Parlare di un giocatore come Brandon Roy non è affatto cosa facile. Su tanti volti noti si è spesso detto, e scritto, tutto. Ora la vostra domanda potrebbe essere: “Perché questa inutile premessa?”. Saggia domanda, e saggia molto. In realtà volevo solamente avvisarvi che quella che leggerete non è una storia ” convenzionale”. Tutto ciò che scriverò sarà frutto di un mix tra fantasia e realtà con quel verosimile che rende tutto speciale. Letterariamente questa forma di scrittura prende il nome di favola. Ecco, racconterò una favola e come ogni favola che si rispetti inizia con una forma specifica: C’era una volta…
C’era una volta… Brandon Roy
La nostra storia inizia in una località dal colore smeraldo: Seattle. La città è un luogo che di talento se ne intende. Qui tra gli altri hanno trovato i natali: Jimi Hendrix, Bill Gates, Bruce Lee e Kurt Cobain. Nella “Emerald City” non puoi muovere un passo senza imbatterti in arte, musica e sport. E’ proprio a Seattle che Tony e Gina Roy decidono di metter su famiglia. Tony è un autista di bus, sua moglie Gina lavora al bar di una scuola elementare e hanno dato da poco alla luce Ed. Nel 1984 nasce il secondogenito della famiglia Roy: Brandon. Bran cresce a pane e pallacanestro sin dalla gioventù. Ama andare al campetto sotto casa per sfidare suo fratello maggiore, Ed scarso non sarebbe visto che sarà inserito tra i cento migliori talenti della nazione. Bran però dopo ogni layup afferma : ” too easy man”.
Hey, look that guy…
Il ragazzo gioca con disinvoltura tra i ragazzi più grandi, dopotutto ha una tecnica che gli altri possono solo sognare. Ad accorgersi delle qualità del ragazzino c’è un uomo che Brandon non ringrazierà mai abbastanza: Lou Hobson. Lou è uomo di personalità e recluta Roy per la sua squadra che milita nella AAU (Amateur Athletic Union). Per Brandon la pallacanestro è un gioco . L’ impatto con una realtà che richiede allenamento e sacrifici non è il massimo. Bran spesso è distratto e pensa più al divertimento con gli amici che alle gare, Hobson è su tutte le furie: il ragazzo può ma non si applica. Dopo l’ennesima partita persa il coach esplode: ” Tu non sai i sacrifici che i tuoi genitori fanno per te”. Scatta qualcosa. Il ragazzo, come la crisalide che diventa farfalla, subisce una metamorfosi.
Ora domina e nella realtà locale tutti esclamano: Hey, look that guy…
Let’s go to school
Chiudete gli occhi e immaginate la scena. Un ragazzino, zaino in spalla, si avvia svogliatamente verso l’ingresso di una classica scuola americana. L’espressione che immaginiamo è di uno di quelli che sanno che la scuola non sarà il suo destino. O forse no, continuiamo. Il ragazzo saluta il papà e distrattamente legge l’ insegna della Garfield High School, ci siamo inizia l’avventura. Quella scuola l’ha scelta per un unico motivo: i Bulldogs. La squadra di basket con cui vuole assolutamente giocare. Roy vuole rendere orgogliosi Tony e Gina, gioca con il massimo impegno e anche qui domina la scena. Gioca a livelli talmente alti ( 22,3 ppg 10,5 rpg) che vinse l ‘MVP della KingCo Conference e qualche college si accorge di lui…
Si fa dura Brandon Roy…
Brandon sa di essere talentuoso e lo sanno anche le decine di scout che l’hanno contattato. Casa Roy diventa più affollato del centro smistamento di Seattle. Le scuole inviano lettere su lettere finché qualcuno non ingolosisce il giovane Bran: ” Perché non provare il salto diretto in NBA?” Brandon ci pensa su per giorni ma alla fine prende una decisione: avrebbe frequentato il college. L’ istruzione è importante in casa Roy almeno come lo sport. Però c’è un problema: Brandond, come il fratello non ha solo il talento sportivo ma anche un fastidioso deficit di apprendimento. La “learning disability” aveva impedito a Ed di sbocciare e rischiava di fare lo stesso con Brandon, colpa del SAT. IL SAT è il test d’ammissione al college, test che il ragazzo di Seattle fallisce ben 4 volte. Alla quinta volta i sogni si sarebbero infranti.
Ovviamente, come se i problemi non fossero abbastanza, la famiglia non naviga nell’oro e Brandon deve trovarsi un lavoro. Trova impiego al porto di Seattle dove pulisce container vuoti per pochi dollari l’ora. Torna a casa distrutto la sera e impiega le sue ultime forze per studiare: non può fallire quell’esame.
Dicembre 2002, il 12 per la precisione: Non c’è spazio per la paura. In quell’aula, su quel banco, in quel momento Brandon sta affrontando il suo avversario più difficile per l’ ultima volta, comunque vada. Gennaio 2003, il 13: Ora invece la paura è tanta. I risultati stanno arrivando. Si precipita al college e attende. I secondi diventano minuti, i minuti ore ma ancora niente. All’improvviso una voce forte rompe il gelo nella mente di Roy: è Lorenzo Romar neo allenatore degli Huskies. Il coach, senza troppi giri di parole, gli comunica l’ esito. Urlo di gioia e qualche lacrima: è un Huskies.
Primi anni da Huskies
L’ università di Washington prima non era affatto famosa per il basket. Ora però la musica sembra decisamente cambiata. Romar ha messo su una squadra di buon livello con Roy nel ruolo di shooting-guard e Nate Robinson in cabina di regia. I due giocatori rappresentavano anche i volti contrapposti della squadra. Spettacolare e appariscente Nate, silenzioso e decisivo Brandon. Le chiavi della squadra le avrebbe Bran ma quello che ruba la scena è sempre Nate. Il primo anno vola via e non è dei più semplici. Il ragazzo gioca poco ma trova comunque il modo di realizzare 6.1 ppg e 3 rpg di media. Il secondo anno è quello della consacrazione: Roy stupisce tutti raddoppiando i numeri della precedente stagione e chiudendo come miglior rimbalzista della squadra. Gli Huskies grazie all’apporto del suo fenomeno raggiungono persino la Sweet 16 dopo però, ahimè, vengono eliminati.
Tranquilli, la nostra favola è partita da un po, quella di Brandon Roy deve ancora iniziare.
Brandon Roy: Junior year..
Nel terzo anno la dea bendata si dimentica di avere Roy tra le sue grazie, non che se ne fosse mai ricordata. Bran sa che questo può essere l’anno decisivo e nella sua mente studia il piano geniale. Giocherà una grande stagione, poi si dichiarerà eleggibile al Draft e mostrerà il suo talento al mondo intero. Tutto perfetto, tutto curato nei minimi dettagli. Brandon inizia forte giocando come sa fare: tutto sembra riuscirgli in maniera semplice con una eleganza fuori dal comune. Lui non è un cestista comune: è un artista. Le sue mani messe su un pittore avrebbero tranquillamente potuto dipingere una nuova Gioconda. Il talento è di quelli davvero cristallini. Le ginocchia pure.
Durante una partita sente un fastidio proprio lì ma lo ignora. Il fastidio diventa presto dolore e questo si fa subito insopportabile.
I medici non lasciano spazio all’immaginazione: strappo al menisco, dannazione. Passa la restante parte della stagione tra parquet ed infermeria cercando di recuperare.
Rientrando a fine stagione penserebbe anche di candidarsi al Draft del 2005 ma poi Romar lo fa riflettere. Brandon è una stella e nelle condizioni attuali sarebbe finito al secondo giro o peggio: undrafted. Inoltre i suoi compagni Robinson e Webster si sono già resi eleggibili. “Pazienza, questo draft lo guarderò da casa, ma il prossimo, beh il prossimo è mio”. Queste devono essere state grossomodo le parole di Brandon che decise di giocare a Washington anche il suo anno da senior..
L’ultimo tango di Brandon Roy
Brandon Roy oramai ha deciso. Questo sarà il suo anno e non ci sarà dolore in grado di fermarlo. Durante l’estate lavora fino allo stremo, workout pesantissimi con particolare cura per quel ginocchio. Si presenta all’opening night NCAA tirato a lucido. Il fisico c’è, la testa pure, il talento non è mai mancato. Boom. 35 contro Arizona con una facilità estrema. Quella contro i Wildcats non sarà un episodio sporadico ma il trend di tutta la stagione.
Numeri da fenomeno, 20.2 ppg 5.6 rpg 4,1 apg, ma i numeri si sa non sono tutto. Roy da leader solitario spinge la sua Washington alla Sweet Sixteen ancora una volta. Gli Huskies vengono nuovamente eliminati ma lui fa incetta di premi. “All-American First Team”, “Pac- 10 Player of the Year”,”All-Pac-10 First Team” portano tutti il nome Roy sopra. Ci siamo, ora tutti in America conoscono Brandon, la NBA pare una formalità. Si rende eleggibile per il Draft del 2006. Ora c’è solo da attendere, lavorare ed attendere.
28 giugno 2006, New York City, Madison Square Garden. L’ aria che si respira al Madison è quella delle grandi occasioni. Nell’aria si sente quel profumo di ansia misto a sogni di gloria. Il nostro eroe si siede su uno dei tanti luoghi predisposti e, testa alta, attende il suo momento. Vede arrivare David Stern e capisce che il momento è vicino. Il commissioner inizia la sacra formula: ” With the first pick in NBA Draft, the Toronto Raptors select: Andrea Bargnani from Benetton Treviso Italy”. WHAAAAAT? .L’incredulità cala sul volto di tutti, Bargnani e Roy compresi. “Pazienza, sarà la prossima”. La seconda è Aldridge. L’ attesa si sta facendo snervante quando finalmente Stern pronuncia il suo nome: Minnesota, l’ha scelto Minnesota con la numero 6.
Tonight is the night: Brandon Roy
Mentre sale sul palco e stringe la mano a Stern nota un particolare. Mc Hale(Minnesota) e Pritchard (Portland) si sono avvicinati sospettosamente.I due GM hanno in mente qualcosa, ma cosa? Intanto che i due bisbigliano, il Draft va avanti. La settima scelta è di Portland stessa che sceglie Randy Foye. Dopo la scelta i due GM si allontanano soddisfatti e sorridenti. Printchard si avvicina a Brandon Roy e gli comunica quanto stabilito di comune accordo con McHale: sarà un giocatore dei Trail Blazers