i ferri per una nuova operazione al ginocchio; per lui era già iniziata la discesa agli inferi. Il centro Etan Tomas saltò addirittura l’intera annata per un intervento a cuore aperto, mentre Caron Butler perse 24 incontri per una serie di problemi all’anca. Ciò non gli impedì di disputare il secondo All-Star Game consecutivo, in coppia con Antawn Jamison. i due trascinarono nuovamente Washington ai playoff, ma ancora una volta arrivò lo ‘spauracchio’ LeBron James a infrangere le ambizioni di gloria.
In estate, sia Jamison che Arenas firmarono dei sontuosi rinnovi contrattuali: 50 milioni di dollari in quattro stagioni per il primo, addirittura 111 milioni in sei anni per ‘Agent Zero’. Mosse inevitabili, per quanto i due avevano dato alla causa, ma che colpiranno la franchigia come un terribile boomerang. Gilbert, alle prese con nuove operazioni al ginocchio, non mise piede in campo fino al 29 marzo 2009. Gli Wizards, privi per tutta la regular season anche del lungo Brendan Haywood, colarono a picco: 19 vittorie e 63 sconfitte, peggior record dal 2000/01. A metà di quella stagione fallimentare, coach Eddie Jordan venne esonerato. Dopo aver affidato la panchina ad interim all’assistente Ed Tapscott, venne ingaggiato Flip Saunders, ex-timoniere dei Minnesota Timberwolves.
Se il 2008/09 era sembrato terribile, l’annata seguente fu un vero e proprio incubo. Il 24 novembre, Abe Pollin morì all’età di 85 anni, 45 dei quali passati come proprietario degli Wizards. Esattamente un mese dopo, venne alla luce il primo di una serie di episodi che fecero calare definitivamente il sipario sugli ‘Anni Zero’ della franchigia. Si scoprì che Gilbert Arenas aveva introdotto delle armi da fuoco negli spogliatoi dell’ormai Verizon Center. Non solo: una lite con il compagno Javaris Crittenton, incentrata su alcune scommesse clandestine, era sfociata in una sorta di ‘duello western’. Le intenzioni dei due non furono mai del tutto chiarite, così come non fu mai appurato se le armi fossero effettivamente scariche, come dichiarato dai protagonisti. In ogni caso, David Stern non poté soprassedere: i due giocatori furono sospesi a tempo indeterminato. Per Crittenton, la vicenda rappresentò l’ingresso nel tunnel della criminalità; oggi la sua fedina penale ‘vanta’ condanne per aggressione, spaccio, attività di stampo squadristico (ai tempi dei Lakers si era unito a una gang di Los Angeles), tentato omicidio e omicidio volontario, reato per il quale sta tuttora scontando 23 anni di reclusione. A Gilbert Arenas non andò altrettanto male. Se la ‘cavò’ con due anni di libertà vigilata e l’obbligo di frequentare corsi di recupero, ma la sua carriera NBA era comunque al capolinea. Quando rientrò, all’inizio della stagione 2010/11, in campo si vide solo l’ombra del vecchio ‘Agent Zero’, e non solo per il nuovo numero 9 sulla maglia. Dopo sole 24 partite, fu ceduto agli Orlando Magic, in cambio di Rashard Lewis.
Nel frattempo, gli Wizards erano profondamente cambiati. La vicenda-Arenas aveva messo una pietra tombale sulle ambizioni della squadra, che nel febbraio 2010 stravolse completamente il roster. Butler e Haywood furono ceduti ai Dallas Mavericks, mentre Jamison raggiunse LeBron James a Cleveland. La stagione si concluse con il quintultimo peggior record della lega (26-56), ma la draft lottery riservò la più gradita delle sorprese: Washington ottenne la prima scelta assoluta, con la quale selezionò John Wall, esplosiva point guard da Kenntucky. Con la partenza di Arenas, Wall si prese definitivamente il posto in quintetto e il titolo di uomo-franchigia, ridando ai tifosi qualche speranza per un futuro migliore. Quando Ted Leonsis acquisì la maggioranza del club, optò per una definitiva svolta generazionale, che sarebbe partita da un cambio di look. Gli Wizards tornarono ai classici colori bianco-rosso-blu, abbandonando per sempre le maglie-simbolo di quegli ‘anni mutevoli’, tanto esaltanti, quanto sciagurati.