Nel cuore degli anni novanta Michael Jordan morì e tornò alla vita come una fenice, smarrì e ritrovò sé stesso dando vita a una delle più belle storie di sport mai raccontate.
Anno domini 1993, completato il primo three-peat ai danni dei Phoenix Suns di Sir. Charles Barckley, Mike, a trent’anni e con il mondo ai suoi piedi, vive una sorta di crisi mistica suggellata forse dal senso di appagamento di chi ha vinto tutto e avverte il bisogno di sentire nuovi stimoli pulsare nelle vene. Poi la morte di papà James, freddato sul ciglio della strada mentre riposava a bordo della sua Lexus. Un colpo troppo duro per His Airness, tanto che il 6 ottobre di quello stesso anno il mondo assiste alla sua conferenza stampa più tristemente nota: “Ho perso ogni motivazione. Nel gioco del basket non ho più nulla da dimostrare ed è il momento migliore per me per smettere. Ho vinto tutto quello che si poteva vincere. Tornare? Forse, ma ora penso alla famiglia”.
Un dramma non solo per l’intera NBA, ma per ogni singolo amante del basket sul pianeta, perchè vedere il più grande di sempre dire basta ancora all’apice è un’autentica pugnalata per tutti. Da lì il seguito della sua inimitabile vita, il golf, il baseball e i Monstars sconfitti, citando Bill Murray, grazie alla sua ultima “distensione con allungo”. Ma il suo amore per la palla a spicchi è troppo grande per accontentarsi di un set della Warner, le sirene su un suo ritorno, infatti, si fanno via via più insistenti.
Il miracolo atteso dai fedeli di sua maestà avvenne, infine, dopo 17 lunghi mesi di astinenza. Nel marzo del 1995 Jordan comunicò al mondo intero l’intenzione di tornare sul parquet, naturalmente ancora in maglia Bulls. Il suo nuovo esordio con i Tori avvenne a Indianapolis, non più il 23 ma il 45 sulle spalle, classe immutata e squadra arricchita dalle firme di Steve Kerr e del croato Toni Kukoc (in seguito sarebbe arrivato nella Windy City anche Signore delle carambole Dennis Rodman). I sogni di gloria dell’annata 1995 si schiantarono però in semifinale di conference contro i ragazzi terribili di Orlando in cui militavano un giovanissimo Shaq, Penny Hardaway e Horace Grant. Un altro giocatore di Orlando, lo specialista dall’arco Nick Anderson, aprì il fuoco della provocazione con una frase destinata a rimanere negli annali dello sport americano: “Jordan? Si il 45 è forte, ma il 23 era tutta un’altra cosa”.
Detto, fatto. Michael si riappropria del suo numero prediletto proprio in quella serie, per poi chiudersi in palestra tutta l’estate con l’intento di presentarsi tirato a lucido ai nastri di partenza della stagione seguente. Se Jordan cercava nuove motivazioni eccole lì servite: dimostrare a 32 anni di essere sempre lui il numero uno, ma soprattutto di essere in grado di mettersi ancora qualche anello al dito.
La regular season dei Bulls targati 1995/96 può essere riassunta con una sola parola: dominio.
Una furiosa rincorsa alla cima della Eastern conference che collimò con il miglior record della storia NBA, un mostruoso 72-10 che, se paragonato al 47-35 ottenuto l’anno prima, la dice lunga sul peso specifico ricoperto da Jordan nell’economia di quella squadra.
Le sue cifre di quell’annata, unite ad un record da record, non lasciano spazio ad eventuali concorrenti per il titolo di MVP stagionale: 30,4 punti, 6,3 rimbalzi e 4,3 assist ad allacciata di scarpa. A livello statistico non la miglior stagione di Jordan (nemmeno la peggiore ndr), ma senza dubbio uno tra i suoi best memories, uno di quei momenti che porti dentro per sempre. Ritirarsi dalle scene, gridare “I’m back” dopo un anno e mezzo per poi segnare un dominio di questa portata, rappresenta qualcosa di unico e irripetibile. La post season fu una cavalcata trionfale che vide Chicago eliminare Miami al primo turno con un agevole 3-0, i New York Knicks di Pat Ewing per 4-1 e gli Orlando Magic con un perentorio quanto dolce 4-0, un risultato che in America chiamano “sweep” ma che si legge “vendetta”.
Alle Finals i Sonics di Shawn Kemp e Gary Payton le provano tutte per evitare l’inevitabile, ma per quanto The Reignman e The Glove si dannassero l’anima, Jordan e compagni aveano quasi sempre in serbo una contromossa. 4-2 e titolo ai Bulls, le immagini di Mike con il Larry O’Brien nuovamente tra le braccia a fare il giro del mondo, il titolo di MVP anche delle finali, così come le celebrazioni sulla Michigan Avenue in compagnia di coach Zen, Scottie Pippen e tutto il gruppo di quell’annata marchiata a fuoco nella storia del Gioco.