Home NBA, National Basketball AssociationApprofondimenti Perché i Dallas Mavericks hanno davvero preso Kyrie Irving?

Perché i Dallas Mavericks hanno davvero preso Kyrie Irving?

di Michele Gibin
Perché i Dallas Mavericks hanno davvero preso Kyrie Irving?

Perché i Dallas Mavericks hanno davvero preso Kyrie Irving via trade?

La risposta facile è nel resumé, nel curriculum cestistico (prettamente cestistico) di un giocatore come Irving, campione NBA nel 2016, tre volte finalista NBA, 8 volte All-Star, 3 volte All-NBA e uno dei pochi giocatori della storia in grado di entrare nel club dei “50-40-90” in una stagione, quella 2020-21 a Brooklyn che è forse la sua migliore in carriera.

C’è anche, restando al solo campo da basket, la sua innegabile capacità tecnica di adattarsi al contesto e alle altre star con cui condivide il parquet e il pallone. Lo ha fatto con successo con LeBron James e Kevin Love per 3 anni prima di stancarsi, lo ha fatto anche a Boston, coi Celtics delle due stelle nascenti Jayson Tatum e Jaylen Brown (lo dimostra il rapporto che dura tutt’oggi tra di loro). E lo ha fatto ai Nets accanto all’amico Kevin Durant, per quel poco che è durata accanto a James Harden e come dimostrato dalle 18 vittorie in 20 partite tra dicembre e gennaio, anche accanto a quel che resta di Ben Simmons.

Non c’è dubbio che in campo Irving possa trovare rapidamente il modo di giocare attorno e accanto a un’altra star come Luka Doncic.

Kyrie è già definibile il compagno di squadra più forte che Doncic abbia mai avuto ai Mavs. Dirk Nowitzki era a fine carriera, Kristaps Porzingis non ha funzionato e per il resto Luka è sempre stato circondato da giocatori di ruolo più o meno quotati, anche nella squadra che nel 2022 ha raggiunto le finali di conference.

Per Irving i Mavs hanno speso Spencer Dinwiddie, Dorian Finney-Smith, una prima scelta al draft NBA 2029 e due seconde scelte (2027 e 2029). Tanto, per un giocatore in scadenza di contratto e che si porta dietro un bagaglio pesantissimo.

Kyrie Irving è stato l’artefice principale del flop clamoroso dei Brooklyn Nets. In quasi 4 anni, Irving ha giocato sole 143 partite su 298 totali, e oltre la metà delle assenze dovuta a motivi esterni o disciplinari. Nel 2020, nei giorni in cui Brooklyn trattava (anche per tutelarsi) per James Harden, Kyrie sparì per 3 settimane senza spiegazioni, infrangendo pure i protocolli Covid allora in vigore per i giocatori (e sottoscritti anche dal sindacato NBPA, va sempre ricordato). A ottobre 2021 fu messo fuori squadra perché non vaccinato contro il Covid e impossibilitato dalle restrizioni sanitarie adottate dalla città e dallo stato di New York a giocare le partite casalinghe (e in Canada a Toronto), sarebbe rientrato solo a gennaio giocando 29 partite, forzando in parte James Harden a chiedere una trade verso i Sixers, e per poi affondare assieme alla squadra in 4 gare ai playoffs contro Boston.

A novembre 2022 Irving fu sospeso per 8 partite per aver promosso sui suoi canali social un inqualificabile libro e annesso docufilm dai contenuti antisemiti, pseudo-storici e discriminatori, e soprattutto per non essersi scusato se non dopo essere stato messo alle strette dalla squadra e dalle pressioni della comunità ebraica locale di New York.

La richiesta di trade di due settimane fa ha avuto il sapore della beffa per i Nets. Che nonostante tutto sarebbero stati disposti a trattare con Irving un rinnovo di contratto con le adeguate tutele.

Kyrie ha detto di no, ha chiesto il suo contratto quadriennale da 198 milioni di dollari per il quale è tutt’ora eleggibile, sostenendo “di aver fatto la sua parte”, e dopo aver preso atto dell’indisponibilità di Brooklyn ha scelto con molta responsabilità di abbandonare di nuovo la sua nave (Irving era sempre quello che dopo lo 0-4 rimediato contro Boston, si vedeva parte di un curioso quadrumvirato alla guida dei Nets con Durant, Sean Marks e Joe Tsai), con la squadra quarta a Est e che attendeva dopo l’All-Star game il rientro di Kevin Durant.

Questo è il personaggio, che va oltre il giocatore, che i Dallas Mavericks si sono presi in casa. E allora perché?

Luka Doncic ha appena firmato la sua maxi-estensione da 215 milioni di dollari in 5 anni, e fatto scattare ufficialmente a Dallas il countdown per mettergli attorno una squadra da titolo. L’idea di affidarsi a Kyrie Irving come pietra su cui poggiare una contender, dopo quanto successo a Brooklyn, fa quasi sorridere e possiamo escludere che il front office dei Mavs, che pure conta sui buoni uffici dell’ex uomo Nike e ora Gm Nico Harrison e sul rapporto di Irving con coach Jason Kidd, lo possa pensare.

La realtà è che, se osserviamo la struttura salariale dei Mavericks, l’arrivo di Kyrie Irving sia da vedere come un modo per alleggerire il monte stipendi.

Il rischio di perdere a zero da free agent tra 5 mesi Kyrie Irving è in questo senso molto minore di quello di rimetterlo sotto contratto per tutti quei soldi e tutti quegli anni. E non è una notizia che Kyrie avrebbe gradito finire subito a Los Angeles e ai Lakers (anche i Clippers erano interessati), e che Tsai e Marks non abbiano voluto accontentarlo, almeno quello. Una trade che a chi scrive ha ricordato molto lo scambio che nel febbraio 2003 spedì Gary Payton ai Milwaukee Bucks, e con the Glove che a fine stagione salutò senza rimpianti il Wisconsin e firmò con i Lakers, manco a dirlo.

Con i contratti di Irving, di Christian Wood e di Dwight Powell in scadenza, e cercando acquirenti per i contratti di giocatori come Davis Bertans, Tim Hardaway Jr, JaVale McGee o Maxi Kleber, i Mavericks potrebbero creare fino a 30-40 milioni di dollari di spazio e flessibilità salariale già per la free agency 2023, e recuperare almeno la prima scelta futura al draft ceduta ai Nets per Irving. I 10.4 milioni di dollari sull’ultimo anno di contratto di Reggie Bullock non sono inoltre garantiti.

Se questo fosse davvero il viatico scelto dai Mavs, che prima della stagione hanno ristrutturato profondamente anche il front office, la potremmo definire la strategia del “fare un passo indietro per farne tre avanti”.

Che cosa avrebbero d’altro canto da perdere a Dallas? Doncic è appena al primo anno del suo mega-contratto, ed è ben consapevole dei limiti attuali del roster, un gruppo che neppure il miglior Kyrie Irving di sempre (quindi non questo) potrebbe elevare al livello delle migliori a Ovest specie dopo l’arrivo di Kevin Durant ai Suns. Senza Luka i Mavs hanno vinto appena 2 partite su 9 e arrivano alla pausa per l’All-Star Game con un record di 31-29 e la 24esima peggior difesa NBA (lo scorso anno furono settimi). E francamente, senza alcuna chance concreta di passare il primo turno dei playoffs giudicando oggi.

I Dallas Mavericks non sono mai stati una meta prediletta per i grandi free agent, neppure nell’era Dirk Nowitzki né in quella successiva (ricordate il voltafaccia dell’allora quotatissimo DeAndre Jordan nel 2015?). Ora però i Mavs hanno Doncic a fare da richiamo, e un general manager conosciuto dai giocatori per i suoi trascorsi in Nike.

La free agency 2023 mancherà del grandissimo nome, ma non di giocatori adatti a costruire una squadra davvero di spessore attorno a Luka: Khris Middleton, Draymond Green, Fred VanVleet, Jerami Grant, Bogdan Bogdanovic, Gary Trent Jr, Brook Lopez, Dillon Brooks, Josh Hart e persino James Harden saranno free agent o potrebbero uscire dal proprio contratto. I Toronto Raptors torneranno a accogliere offerte per OG Anunoby e forse anche per Pascal Siakam, lo stesso faranno – vista la malaparata – anche i Chicago Bulls per Zach LaVine. Tra i free agent insospettabili ma di valore ci saranno giocatori come Grant Williams, Max Strus e Austin Reaves.

Il roster attuale dei Dallas Mavericks, con o senza Kyrie Irving, non è sufficiente per valorizzare appieno un candidato perenne al premio di MVP come Doncic, non ha margini di crescita. E concedere il massimo salariale al solo Irving occuperebbe ottima parte del potenziale spazio salariale sopra citato, senza contare la completa inaffidabilità dell’ex giocatore dei Nets.

L’arrivo di Irving ai Dallas Mavericks, per quanto una notizia, non sposta granché gli equilibri a Ovest né fa fare (da solo) un passo avanti alla squadra di Mark Cuban. Ma potrebbe comunque portare dei benefici per vie traverse.

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