Home NBA, National Basketball AssociationApprofondimenti I quintetti del millennio: San Antonio Spurs

I quintetti del millennio: San Antonio Spurs

di Stefano Belli
San Antonio Spurs

Dopo aver vinto il primo titolo della loro storia nel 1999, nel nuovo millennio gli Spurs si sono imposti come un modello di organizzazione difficilmente eguagliabile, capace di mantenersi ad altissimi livelli per due interi decenni. Merito di Gregg Popovich e Tim Duncan, ma anche di una serie di giocatori, più o meno talentuosi, capaci di adeguarsi perfettamente agli standard richiesti. Ecco il quintetto ideale dei San Antonio Spurs dal 2000 in avanti.

Point guard: Tony Parker

Sebbene sia uno dei migliori prospetti d’Europa, il ragazzo francese non convince appieno gli scout NBA. A puntare su di lui, dopo una serie di provini con esiti altalenanti, sono gli Spurs, che lo selezionano a fine primo giro del draft 2001. Parker comincia la sua esperienza texana come riserva di Antonio Daniels, ma coach Popovich, già nel su anno da rookie, decide di promuoverlo in quintetto.

Superato lo scetticismo iniziale, Tony diventa un punto fermo dei nuovi Spurs, che aiuta a tornare sul tetto del mondo NBA nel 2003. Un titolo vinto al termine di playoffs tutt’altro che entusiasmanti, tanto da far sorgere parecchi dubbi sull’affidabilità di Parker nei momenti decisivi. Dubbi che permangono anche dopo il secondo titolo, conquistato nel 2005, ma che vengono spazzai via nelle stagioni successive, quando il francese emerge tra le migliori point guard della lega. Nel 2006 Tony debutta all’All-Star Game, l’anno dopo è il protagonista principale di un nuovo titolo nero-argento, vinto da MVP delle Finals contro i Cavs di LeBron James. Con l’avanzare dell’età di Tim Duncan, Parker diventa il fulcro del gioco degli Spurs, nonché il leader tecnico nell’ultima fase della dinastia. Determinante nella corsa all’ultimo titolo dell’era Popovich-Duncan, tra il 2009 e il 2014 disputa altri quattro All-Star Game e viene inserito in tre quintetti All-NBA. Il sipario sulla leggendaria dinastia texana cala ufficialmente nel 2018, quando Manu Ginobili si ritira e quando Tony Parker decide di trasferirsi per un’ultima stagione a Charlotte.

Guardia: Manu Ginobili

Pescato come un jolly sul fondo del draft 1999, il fuoriclasse argentino resta un anno a Reggio Calabria e due alla Virtus Bologna, che trascina al Grande Slam nel 2001. Dodici mesi più tardi, Manu sbarca finalmente nella NBA. La stagione d’esordio, in cui Ginobili fa la riserva di Steve Smith, è ulteriormente complicata dagli infortuni, ma ai playoffs l’argentino sale drasticamente di livello, giocando un ruolo importantissimo nella conquista del titolo NBA 2003. Da quel momento, Manu diventa una colonna di quella che ormai sta assumendo le sembianze di una dinastia. Nel 2005 Ginobili esplode definitivamente, facendo il suo esordio all’All-Star Game e vincendo da grande protagonista, secondo alcuni da “MVP occulto”, un altro titolo NBA. Negli anni seguenti, coach Popovich decide di far partire la sua stella dalla panchina, lasciandola comunque in campo nei momenti decisivi, e la scelta paga ampi dividendi. Manu aiuta gli Spurs a vincere un nuovo trofeo nel 2007, e al termine della regular season successiva viene eletto Sesto Uomo dell’Anno e inserito nel terzo quintetto All-NBA. Le sue magie contribuiscono a mantenere San Antonio al top anche all’inizio degli anni Dieci. Nel 2011 Ginobili torna all’All-Star Game e nel terzo quintetto All-NBA, nel 2013 arriva a un soffio dal quarto titolo, sfumato anche a causa di qualche suo errore nei momenti decisivi, e nel 2014 mette una firma indelebile sul trionfo che chiude alla perfezione il cerchio. Dopo aver più volte rimandato il ritiro, Manu si toglie definitivamente la maglia numero 20 il 24 aprile 2018, al termine della serie persa al primo turno playoffs contro Denver.

Ala piccola: Kawhi Leonard

La taciturna ala da San Diego State conquista le attenzioni del front office nero-argento durante i workout in vista del draft 2011. Scelto da Indiana con la quindicesima chiamata da indiana, Leonard viene spedito in Texas in cambio del veterano George Hill. Gli Spurs hanno fatto centro un’altra volta. Kawhi guadagna rapidamente spazio nelle rotazioni di Gregg Popovich grazie alla sua versatilità difensiva, e al secondo anno diventa titolare in pianta stabile.

Quella stagione è un clamoroso crescendo per Leonard, che con il suo instancabile lavoro su entrambi i lati del campo offre un contributo fondamentale nella corsa di San Antonio alle Finals. Una serie in cui Kawhi è spesso il migliore dei suoi, ma che viene decisa anche da un suo errore in lunetta nella cruciale gara-6. L’anno seguente, per Leonard e per gli Spurs arriva il riscatto. San Antonio si prende una sonora rivincita sui Miami Heat. Kawhi domina in attacco e fa la sua sporca figura in difesa, dove spesso ha a che fare con LeBron James. Oltre al titolo NBA, per Leonard arriva il premio di Finals MVP. Quello che per molti sarebbe un punto di arrivo, per il numero 2 si rivela l’inizio di una carriera da superstar. Nelle tre stagioni successive vince due volte il premio di Difensore dell’Anno, partecipa a due All-Star Game e viene inserito due volte nel primo quintetto All-NBA. Nel 2017, Kawhi è un serio candidato al titolo di MVP, e i suoi Spurs si presentano ai playoffs con ambizioni di gloria. Durante la prima partita delle Conference Finals, contro i grandi Warriors di Stephen Curry e Kevin Durant, un Leonard fin lì dominante atterra sul piede di Zaza Pachulia, procurandosi una distorsione alla caviglia che chiude la sua serie e, di fatto, la sua esperienza in Texas. Kawhi si vede in campo solamente in 9 occasioni durante la stagione 2017/18, ed entra in conflitto con dirigenza e compagni in merito ai tempi di recupero. La frattura la le parti diventa insanabile, e a luglio Leonard viene spedito a Toronto. Quello che inizialmente sembra uno sgarbo ai suoi danni si rivela invece un’enorme opportunità per Kawhi, che nel giro di un anno guiderà i Raptors al titolo NBA.

Ala grande: LaMarcus Aldridge

Nell’estate del 2015, gli Spurs superano la concorrenza dei Los Angeles Lakers e ottengono la firma del più importante free agent dell’estate; quasi un unicum nella storia nero-argento. Su Aldridge, che a Portland è diventato uno dei migliori lunghi NBA, e su Leonard, San Antonio vuole costruire una squadra capace di restare ai vertici anche quando i Big Three si saranno ritirati. LaMarcus si inserisce benissimo in un sistema così oliato; chiude la prima stagione nel natìo Texas con l’inclusione nel terzo quintetto All-NBA, e aiuta gli Spurs a raggiungere il secondo turno playoffs. L’anno seguente rappresenta un deciso passo indietro, che porta anche qualche malumore di troppo, ma nelle due stagioni successive, con Leonard prima ai box e poi in Canada, Aldridge prende finalmente le redini della squadra, tornando a macinare punti e rimbalzi come ai tempi dei Blazers. nel 2018 viene inserito nel secondo quintetto All-NBA, l’anno dopo gioca il suo settimo All-Star Game. Un’operazione alla spalla gli impedisce di partecipare alla Bolla di Orlando, e a marzo 2021, quando il ciclo dei grandi Spurs è ormai uno sbiadito ricordo, Aldridge si libera tramite buyout. Firma quindi con i Brooklyn Nets, ma dopo poche partite sarà costretto a ritirarsi per un problema cardiaco.

Centro: Tim Duncan

Il lungo caraibico è diventato una superstar non appena ha messo piede su un parquet NBA, e nel 1999 ha regalato a San Antonio il suo primo titolo. Nel nuovo millennio, però, Duncan si consacra come uno dei più grandi cestisti di sempre. Forse non il più spettacolare, forse non il più adatto a conquistare il pubblico generalista, ma sicuramente una sentenza nei momenti chiave, un ostacolo contro cui si schiantano molte pretendenti al titolo, soprattutto negli anni Duemila.

Dopo aver guidato gli Spurs alle finali di Conference, nel 2001, Tim prende in scacco la NBA, vincendo due premi di MVP consecutivi e riportando il titolo a San Antonio nel 2003, al termine di una serie dominante contro i New Jersey Nets. Sorretti dalle larghe spalle del numero 21, gli Spurs si affermano come la squadra da battere a Ovest, e sollevano il Larry O’Brien Trophy anche nel 2005, dopo una combattutissima serie contro i Pistons di cui Duncan viene eletto MVP, e nel 2007, quando spazzano via i giovani Cavs. Il quarto titolo potrebbe suonare come un preambolo per la fase calante della carriera di Tim, che invece guida San Antonio a un nuovo, imprevedibile ciclo vincente. Nel 2012 è di nuovo finale di Conference, l’anno dopo arriva la sconfitta più bruciante, quella del canestro di Ray Allen e dell’inusuale errore di Duncan da distanza ravvicinata. Nel 2014, ecco la rivincita contro Miami e il quinto anello, vinto non più da protagonista assoluto, ma in ogni caso da leader indiscusso. Quel trionfo è la ciliegina sulla torta di una carriera inimitabile, che si spegne in silenzio dopo altre due stagioni segnate dai problemi fisici. Quando annuncia il ritiro, durante la offseason 2016, Duncan può sfoggiare un curriculum con pochi eguali nella storia della lega: 5 titoli e 6 finali NBA, due MVP, 15 All-Star Game e altrettante apparizioni nei quintetti All-NBA e All-Defensive. Soprattutto, la sua classe, la sua determinazione e la sua umiltà hanno creato a San Antonio una cultura che difficilmente il tempo riuscirà a cancellare.

Sesto uomo: David Robinson

Nel nuovo millennio, l’Ammiraglio è già sul viale del tramonto, ma fa ancora in tempo a togliersi le ultime soddisfazioni. Nel 2001 disputa il suo decimo e ultimo All-Star Game e viene inserito nel terzo quintetto All-NBA. Due anni più tardi offe un solido contributo nella vittoria del secondo titolo nero-argento, chiusura trionfale di una carriera leggendaria. Menzioni d’onore per i role players di lusso che hanno permesso agli Spurs di mantenersi ai vertici per un intero ventennio: dallo specialista difensivo Bruce Bowen a due co-protagonisti del titolo 2014: Patty Mills e Boris Diaw.

Allenatore: Gregg Popovich

Il coach più vincente nella storia NBA è diventato un sinonimo della franchigia stessa. Insieme a Tim Duncan ha dato vita a una dinastia in grado di alzare l’asticella dell’eccellenza a livelli difficilmente raggiungibili. Per farlo ha cambiato più volte faccia ai suoi Spurs, adattandoli anche suo malgrado all’evoluzione del gioco e spostando il baricentro tecnico prima da Robinson a Duncan, poi da Duncan a Parker, quindi da Parker a Leonard. Attorno alle star della squadra, Popovich, che degli Spurs è anche il presidente, ha di volta in volta radunato giocatori tosti e affidabili, capaci di comprendere e rispettare appieno il loro ruolo per arrivare al fine ultimo, ovvero la vittoria. I cinque titoli NBA, i tre premi di Allenatore dell’Anno e lo spettacolo del “Beautiful Game” messo in scena nel 2014 raccontano solo in parte la grandezza di un personaggio che ha lasciato un solco indelebile nella storia dello sport.

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