NBA 2017/18 – Season review

di Stefano Belli
nba awards 2019

Un’altra stagione NBA è ormai agli archivi, con i suoi record, i suoi protagonisti inattesi, le sue conferme e le sue sorprese. Il momento in cui tutto è finito, dopo la consegna degli awards ufficiali (qui trovate in nostri), diventa una buona occasione per fare un bilancio su ciò che abbiamo visto. Alla vigilia di questo 2017/18 avevamo elencato dieci motivi per seguirne con interesse ogni singola fase. A quasi nove mesi di distanza, andiamo a riprendere quei dieci spunti d’interesse, per vedere se le nostre aspettative sono state soddisfatte o deluse. E’ giunta l’ora della nostra tradizionale season review!

 

1 – L’alba di una dinastia

I Golden State Warriors, campioni NBA 2017/18

I Golden State Warriors, campioni NBA 2017/18

“Vogliamo diventare come i Chicago Bulls degli Anni ‘90”. Già alla vigilia di questo 2017/18, le parole di Klay Thompson non suonavano poi così folli. Gli indiscussi favoriti per il titolo NBA erano proprio i suoi Golden State Warriors, che poi erano anche i favoriti dell’anno prima, e che quasi certamente saranno i favoriti anche per la prossima stagione. Tutto ciò si può tradurre solo con una parola: dinastia. Se anche la franchigia venisse cancellata improvvisamente, non ci sarebbero dubbi sul fatto che Golden State abbia segnato indelebilmente questo decennio. In quattro stagioni sono arrivati tre titoli e una finale persa in gara-7, per giunta dopo aver fatto registrare il miglior record della storia della regular season (73 vinte e 9 perse; un risultato leggendario, anche senza l’ennesimo anello). L’impeccabile costruzione della squadra, avvenuta tramite scelte lungimiranti, qualche colpo di fortuna, favorevoli situazioni contrattuali e, fattore più importante, l’intelligenza e la disponibilità delle persone coinvolte, fa sì che la dinastia Warriors possa continuare anche negli anni a venire.

Ciò premesso, la più recente cavalcata verso il Larry O’Brien Trophy non è stata certo la più semplice. Coach Steve Kerr ha dovuto dar fondo a tutte le sue doti da psicologo e motivatore, per mantenere accettabile il livello di concentrazione dei suoi per tutta la stagione. Per i campioni in carica è stato un 2017/18 piuttosto travagliato. Prima i continui falli tecnici e le espulsioni dei big (dal ‘solito’ Draymond Green al più insospettabile Kevin Durant), poi le ‘batterie scariche’ con cui la squadra è arrivata all’All-Star Weekend, quindi i numerosi – seppur non gravi – infortuni, che hanno coinvolto gran parte del roster, tra cui Stephen Curry, vittima di un preoccupante guaio al ginocchio a poche settimane dai playoff. Il miglior momento è arrivato tra gennaio e febbraio, quando Curry e Durant si sono inseriti di prepotenza nella corsa all’MVP a suon di prestazioni eccellenti, ma il secondo posto finale e le 24 sconfitte sono chiari segnali che questa non sia stata la stagione più brillante, nella Bay Area.
I playoff, alla fine, hanno cancellato ogni incertezza. Vittoria facile contro dei crepuscolari San Antonio Spurs, altra simil-passeggiata contro i pur volenterosi New Orleans Pelicans. Gli unici problemi sono arrivati nell’attesissima finale di Conference contro gli Houston Rockets, padroni assoluti della regular season. La serie, chiusa in gara-7 senza Andre Iguodala, ma anche senza Chris Paul per i texani, ha messo in luce tutti i difetti di Golden State, in gran parte riconducibili a un eccesso di sicurezza e alla mancanza della dedizione difensiva ammirata nelle stagioni precedenti. Anche la second unit, una delle migliori armi di Kerr in passato, è stata meno incisiva del solito. L’effettiva rinuncia a schierare un centro ‘di ruolo’ ha accorciato notevolmente le rotazioni, relegando i vari Zaza Pachulia, JaVale McGee e Kevon Looney a lunghi periodi in panchina. Una volta arrivati alle Finals e strappata gara-1 grazie agli incredibili errori di Cleveland, non c’è stata più storia. KD, Steph e compagni hanno spiegato in chiari termini la differenza tra una grande squadra e la squadra di un grande giocatore. 4-0, terzo titolo (sesto per la franchigia) in bacheca e un forte messaggio alle altre pretendenti: la dinastia è appena cominciata.

 

2 – L’ultimo ballo dei Cavs

Per LeBron James e coach Tyronn Lue, il 2017/18 potrebbe essere stato l'ultimo anno insieme

Per LeBron James e coach Tyronn Lue, il 2017/18 potrebbe essere stato l’ultimo anno insieme

A Cleveland, la stagione 2017/18 è stata accompagnata dalla costante sensazione che un ciclo stesse per finire. Non poteva essere altrimenti, visto l’avvicinarsi della player option di LeBron James, ma anche la costruzione del roster era stata un chiaro segnale da “ora o mai più”. Partito Kyrie Irving, era arrivata in Ohio una serie di giocatori dal passato glorioso, ma dal futuro incerto. Ecco dunque Dwyane Wade e Derrick Rose, grandi campioni dei tempi che furono, reduci da un anno di ‘esilio’ (a Chicago il primo, a New York il secondo) dopo l’amara separazione dalle loro storiche franchigie (Heat e Bulls). Ecco Isaiah Thomas, candidato MVP con la maglia dei Boston Celtics ma fresco di operazione all’anca. Ed ecco Jae Crowder, che di quei Celtics era un elemento fondamentale e che, tra i nuovi innesti, era l’unico a non avere un contratto in scadenza.

Il percorso dei Cavs, da ottobre a giugno, è stato un giro sulle montagne russe (che peraltro in Russia chiamano “montagne americane”, a detta degli autoctoni); un avvio di regular season zoppicante, con coach Tyronn Lue alla disperata ricerca di un assetto definitivo (che non troverà mai), poi un grande momento di forma tra novembre e dicembre (18 vittorie su 19 partite), quindi il debutto di Thomas, ‘ X-Factor’ designato della stagione dei Cavs. Il rientro in campo del ‘folletto’ da Tacoma è stato il momento spartiacque del 2017/18 di Cleveland. Il suo temperamento ‘ribelle’ è stata la miccia che ha fatto esplodere uno spogliatoio stracolmo di ‘super-ego’; il periodo tra gennaio e febbraio è stato uno dei più imbarazzanti, a memoria d’uomo, per una singola franchigia: sconfitte umilianti a profusione, arrivate soprattutto a causa della totale assenza di comunicazione, collaborazione e applicazione sui due lati del campo. In poche parole, un disastro. Con l’avvicinarsi del termine ultimo per le trade, era chiaro a tutti che quella squadra non sarebbe arrivata da nessuna parte. Ecco dunque la rivoluzione dell’8 febbraio, con Thomas, Wade, Rose e Crowder, ma anche Iman Shumpert e Channing Frye, fare le valigie ed essere sostituiti da George Hill, Jordan Clarkson, Rodney Hood e Larry Nance Jr..
Trovare un amalgama accettabile, da lì ai playoff, era pressoché impossibile, e infatti ciò non è avvenuto. In tutto l’arco della stagione, nessun membro del roster, né prima, né dopo la deadline, ha saputo dare un aiuto costante al monumentale LeBron, alla sua migliore annata in carriera. I playoff sono stati raggiunti con il quarto piazzamento nella Conference (grazie anche a un buonissimo sprint finale), ma i Cavs sono sembrati tutt’altro che pronti. In ogni caso sono arrivate le quarte Finals consecutive, raggiunte soprattutto grazie a uno strabiliante LeBron e ai limiti dei loro avversari (l’inesperienza di Indiana, l’inadeguatezza di Toronto e i molteplici infortuni di Boston). La serie contro Golden State, però, ha messo a nudo l’esagerato divario tra le due franchigie. Mentre la dinastia Warriors prosegue, l’ultima ‘golden age’ dei Cavs sembra avviarsi alla conclusione. Con un LBJ praticamente sicuro dell’addio, un gruppo di buoni, ma non ottimi giocatori (Kevin Love verrebbe scambiato, in caso di partenza del Re) e l’aggiunta di Collin Sexton, ottava scelta assoluta al draft, in Ohio è tutto pronto per una malinconica ricostruzione.

 

3 – I nuovi Celtics

Il quintetto dei Celtics 2017/18. Da sinistra, Al Horford, Jayson Tatum, Marcus Smart, Jaylen Brown e Kyrie Irving

Il quintetto dei Celtics 2017/18. Da sinistra, Al Horford, Jayson Tatum, Marcus Smart, Jaylen Brown e Kyrie Irving

La novità più attesa del 2017/18 era certamente la nuova versione dei Boston Celtics. Reduci da un’annata sorprendente, conclusa alle finali di Conference nonostante un roster povero di grandi nomi, i biancoverdi avevano rivoluzionato la squadra per tentare il definitivo salto di qualità. Prima la pesca di Jayson Tatum al draft (frutto di una serie di azzeccatissimi scambi, prima con Brooklyn, poi con Philadelphia), quindi l’ingaggio del free-agent Gordon Hayward e la ‘blockbuster trade’ con i Cavs, che ha portato nel New England Kyrie Irving; ecco dunque i Celtics approcciare la nuova stagione con enormi aspettative.

Dopo soli cinque minuti dall’inizio della regular season, però, i piani della dirigenza hanno dovuto fare i conti con un grosso imprevisto: il terribile infortunio di Hayward, uscito in barella con una gamba distrutta, tra lo shock generale. Con l’ex stella degli Utah Jazz fuori causa per tutta la stagione, Brad Stevens è dovuto ricorrere al ‘piano B’, ovvero aumentare esponenzialmente il minutaggio e le responsabilità del rookie Tatum e di Jaylen Brown, terza scelta assoluta al draft 2016. I due giovani hanno risposto alla grande, affermandosi da subito come punti di riferimento della squadra sia in attacco, che in difesa. L’altra attesissima star, Kyrie Irving, ha invece giocato, e lo ha fatto anche splendidamente. Oltre al consueto apporto in termini realizzativi, ha anche migliorato sensibilmente la fase difensiva, piuttosto altalenante (grosso eufemismo) nei suoi anni a Cleveland. A metà marzo, però, ecco un’altra mazzata: infezione al ginocchio, operazione necessaria e stagione finita anche per ‘Uncle Drew’.
Nonostante le continue avversità (oltre alle due star si sono fermati, per periodi di breve/media durata, anche Jaylen Brown, Marcus Smart, Marcus Morris e Daniel Theis), i Celtics hanno disputato un ottimo 2017/18; terzo piazzamento a Est e secondo viaggio consecutivo alle Conference Finals. Un traguardo raggiunto grazie ai due giovani talenti, ma anche alla grande solidità e determinazione del gruppo. Ecco dunque ‘Scary’ Terry Rozier (che in estate sarà soggetto a qualifying offer) salire in cattedra con prestazioni da urlo ai playoff, Al Horford fare la voce grossa contro LeBron James, Morris, Smart e Aron Baynes collezionare giocate decisive nei momenti più delicati. La sconfitta subita in gara-7 contro Cleveland assomiglia più a un punto di partenza, che di arrivo. Con il rientro di Irving e Hayward, la crescita di Tatum e Brown e gli ampi margini di manovra sul mercato (tra giovani, spazio salariale e i diritti accumulati su varie prime scelte future), il domani sembra tutto dalla parte di Boston.

 

4 – Arrivano i super-team

Thunder e Rockets, due 'super-team' costruiti per battere Golden State

Thunder e Rockets, due ‘super-team’ costruiti per battere Golden State

Per cercare di contrastare l’egemonia dei Golden State Warriors, la scorsa estate sono stai assemblati diversi ‘super-team’, ovvero squadroni ottenuti unendo grandi nomi alle proprie star di riferimento. I Cleveland Cavaliers possono essere un valido esempio, anche se tra le stelle in questione (Rose, Wade, Thomas) solo Isaiah aveva disputato l’ultimo All-Star Game. Anche Boston potrebbe rientrare nel discorso, ma Irving e Hayward, entrambi nuovi acquisti, hanno giocato insieme solo 5 minuti… Parlando di ‘super-team’, alla vigilia di questo 2017/18, il riferimento era soprattutto a Oklahoma City Thunder e Houston Rockets. I primi hanno puntato sulla coppia Paul GeorgeCarmelo Anthony per aiutare l’MVP in carica Russell Westbrook, i secondi avevano aggiunto Chris Paul al loro uomo-franchigia, James Harden. Entrambi i progetti erano stati accolti da un non indifferente scetticismo, per via della dubbia compatibilità tattica dei giocatori in questione. A conti fatti, però, i due esperimenti hanno dato esiti contrapposti.

I Thunder hanno dato l’impressione, per tutto l’arco della regular season, di essere vicini all’innesto della miccia. A furia di aspettare la giusta alchimia, però, sono arrivati i playoff, e la quadratura del cerchio non è mai arrivata. I sorprendenti Utah Jazz hanno approfittato delle incertezza degli uomini di Billy Donovan, eliminandoli al primo turno dopo sei partite. L’innesto di Anthony era sembrato azzeccato, in un primo momento. L’ex leader dei New York Knicks stava pian piano assumendo le sembianze di uno ‘specialista di lusso’ in grado di muoversi senza palla e finalizzare le azioni create dai compagni. Con il passare della stagione, però, la sensazione è andata sfumando; durante la serie contro Utah, ‘Melo’ sembrava già un pesce fuor d’acqua. PG13 ha disputato un’eccellente fase centrale della stagione, riconquistando l’All-Star Game (seppur da ‘rimpiazzo’ dei vari infortunati) con una serie di grandi performance ‘a tutto campo’, ma il suo rendimento generale è stato ben lontano da quello ottenuto con la maglia degli Indiana Pacers. Lo stesso Westbrook ha iniziato la stagione nelle vesti di ‘facilitatore’, rinunciando a qualche possesso per favorire l’inserimento dei prestigiosi compagni. Quando i risultati hanno cominciato a ondeggiare, però, il numero 0 è tornato in modalità ‘solo contro tutti’. Riecco allora il mostro del 2016/17 scagliarsi con ferocia contro i ferri avversari e chiudere in tripla-doppia di media per il secondo anno di fila (un record inimmaginabile). Nonostante la presenza di tre attaccanti d’elite e di un miglioratissimo Steven Adams, i maggiori problemi di OKC sono stati proprio in fase offensiva. La difesa ha retto meglio del previsto, ma il grave infortunio di Andre Roberson si è rivelato un durissimo colpo per il prosieguo della stagione.

I Rockets, d’altro canto, sono stati la migliore squadra della regular season. Harden e Paul si sono trovati alla perfezione fin da subito. Il primo ha giocato da MVP, chiudendo oltretutto da top scorer NBA (30.4 punti di media), CP3 ha portato la leadership e la vocazione difensiva che tanto erano mancate a coach Mike D’Antoni l’anno precedente. Avere un doppio rifornimento di ‘cioccolatini’, perlopiù distribuito su tutti i 48 minuti, ha fatto la fortuna dei tanti tiratori presenti a roster, ma anche degli uomini d’area. Tra questi, Clint Capela si è reso protagonista di una stagione fantastica, che gli è valsa una candidatura al premio di Most Improved Player Of the Year.
La regular season 2017/18 è stata la più vincente nella storia della franchigia, e il 65-12 finale (meglio dei Rockets di Hakeem Olajuwon, due volte campioni NBA) è stato il miglior record della lega nell’ultima stagione.
Una volta iniziati i playoff, però, le certezze della squadra hanno iniziato a scricchiolare. Superato agevolmente l’ostacolo Minnesota e più a fatica quello rappresentato da Utah, tutti i limiti del gruppo sono emersi nelle finali di Conference. La truppa-D’Antoni si è potata in vantaggio 3-2 nella serie, ma si è dovuta poi arrendere alla rimonta degli Warriors, non in grandissimo spolvero in quel momento. L’infortunio di Paul ha certamente pesato, ma la sconfitta è maturata anche per via della scarsa ‘flessibilità’ del gioco dei texani, letteralmente in stato confusionale quando il tiro da tre punti, componente fondamentale della loro pallacanestro, ha iniziato a non trovare il fondo della retina (memorabili i 27 errori consecutivi di gara-7).

Per i due ‘super-team’ quella appena iniziata sarà una off-season cruciale. OKC avrà a che fare con la possibile partenza di George e con la probabile conferma di Anthony (che ha da poco deciso di esercitare l’opzione per un ultimo anno molto ben remunerato), mentre Houston sognerà LeBron James e cercherà le migliori soluzioni per i rinnovi di Paul (free agent) e Capela. Quasi certamente, il centro riceverà laute offerte da altri team, che i Rockets dovranno giocoforza pareggiare, per poterlo trattenere in Texas. Un bivio importante per entrambe le franchigie: da una parte il sogno delle Finals e dell’anello, dall’altra l’incubo di trovarsi su un binario morto.

 

5 – Il regno dei lupi

I Timberwolves di Teague, Butler, Towns e Wiggins erano attesi alla stagione della svolta

I Timberwolves di Teague, Butler, Towns e Wiggins erano attesi alla stagione della svolta

“Questo è l’anno di Minnesota” è una frase che si sente ripetere ormai da diverse stagioni. Anno dopo anno, quel ‘mantra’ si è trasformato in una filastrocca di scherno, per una squadra incapace di interrompere la lunghissima astinenza playoff (l’ultima apparizione nel 2004) nonostante avesse accumulato giovani di grande talento e prospettiva. Nell’estate del 2017, però, i Timberwolves avevano giocato un ruolo da protagonisti. Prima la trade con Chicago che ha portato nel freddo Nord Jimmy Butler, poi gli innesti di veterani di qualità come Taj Gibson, Jeff Teague e Jamal Crawford. Le attese della vigilia, dunque, erano tutte per gli uomini di Tom Thibodeau.

Effettivamente, la maledizione playoff è stata infranta, ma il 2017/18 dei T’Wolves non può certo essere definito un successo. L’ottavo biglietto per la post-season è stato conquistato all’overtime dell’ottantaduesima partita, e gli Houston Rockets hanno ‘sbranato’ senza problemi i giovani lupi al primo turno.
Jimmy Butler e Taj Gibson sono stati gli unici a non deludere. Hanno ripagato Thibodeau, già loro allenatore ai tempi di Chicago, con un’intensità e una dedizione che sono invece mancate a tutti gli altri, in primis alle due giovani ‘star in the making’, Karl-Anthony Towns e Andrew Wiggins. Se per entrambi si possono – a stento – trovare attenuanti di natura tattica (l’arrivo di Butler ha tolto loro possessi e responsabilità offensive), l’aspetto peggiore della loro stagione è stato l’evidente incompatibilità caratteriale con il loro head coach, esasperato più che mai dai loro atteggiamenti troppo passivi. Le qualità tecniche dei due ragazzi sono sotto gli occhi di tutti, ma per vincere serve anche dell’altro. Riusciranno Wiggins e Towns a trovare queste risorse? Se la risposta fosse negativa, potremmo assistere ad un clamoroso spreco di talento.
Anche quella di Minnesota sarà un’estate ricca di decisioni impegnative. Allo stato attuale, impensierire le corazzate della Western Conference sembra ancora un’illusione. Oltretutto, l’allenatore e i giocatori di punta viaggiano su lunghezze d’onda estremamente diverse. Che sia necessaria una rivoluzione? L’anno prossimo potrebbe essere l’ultima occasione…

 

6 – The Process: part 2

Joel Embiid e Ben Simmons, nuove stelle dei Sixers

Joel Embiid e Ben Simmons, nuove stelle dei Sixers

I ‘Timberwolves dell’Est’, in quanto ad aspettative, erano i Philadelphia 76ers. Dopo lo spudorato tanking perpetrato a partire dal 2012, anno dell’addio di Andre Iguodala, la franchigia si preparava per la seconda fase del famigerato ‘Process’. Tutte le pedine erano finalmente al loro posto: Joel Embiid pronto al definitivo rientro, dopo aver disputato solo 31 partite nella stagione precedente; Ben Simmons e Markelle Fultz, prime scelte assolute dei draft 2016 e 2017, arrivati finalmente al momento del debutto.

Se per Minnesota il 2017/18 è stato una mezza delusione, per Phila le cose sono andate estremamente meglio. Simmons si è effettivamente rivelato quel fenomeno di cui si era tanto parlato, Embiid ha mostrato di essere già oggi una delle stelle più luminose del firmamento NBA (conquistando anche il primo All-Star Game in carriera, per giunta da titolare), Dario Saric è ulteriormente cresciuto e i veterani (Robert Covington, T.J. McConnell e i nuovi arrivati, J.J. Redick e Amir Johnson) hanno confermato la loro grande affidabilità. Le operazioni di febbraio, poi, hanno completato l’opera: Marco Belinelli ed Ersan Ilyasova sono stati innesti perfetti per il sistema di Brett Brown, ampliando notevolmente le opzioni offensive del loro allenatore. L’unica nota stonata del 2017/18 dei Sixers è stato l’inserimento di Fultz. Il gioiello da Washngton University, unanimemente riconosciuto come il miglior prospetto dello scorso draft, ha fatto quattro, mediocri apparizioni in avvio di regular season, poi si è fermato per cinque mesi per un misterioso problema alla spalla (causato anche dal tentativo di modificare la meccanica di tiro, a quanto pare). Rientrato a fine marzo, ha mostrato segnali di miglioramento molto incoraggianti ma, con l’arrivo dei playoff, coach Brown lo ha progressivamente escluso dalle rotazioni. Quasi certamente per preservarlo, ma per capire che tipo di giocatore può realmente diventare Fultz, dovremo attendere la prossima stagione. Sarà un (enorme) valore aggiunto al promettente nucleo, o verrà usato come pedina di scambio?

In ogni caso, Phila è tornata ai playoff, e lo ha fatto da assoluta protagonista. Terzo posto nella Eastern Conference (davanti ai Cavs) grazie a 57 vittorie, 10 in più di quelle ottenute – in totale – tra il 2013 e il 2016. Le intuizioni e le volate al ferro di Simmons, il dominio di Embiid nel pitturato e le mitragliate dei tiratori sono stati solo la punta dell’iceberg; la solida base è stata la grande coesione del gruppo, disponibile – nessuno escluso –  a farsi guidare in tutto e per tutto dall’allenatore. Nella serie al primo turno contro Miami, la squadra ha mostrato un’insospettabile maturità, reagendo alla grande nei momenti difficili. L’inesperienza del gruppo e dei suoi leader è però emersa durante le semifinali di Conference contro i Celtics, vittoriosi in cinque partite.
Quella appena terminata è stata comunque una stagione eccezionale per i Sixers, che ora si preparano allo step successivo, quello che porta a competere per le NBA Finals. Per ottenerlo, e anche per lasciarsi alle spalle la brutta vicenda che ha portato alla separazione con il general manager, Bryan Col angelo, servirà un’estate da protagonisti. D’altronde, sognare in grande è finalmente possibile.

 

7 – (Verso) Il ritorno dello Showtime

Le giovani speranze dei Lakers. Da sinistra, Lonzo Ball, Kyle Kuzma e Brandon Ingram

Le giovani speranze dei Lakers. Da sinistra, Lonzo Ball, Kyle Kuzma e Brandon Ingram

Anche per il 2017/18, in casa Los Angeles Lakers, i playoff sono rimasti un miraggio. La truppa di Luke Walton ha chiuso la regular season con l’undicesimo piazzamento ad Ovest, posizione intorno alla quale ha viaggiato con costanza, da ottobre ad aprile. A differenza delle scorse stagioni, però, quest’ultima non può essere considerata un fallimento. L’ennesimo ‘anno zero’ gialloviola ha finalmente gettato le basi per il futuro.

Tutte le attese della vigilia erano per Lonzo Ball, playmaker da UCLA scelto con la seconda chiamata all’ultimo draft e accompagnato da un ‘circo mediatico’ senza precedenti. In effetti, hanno fatto più rumore le ‘sparate’ del folle padre, che le prestazioni in campo del ragazzo. Ball ha mostrato ottime potenzialità, ma le poche performance da ricordare si sono mimetizzate nel mezzo di tanta incostanza. Nessuna bocciatura, ma una stagione da rookie non certo esaltante, specialmente in confronto agli eccellenti debutti di ‘colleghi’ meno pubblicizzati. Tra questi troviamo Kyle Kuzma, vera rivelazione del 2017/18 dei Lakers. L’ala da Utah, giunta in California nella trade che ha portato D’Angelo Russell a Brooklyn, aveva fatto intravedere ottime cose in Summer League, vincendo anche il premio di MVP della finale. Una volta iniziata la stagione regolare non solo si è confermato pronto per il salto tra i professionisti, ma è andato ben oltre le migliori aspettative; 16.1 punti (miglior realizzatore di squadra, a pari merito con Brandon Ingram e Julius Randle) e 6.3 rimbalzi di media, Rookie del Mese per la Western Conference a novembre e inclusione nel primo quintetto All-Rookie. La sua esplosione sembrava la premessa per la partenza di Randle, poi la dirigenza ha deciso di percorrere altre strade. Quando a Cleveland è andata in scena la clamorosa ‘rivoluzione’, i Lakers sono stati i primi ad approfittarne. Magic Johnson e soci hanno spedito in Ohio Jordan Clarkson e Larry Nance Jr. (evidentemente fuori dai progetti futuri). In cambio si sono ‘accollati’ i contratti in scadenza di Isaiah Thomas (che peraltro ha offerto un buon contributo alla causa, prima di infortunarsi) e Channing Frye, hanno ottenuto la venticinquesima scelta al draft 2018 (trasformata in Moritz Wagner, centro di Michigan) e, soprattutto, hanno liberato lo spazio salariale necessario per tentare un paio di grossi colpi nelle prossime settimane.

Ecco, proprio per questo motivo, la valutazione sulla ricostruzione gialloviola deve per forza rimanere in sospeso. Gli eventuali arrivi di superstar di grande livello come LeBron James, Paul George o Kawhi Leonard (ormai in rottura definitiva con San Antonio) comporterebbero quasi certamente la rinuncia a uno (o più) dei giovani talenti su cui si era dichiarato di puntare per il futuro. Magari lo stesso Kuzma, oppure Brandon Ingram (in netta crescita nel 2017/18, dopo una mediocre stagione da rookie), con ogni probabilità Julius Randle, che riceverà una qualifying offer in estate. Sebbene Randle sia stato protagonista di un buonissimo finale di stagione, difficilmente i Lakers, soprattutto in caso di innesti importanti, soddisferanno le sue richieste economiche (ben più alte degli attuali 5,5 milioni). Se invece James e colleghi dovessero optare per altre destinazioni, a Los Angeles rimarrebbe comunque una squadra futuribile, con lecite ambizioni da playoff. Per centrarli si dovrà però passare dalla conferma di Kuzma (ma anche di Josh Hart, reduce da un buonissimo debutto) e da un deciso salto di qualità di Ball e Ingram. Questi ultimi sono la cartina di tornasole dei Lakers attuali; dovessero rivelarsi delle ‘eterne promesse’, la stessa sorte toccherebbe alla squadra e all’intero progetto.

 

8 – 2017: un’ottima annata

Ben Simmons, Donovan Mitchell e Jayson Tatum, i tre migliori rookie di questo 2017-18

Ben Simmons, Donovan Mitchell e Jayson Tatum, i tre migliori rookie di questo 2017-18

In una qualsiasi delle scorse stagioni, probabilmente Kyle Kuzma avrebbe avuto buone chance di portarsi a casa il premio di Rookie Of The Year. In questo 2017/18, invece, non è nemmeno tra i finalisti. Questo perché l’ultima è stata un’annata eccellente per le matricole NBA, forse la migliore dai tempi di LeBron James, Carmelo Anthony e Dwyane Wade. Kuzma e Josh Hart (scelti con la ventisettesima e trentesima chiamata) sono state le ‘gemme nascoste’ del draft 2017. Selezionati ancora più in basso, i ‘Big Three’ da Oregon hanno trovato subito spazio tra i professionisti. Jordan Bell (scelta numero 38) è stato un importante elemento da rotazione per i Golden State Warriors campioni NBA, Tyler Dorsey (41) si è ritagliato un piccolo ruolo nei disastrati Atlanta Hawks, Dillon Brooks (45) è stata una delle poche note liete della stagione dei Memphis Grizzlies. Per quanto riguarda i giocatori chiamati al primo giro, John Collins (19) si è rivelato uno dei possibili cardini per la ricostruzione degli Hawks, Jarrett Allen (22) ha mostrato sprazzi di grande talento in quel di Brookyln e O.G. Anunoby (23) è diventato addirittura un titolare inamovibile di una squadra di alto livello come i Toronto Raptors.

Passando ai prospetti più attesi, è stata una stagione da rookie eccezionale quella di Lauri Markkanen (Chicago Bulls) e Dennis Smith Jr. (Dallas Mavericks), entrambi destinati a rilanciare le loro decadute franchigie. Molto potenziale, ma giudizio da rimandare al prossimo futuro per De’Aaron Fox (Sacramento Kings), Lonzo Ball (Los Angeles Lakers) e Markelle Fultz, prima scelta assoluta dei Philadelphia 76ers. Josh Jackson, ala dei Phoenix Suns, è cresciuto esponenzialmente dopo un avvio di stagione difficile, mentre Jonathan Isaac, lungo degli Orlando Magic, non ha quasi messo piede in campo per via di un infortunio. Il 2017/18 ha visto anche l’esordio di due affermate stelle europee. Bogdan Bogdanovic ha ben impressionato a Sacramento, mentre Milos Teodosic, il più atipico dei rookie, è rimasto invischiato nella tormentata stagione dei Los Angeles Clippers.

Ciò che renderà indimenticabile l’ultima annata NBA, però, è il debutto di tre giocatori che sembrano destinati a grandi, grandissimi traguardi. Ben Simmons non si può certo definire una sorpresa, visto che era stato chiamato prima di tutti al draft 2016. Nessuno, però, poteva immaginare che il fenomeno australiano potesse diventare fin da subito il leader tecnico ed emotivo di una squadra da playoff come i Philadelphia 76ers. Dopo un’intera stagione passata ai box per infortunio, Simmons ha messo in scena un personalissimo show fatto di prepotenti accelerazioni, decisi attacchi al ferro e una visione di gioco ‘lebroniana’, con cui ha messo in ritmo i compagni dalla prima all’ultima partita. Il tutto con un’apparente tranquillità che raramente si era vista in un esordiente. Quando (e non “se”) svilupperà un tiro accettabile dalla media / lunga distanza, suo principale limite tecnico, per gli avversari i tempi si faranno davvero bui.

A proposito di maturità, in quanti si aspettavano un Jayson Tatum così? Certo, nel suo unico anno a Duke aveva messo in mostra grandi doti realizzative, ma poco altro. Quello ammirato con la maglia dei Boston Celtics, invece, è un giocatore a tutto tondo, capace di fare sempre la scelta giusta sul campo e di diventare il punto di riferimento offensivo di una possibile contender. L’infortunio di Gordon Hayward sembrava aver tarpato le ali alla squadra di Brad Stevens, ma l’esplosione di Tatum e la crescita di Jaylen Brown hanno stravolto improvvisamente le prospettive.

La vera sorpresa dell’ultima infornata di talenti, però, arriva dallo Utah, indossa la maglia numero 45 e risponde al nome di Donovan Mitchell. Scelto da Denver con la tredicesima chiamata, i Jazz lo avevano ottenuto in cambio di Tyler Lydon e Trey Lyles. Coach Quin Snyder era alla disperata ricerca di qualcuno che potesse sopperire, almeno in parte, al vuoto offensivo lasciato dall’addio di Gordon Hayward. Dopo un avvio difficile, il suo ingresso in quintetto (al posto dell’infortunato Rodney Hood), unito al rientro di Rudy Gobert, ha dato una brusca svolta alle sorti della squadra. I Jazz sono riusciti a conquistare un insperato quinto posto grazie alle magie della guardia da Louisville; 20.5 punti di media (primo per distacco tra le matricole), 7 volte oltre quota 30 e due ‘quarantelli’. Per quanto incredibile possa sembrare, il suo rendimento è ulteriormente migliorato ai playoff, chiusi a 24.4 di media e coronati dalla prestazione leggendaria da 38 punti con cui ha eliminato gli Oklahoma City Thunder al primo turno. Per lui, ma anche per Simmons e per Tatum, è proprio il caso di dirlo: è nata una stella.

 

9 – Corsa all’MVP

James Harden è l'MVP della regular season 2017/18

James Harden è l’MVP della regular season 2017/18

Anche quest’anno, la caccia al riconoscimento individuale più prestigioso è stata molto combattuta. La stagione 2017/18 ha visto diverse grandi star al loro meglio. Prendiamo Anthony Davis, ad esempio. Finalmente in salute, dopo i numerosi guai fisici passati, ha trascinato i New Orleans Pelicans al secondo turno playoff a suon di prestazioni mostruose. Soprattutto, ha innalzato il suo livello dopo l’infortunio del compagno DeMarcus Cousins (altro nome da menzionare nella lista dei candidati MVP), un imprevisto che, in un primo momento, era sembrato la pietra tombale sulla stagione dei Pels. Davis è stato incluso nel novero dei finalisti per il premio, ma tra le cause della sua mancata vittoria c’è un avvio di regular season tutto sommato ‘normale’. Stesso problema per Damian Lillard; partito in sordina per poi esplodere nella seconda parte della stagione, quella in cui i suoi Portland Trail Blazers hanno scalato la Western Conference fino a raggiungere un inatteso terzo posto. Andamento opposto per Giannis Antetokounmpo; impressionante nelle prime settimane, in leggero calo (come i suoi Milwaukee Bucks) con il passare dei mesi. Anche Kyrie Irving, se la stagione fosse finita a dicembre, avrebbe avuto serie ambizioni da trofeo, ma l’operazione al ginocchio ha rimandato qualsiasi sogno di gloria, per lui e per i Boston Celtics.

Visto che tra i criteri per l’assegnazione del Maurice Podoloff Trophy c’è l’impatto avuto da un singolo giocatore sulle sorti della propria squadra, non si possono non citare i nomi di LaMarcus Aldridge, Victor Oladipo, Jimmy Butler, Nikola Jokic, Ben Simmons e Donovan Mitchell. Tutti estremamente lontani dalla vittoria, chiaro, ma il fatto di essersi imposti come uomini-franchigia, in qualche caso inattesi, li mette automaticamente in lista.
Tra i favoriti della vigilia c’erano Kevin Durant e Stephen Curry. Effettivamente, le due superstar di Golden State hanno giocato sprazzi di pallacanestro stellare, specialmente a metà stagione. I loro ripetuti infortuni e la regular season sottotono degli Warriors hanno però remato contro i due ex-vincitori del trofeo. A proposito, l’MVP in carica, Russell Westbrook, ha disputato un altro campionato strabiliante. Forse non ai livelli del 2016/17, quando aveva infranto ogni record, ma i suoi 25.4 punti a partita e la seconda stagione consecutiva in tripla-doppia di media (mai nessuno come lui) meritano almeno una menzione d’onore.

Arrivando ai tre finalisti, Anthony Davis era semplicemente il ‘terzo incomodo’ in un testa a testa di altissimo livello fra LeBron James e James Harden. La leggenda dei Cavs ha stupito chiunque, presentandosi alla sua quindicesima stagione NBA in forma smagliante, con una fame degna di uno che non ha ancora vinto niente e con una maturità tecnica persino superiore a quella già eccelsa raggiunta in passato. In questo 2017/18 (ma diciamo pure “negli ultimi quindici anni”), King James è stato la squadra, nel bene e nel male. Nel male, perché i suoi continui ‘mal di pancia’, prontamente assecondati da una dirigenza non all’altezza, hanno portato all’attuale situazione di stallo, con il baratro di una lunghissima ricostruzione sempre più vicino. Nel bene, perché a suon di prestazioni memorabili ha traghettato Cleveland tra le onde di una stagione a dir poco tempestosa, guidandola alle quarte Finals consecutive quando in molti si aspettavano che la nave affondasse prematuramente. 27.5 punti (miglior dato personale dal 2010), 9.1 assist e 8.6 rimbalzi (entrambi career-high) di media, senza saltare nemmeno una delle 82 partite in calendario. A tutto ciò aggiungiamo il terzo trofeo di All-Star MVP in carriera e l’abbattimento del muro dei 30.000 punti, 8.000 rimbalzi e 8.000 assist (unico giocatore nella storia NBA), ed ecco che abbiamo tutti i connotati di un’altra stagione leggendaria.

La regular season 2017/18, però, è stata indubbiamente quella degli Houston Rockets e del loro leader, James Harden. Dopo avere solamente sfiorato l’MVP negli ultimi tre anni, stavolta la statuetta non poteva che essere sua. Il Barba ha trascinato i Rockets al miglior record NBA (e al primato di franchigia) mettendo in scena uno spettacolo incredibile; 30.4 punti di media (miglior realizzatore della lega), undici partite oltre quota 40, quattro (di cui due consecutive) oltre i 50 e la leggendaria tripla-doppia da 60 punti, 11 assist e 10 rimbalzi rifilata il 30 gennaio agli Orlando Magic. Il tutto giocando al suo solito, indecifrabile ritmo, trotterellando per il campo e facendo partire all’improvviso triple fulminanti, passaggi al fulmicotone per i tiratori o alzate ‘al bacio’ per il Clint Capela di turno, oppure lanciandosi al ferro per portare a casa due punti o un giro in lunetta (se non le due cose combinate). La giocata-copertina della sua indimenticabile annata è sicuramente lo spezza-caviglie con cui ha ‘sdraiato’ Wesley Johnson, prima di restare a fissarlo e infilare una tripla in scioltezza, nella gara contro i Clippers. Un momento che rimarrà impresso a fuoco nella memoria di molti, così come il nome di James Harden, entrato ufficialmente nella cerchia dei più grandi.

 

10 – Italians (could do it better)

Un 2017/18 dolce per Marco Belinelli (a sinistra) e amaro per Danilo Gallinari

Un 2017/18 dolce per Marco Belinelli (a sinistra) e amaro per Danilo Gallinari

Le prospettive riguardanti questo 2017/18, per i due italiani della NBA, sono drasticamente e specularmente cambiate con il passare della stagione. Marco Belinelli ha iniziato con la maglia degli Atlanta Hawks, franchigia che muoveva i primi passi di una lunga ricostruzione. Per qualche mese è stato la ‘chioccia’ nella giovanissima squadra di coach Mike Budenholzer. Ha messo in campo la solita affidabilità offensiva (11.4 punti di media, in Georgia) e la grande esperienza acquisita nel decennio abbondante passato negli States, ma il contesto in cui si è trovato (dopo che Charlotte lo aveva scambiato per avere Dwight Howard) era assolutamente inadatto per le ambizioni delle due parti. Gli Hawks avevano fatto ‘piazza pulita’ e stavano cercando nuove basi su cui ripartire; la prima cosa di cui avevano bisogno non era certo uno ‘specialista’ in uscita dalla panchina. Il Beli, all’ultimo anno di un contratto triennale (speso in tre diverse franchigie), cercava disperatamente di mettersi alle spalle le stagioni deludenti con Kings e Hornets. A febbraio, giocatore e franchigia hanno approfittato del mercato dei buyout per interrompere reciprocamente il loro rapporto. Per Marco è arrivata l’occasione per la svolta, e ha saputo coglierla al meglio.

Firmando con i Philadelphia 76ers è finalmente tornato in un contesto di alto livello, con serie ambizioni e in cui potersi inserire a meraviglia. Il suo approdo in Pennsylvania, a cui ha fatto seguito quello di Ersan Ilyasova, ha dato un’ulteriore accelerazione alla volata playoff dei Sixers. Alternandosi sul parquet con J.J. Redick, per sfruttare al meglio le geniali intuizioni di Ben Simmons e aprire il campo per le incursioni dello stesso australiano e per le magie di Joel Embiid nel pitturato, ha reso la panchina di coach Brett Brown un’arma estremamente efficace. Anche sul piano individuale, il ritrovato entusiasmo ha permesso a Belinelli di innalzare la media in regular season (13.6 punti in 28 partite) e di mettersi in luce in post-season con una serie di giocate da copertina (memorabile il tiro in caduta con cui ha mandato all’overtime gara-3 del secondo turno, contro Boston). Ora, a contratto scaduto, ha espressamente dichiarato di voler rifirmare con i giovani e promettenti Sixers. D’altronde, le due parti sembrano fatte l’una per l’altra…

Danilo Gallinari doveva essere un punto cardine del nuovo corso dei Los Angeles Clippers, da poco ‘piantati in asso’ da Chris Paul. Sulla carta, la squadra di Doc Rivers appariva adatta a competere ai piani alti della Western Conference; un backcourt tutto nuovo, con Patrick Beverley e il fenomeno europeo Milos Teodosic, e un reparto avanzato di primissimo livello, composto dal Gallo, da Blake Griffin e da DeAndre Jordan. Come è accaduto spesso, nella storia della franchigia, le aspettative si sono presto sciolte. L’ennesima, incredibile serie di infortuni ha mandato a rotoli un’altra stagione dei Clips; Teodosic subito fermo per un problema al piede, Beverley costretto a dare forfait dopo undici partite (ginocchio), lo stesso Gallinari alle prese con i continui dolori alla mano, fratturata in estate per lo stupido pugno di Italia-Olanda. Con la squadra che faticava enormemente, la dirigenza ha messo in piedi una trade inaspettata, mandando Griffin a Detroit in cambio di Avery Bradley (subito infortunato, ovviamente) e di tanto spazio salariale, indispensabile per dare la caccia ai grossi free-agent. La prolungata assenza di Danilo (ventuno apparizioni, l’ultima il 27 febbraio) è stata ben più pesante rispetto ai suoi 15.3 punti di media, ed è stata una delle cause per la mancata qualificazione ai playoff dei Clippers.
Il futuro della franchigia, che in estate potrebbe perdere DeAndre Jordan (player option), è sospeso in bilico tra un ultimo, disperato assalto ai piani alti (ottenibile solo aggiungendo grandi nomi) e la rifondazione. Il futuro del Gallo, dopo un decennio NBA privo della benché minima soddisfazione di squadra, si avvicina ad un bivio cruciale.

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