Paul Pierce, una delle icone dei Boston Celtics degli ultimi anni, un giocatore leggendario per la franchigia di Boston, un vincente, un leader ed un vero celtico per come ha indossato quella canotta, quei colori, facendoli diventare parte del suo essere, facendoli diventare la sua seconda pelle.
Nella sfida tra Cleveland Cavaliers e Boston Celtics la maglia numero 34, la maglia di Paul Pierce è diventata ufficialmente leggenda: non ci sarà mai più a Boston un numero 34.
Paul Piece, the The Truth
A differenza di quasi tutte le altre maglie, quella dei Boston Celtics non è mai cambiata nel corso degli anni (eccezion fatta per la scritta “BOSTON” che ha preso il posto di quella “CELTICS” sia ai tempi di Bill Russell che, più di recente, nell’era di Isaiah Thomas). Questo perché, con il susseguirsi delle epoche storiche del basket americano, ci sono stati alcuni giocatori che hanno cementato questa leggendaria divisa nell’immaginario collettivo, rendendola di fatto un’icona. Come Russell nei Favolosi Anni ’60 e Larry Bird due decenni più tardi, Paul Pierce è stato il simbolo della più gloriosa franchigia NBA negli ultimi vent’anni; sia nel bene che, soprattutto, nel male.
E dire che l’avventura di Paul nel mondo della palla a spicchi era iniziata proprio a casa dei ‘nemici’ di sempre dei Celtics. Nato e cresciuto ad Oakland, si trasferì ad Inglewood, sobborgo di Los Angeles famoso per ospitare The Forum, storica casa dei Lakers. Le gesta di Magic Johnson e Kareem Abdul-Jabbar fecero innamorare il giovane Pierce dei colori gialloviola; non poteva ancora immaginare cosa avesse in serbo per lui il futuro…
Dopo un impatto non semplicissimo (i primi anni venne tagliato), Pierce divenne il leader della squadra di basket della Inglewood High School e conquistò le attenzioni di numerosi talent scout, che ne caldeggiarono la partecipazione al McDonald’s All-American Game nel 1995. Quella prestigiosa vetrina fu la rampa di lancio per la carriera cestistica di Paul, che fu reclutato da coach Roy Williams (campione NCAA 2017 con North Carolina) a University Of Kansas. Nei tre anni passati al college divenne uno dei migliori prospetti d’America, e fece persino in tempo a prendersi una bella laurea in criminologia. Si dichiarò eleggibile per il draft NBA 1998, e Boston lo selezionò con la decima chiamata. Visto che il draft gioca spesso brutti scherzi, prima di lui furono scelte non solo future stelle come Vince Carter e Dirk Nowitzki, ma anche vere e proprie ‘meteore’ come il compagno a Kansas Raef LaFrentz e Larry Hughes (citare la prima scelta assoluta dei Clippers, Michael Olowokandi, sarebbe fin troppo facile).
I Celtics che accolsero Paul Pierce erano ben diversi dagli squadroni citati in precedenza. Il tramonto dell’era-Bird era stato segnato da due tragedie che, tra le altre cose, avevano contribuito a rallentare notevolmente il processo di ricostruzione. Nel 1986, all’apice del successo della squadra, Boston aveva i diritti sulla seconda scelta assoluta al draft, con cui selezionò Len Bias, promettente ala da Maryland. Solo 48 ore dopo, però, Bias morì di overdose. La stessa, amara sorte toccò, per motivi diversi, a Reggie Lewis, chiamato dai Celtics l’anno successivo. A differenza di Bias, Lewis riuscì non solo a giocare nella NBA, ma anche ad arrivare all’All Star Game (nel 1992, l’anno della memorabile performance del rientrante Magic Johnson). La sua carriera era appena decollata quando, il 27 luglio 1993, fu stroncato da un arresto cardiaco durante un allenamento estivo.
Gli Anni ’90 furono per Boston un susseguirsi di delusioni, culminate con la mancata assegnazione (nonostante il secondo peggior record NBA) della prima chiamata assoluta al draft del 1997. Quell’anno, il miglior prospetto universitario si chiamava Tim Duncan, ed era destinato a cambiare per sempre la storia dei San Antonio Spurs. Per cercare di dare una scossa alla triste situazione, venne ingaggiato come head coach Rick Pitino, campione NCAA 1996 con Kentucky, ma l’esperimento si rivelerà presto fallimentare.
Nel frattempo, il giovane Paul Pierce andò a formare una coppia di belle speranze con Antoine Walker, ex-allievo di Pitino a Kentucky, già convocato ad un All Star Game al secondo anno da professionista. Guidati dai due giovani, i Celtics migliorarono anno dopo anno. I playoff rimanevano comunque un miraggio e Pitino, dopo l’ennesima sconfitta, si lasciò andare ad un memorabile sfogo, riassumibile così: “Ragazzi, Bird, McHale e Parish non usciranno più da quella porta. E se anche lo facessero, sarebbero ormai dei vecchietti. Questa è una squadra ancora giovane e inesperta, dovete portare pazienza!”.
Paul Pierce ed il suo soprannome: da dove nasce?
Nel settembre del 2000, ‘P-Square’ fu coinvolto in una rissa in un locale di Boston. La situazione degenerò, qualcuno estrasse un coltello e inferse alla giovane stella dei Celtics ben undici colpi tra volto, collo e schiena. Fu salvato dal compagno di squadra Tony Battie, che riuscì a portarlo via e trascinarlo in ospedale. Operato d’urgenza, non solo tornò a casa dopo tre giorni, ma si presentò puntualmente alla partita inaugurale della stagione 2000/01. Concluse quella regular season a oltre 25 punti di media (miglior realizzatore di squadra) e fu l’unico Celtic a disputare tutte le 82 gare in programma. Dopo un’incredibile performance da 42 punti contro i suoi amati Lakers (che comunque vinsero la gara), Shaquille O’Neal prese da parte un giornalista e dichiarò: “Take this down. My name is Shaquille O’Neal and Paul Pierce is the motherfucking truth. Quote me on that and don’t take nothing out. I knew he could play, but I didn’t know he could play like this. Paul Pierce is The Truth.”. Da quel momento, Paul fu per tutti ‘The Truth’.
Paul Pierce e la nascita dei big 3
Malgrado le ottime prestazioni di Pierce e Walker, i Celtics non erano ancora materiale da playoff. Il brutto inizio di stagione convinse Rick Pitino a dimettersi e tornare a predicare pallacanestro al college (nel 2013 tornerà campione NCAA alla guida di Louisville). Sotto la guida del nuovo allenatore Jim O’Brien, la squadra fu protagonista di un inatteso exploit. Nel 2002, Pierce fu chiamato al suo primo All Star Game (insieme a Walker) e i Celtics chiusero con il terzo miglior record ad Est, ripresentandosi ai playoff dopo sette anni di assenza. Quell’improbabile cavalcata proseguì nella post-season, dove i biancoverdi lasciarono per strada i Philadelphia 76ers di Allen Iverson e i Detroit Pistons, agli albori della loro nuova ‘golden age’. Furono fermati in finale di Conference dai New Jersey Nets di Jason Kidd, poi umiliati dai Lakers alle NBA Finals (bisogna riconoscere che il livello, ad Est, era ai minimi storici).
Negli anni successivi, una serie di turbolenze societarie portò un nuovo general manager – l’ex compagno di Bird Danny Ainge – e un nuovo allenatore: Glen ‘Doc’ Rivers. L’inizio del nuovo corso fu segnato da un’opera di ringiovanimento del roster (fu lasciato sempre più spazio a giovani come Tony Allen e Kendrick Perkins) e dal conseguente ritorno ai bassifondi della Conference. Mentre Boston faticava enormemente, ‘The Truth’ si affermava come una delle migliori ali in circolazione. Il 2005/06 fu la miglior stagione individuale della sua carriera, chiusa a quasi 27 punti di media e impreziosita da un memorabile duello con LeBron James, astro nascente dei Cleveland Cavaliers; la gara del 15 febbraio 2006 vide il ‘Prescelto’ chiudere con una tripla-doppia da 43 punti, 12 rimbalzi e 11 assist; dall’altra parte, ‘P-Square’ ne infilò 50, con 7 rimbalzi e 8 assist. Naturalmente, i Celtics persero.
L’unica notizia positiva per Boston in quello sciagurato 2006 fu il draft, che portò nel Massachusetts il playmaker Rajon Rondo, scelto con la ventunesima chiamata. La sua stagione da rookie non fu un granché, ma l’ex Kentucky diverrà ben presto il ‘motore’ di una delle più grandi squadre di sempre. Per il resto, quello fu l’anno dell’ennesima esclusione dai playoff, della morte del leggendario Red Auerbach (l’allenatore della ‘Dynasty’ era legato alla franchigia fin dagli albori) e dell’infortunio che mise fuori causa Pierce per gran parte della stagione 2006/07, chiusa dai Celtics con il peggior record della Eastern Conference. Con Kevin Durant e, soprattutto, Greg Oden (all’epoca visto come la vera promessa di quel draft) in arrivo dal college, perdere molto non era affatto una cattiva idea. Peccato che la proverbiale fortuna degli irlandesi non assistette Ainge e soci alla lottery: quinta scelta, addio Oden e addio KD. La scelta, tramutatasi poi in Jeff Green, venne comunque utilizzata come pedina fondamentale per una clamorosa operazione di mercato: Green, Wally Szczerbiak e Delonte West passarono ai Seattle SuperSonics, mentre a Boston sbarcarono ‘Big Baby’ Glen Davis e, dulcis in fundo, il miglior tiratore di ogni epoca: ‘Candyman’ Ray Allen. Un mese più tardi, Ainge piazzò un altro colpaccio, destinato a sconvolgere gli equilibri della lega: con una colossale trade che coinvolse giocatori, scelte future e somme di denaro, riuscì a portare in biancoverde ‘The Big Ticket’, Kevin Garnett. Era iniziata l’era dei ‘Big Three’.
Pierce, Allen e Garnett avevano due cose in comune: erano stati per anni le star incontrastate di squadre mediocri (Boston, Seattle e Minnesota) e avevano una gran voglia di vincere. La prima volta che i tre fenomeni scesero in campo insieme fu a Roma, dove Boston inaugurò la preseason contro i Toronto Raptors di Andrea Bargnani. Tornati negli USA, i Celtics erano pronti per scrivere la storia.
Dopo i botti di mercato estivi, coach Rivers poteva contare su un’autentica corazzata. Oltre ai ‘Big Three’ c’erano un Rajon Rondo in continua crescita, promosso titolare, e una panchina di ottimo livello, rinforzata dagli arrivi di James Posey, Eddie House e P.J. Brown. A stagione in corso si unì al gruppo anche Sam Cassell, già compagno sia di Allen a Milwaukee, che di Garnett in maglia Timberwolves. Il vero punto di forza di quei Celtics era però la difesa, organizzata dal neo-assistente Tom Thibodeau, autentico cultore della materia. Sul parquet, il leader difensivo era Kevin Garnett. La sua dedizione rese la difesa di Boston la migliore della lega, e valse a KG il premio di Defensive Player Of The Year.
La stagione 2007/08 fu la migliore, per la franchigia, dai tempi di Larry Bird. Si chiuse con 66 vittorie, ben 42 in più rispetto all’anno precedente, e con il primato ad Est. Pierce, Allen Garnett e coach Rivers rappresentarono la Eastern Conference all’All Star Game, mai come allora così tinto di biancoverde.
Se la regular season fu letteralmente dominata, il percorso ai playoff fu decisamente più difficoltoso. Occorsero infatti sette partite per eliminare sia Atlanta al primo turno, che Cleveland al secondo. Anche le finali di Conference contro gli immarcescibili Detroit Pistons furono tiratissime, ma dopo sei incontri arrivò l’ufficialità: Boston era tornata alle NBA Finals dopo ventun anni di assenza.
Come nel 1987, gli avversari furono i Los Angeles Lakers, passione giovanile di Pierce, guidati dall’MVP stagionale Kobe Bryant. ‘The Truth’ e il ‘Black Mamba’ scrissero un nuovo, meraviglioso capitolo dell’infinita saga Celtics vs. Lakers, dandosi battaglia a suon di prestazioni straordinarie. Pierce iniziò le Finals spaventando tutti con una brutta caduta che lo costrinse a tornare negli spogliatoi su una sedia a rotelle e che fece temere un grave infortunio. Pochi minuti dopo, però ‘P-Squared’ rientrò – nel tripudio generale – e fu decisivo per la vittoria. Boston chiuse la serie in gara-6 (vinta di 39 punti grazie ad uno stratosferico Rondo, in odore di quadrupla-doppia) e alzò davanti al pubblico del Garden il diciassettesimo Larry O’Brien Trophy della sua storia. KG lasciò ai posteri il celebre urlo “Anything is possibleeeee!” mentre Paul Pierce, dopo un decennio di battaglie e delusioni, fu eletto MVP delle finali.
Il trionfo rese i Celtics la squadra da battere. Sulla strada del back-to-back, però, arrivò il pesantissimo scoglio dell’infortunio di Kevin Garnett, costretto a saltare la parte finale della regular season e gli interi playoff. Senza ‘The Revolution’, la squadra di Doc Rivers superò i Chicago Bulls nella più bella serie di sempre, finita dopo sette partite impreziosite da ben sette overtime complessivi, ma si arresero ai sorprendenti Orlando Magic di Dwight Howard al secondo turno. L’occasione per il riscatto arrivò nella stagione successiva, quella in cui Rondo debuttò all’All Star Game e Pierce vinse il Three Point Shootout. Di nuovo al completo, i Celtics viaggiarono con il ‘pilota automatico’ fino ai playoff. Pur partendo con la quarta testa di serie, eliminarono Miami, Orlando e i favoritissimi Cleveland Cavaliers, guadagnandosi l’opportunità di un attesissimo rematch contro Kobe e i Lakers. Nell’ennesimo scontro tra le due franchigie più vincenti di sempre, i Lakers furono messi con le spalle al muro. Boston si presentò allo Staples center in vantaggio 3-2, con la ghiotta opportunità di festeggiare il titolo NBA a casa degli acerrimi rivali. Un bruttissimo infortunio a Kendrick Perkins e la super panchina gialloviola, però, spostarono l’equilibrio della partita, forzando una gara-7 da consegnare ai posteri. L’ultimo, epico incontro fu quello della difesa estenuante su Kobe, ma anche quello della tripla di Ron Artest e dell’iconica esultanza del Mamba dopo la sirena finale: 4-3, Lakers campioni NBA per la sedicesima volta.
Finals 2010: la parabola di Paul Pierce
Le Finals del 2010 furono per entrambe le squadre il vertice della parabola. L’età avanzata delle superstar e l’affermazione di nuove potenze su entrambe le Conference (vedi Thunder e Heat) avviò le due grandi rivali all’inevitabile declino. Gli ultimi anni con l’inseparabile maglia biancoverde (che dal 2005 sfoggiava un trifoglio sul retro, unica variazione allo storico tema) consentirono a ‘The Captain And The Truth’ di superare Larry Bird come secondo marcatore all-time della franchigia (dietro al solo John Havlicek), ma i Celtics non tornarono più a competere per il titolo. Nel 2011 persero al secondo turno, l’anno dopo in finale di Conference. In entrambi i casi, i loro ‘giustizieri’ furono i Miami Heat, nuova squadra di LeBron James. Memorabile la prestazione con cui ‘King James’ chiuse la gara-6 del 2012: 45 punti, 15 rimbalzi e 5 assist. Era evidente che, da quel momento, non ce ne sarebbe stato più per nessuno. A pochi secondi dal termine della decisiva gara-7, Rivers richiamò in panchina i ‘Big Three’, per concedere loro la meritata standing ovation del pubblico avversario. Era finita un’epoca.
Il processo di smantellamento di quella corazzata iniziò con l’addio di Ray Allen, che decise di firmare proprio con gli Heat (scelta accolta piuttosto male e tuttora criticata da Pierce e Garnett, che di recente hanno ripreso l’argomento in una reunion televisiva). Un brutto infortunio a Rondo e l’eliminazione al primo turno contro gli unici New York Knicks ‘presentabili’ dell’era moderna convinsero Danny Ainge a far saltare definitivamente il banco. Il giorno del draft 2013, alla sua porta bussarono Mikhail Prokhorov e gli altri dirigenti dei Brooklyn Nets, trasferitisi da poco nella ‘Big Apple’. Le due parti conclusero un accordo che all’epoca risultò impopolare per i fan dei C’s, ma che inciderà enormemente sul futuro delle due franchigie. A ‘Beantown’ arrivarono parecchi giocatori da tagliare e, soprattutto, le prime scelte dei Nets dal 2014 al 2018, mentre a Brooklyn furono accolti – tra mille clamori – Jason Terry, Kevin Garnett e Paul Pierce. Dopo quindici anni di battaglie, tra delusioni e trionfi, lo storico capitano salutò i suoi Celtics.
La seconda vita cestistica di Paul Pierce iniziò con una conferenza stampa in cui dichiarò di aver scelto Brooklyn “per vincere l’anello”(è un vero peccato che la Gialappa’s Band non segua la NBA). Quei Nets potevano contare sicuramente su nomi prestigiosi (Deron Williams, Joe Johnson e Brook Lopez, oltre ai due ex-Celtics), ma quasi tutti al tramonto della loro carriera. Tutti questi proclami portarono, come massimo risultato, l’eliminazione al secondo turno per mano degli Heat, che li spazzarono via in cinque partite.
Scaduto il contratto, Pierce non ci pensò due volte a lasciare Brooklyn, ormai in balia delle onde. Firmò con gli Washington Wizards, con cui trovò un’inattesa ‘seconda giovinezza’. Al secondo turno dei playoff 2015 tornò sulle prime pagine grazie al buzzer beater con cui sconfisse gli Atlanta Hawks in gara-3. Nella sesta partita della serie, con Washington sotto di tre punti, segnò un’incredibile tripla, ma stavolta la sirena era già suonata: Atlanta vinse 4-2.
A quasi 38 anni, Paul Pierce decise di chiudere la carriera nella sua Los Angeles. Approdò ai Clippers, guidati nientemeno che da Doc Rivers, timoniere dei grandi Celtics. Nei suoi ultimi due anni di carriera non vide moltissimo il campo, ma riuscì comunque a diventare il quindicesimo miglior marcatore della storia NBA. Alla vigilia della stagione 2016/17, annunciò che quello sarebbe stato il suo ultimo anno da professionista. Il 5 febbraio 2017, Pierce giocò la sua ultima partita al TD Garden, l’arena che aveva infiammato per quindici anni. Doc Rivers gli concesse la partenza in quintetto, poi lo rimise in campo negli ultimi secondi. Pierce, acclamato a gran voce dalla folla per tutta la sera, segnò una tripla che fece esplodere per l’ultima volta il Garden. Prima della gara, il capitano di mille battaglie aveva reso omaggio al logo di quella che, nonostante l’adolescenza gialloviola, era diventata la SUA franchigia.
E’ vero, la NBA ha visto (e vedrà) passare giocatori migliori di Paul Pierce, capaci magari di vincere ben più di quell’unico anello conquistato dai suoi Celtics. Per oltre un decennio, però, ‘P-Square’ ha consacrato la maglia numero 34 (che presto verrà issata al soffitto del Garden tra quelle immortali), indossandola nei periodi più bui come in quelli più gloriosi e dando nuovo vigore al tanto celebrato ‘Celtic Pride’. E anche questa “is the motherfucking truth”.
Signori e signore, mister Paul Pierce: