Home NBA, National Basketball AssociationApprofondimenti “I’m me, I do me and I chill”, la storia e la vita di Kevin Durant in 10 atti

“I’m me, I do me and I chill”, la storia e la vita di Kevin Durant in 10 atti

di Giacomo Seca
kevin durant contratto nets

KD e Russell

Che storia la loro. Ne avevamo già accennato quando abbiamo parlato del numero 0, ed anche qui diventa difficile condensare tutto in poche righe.

Per quasi 4 anni Durant e Westbrook sono, senza dubbio, il duo più esplosivo di tutta la NBA.

La coppia ammassa record su record, culminati nella stagione 2015/16 quando mettono a referto, combinati, 3907 punti, 1215 rimbalzi e 1195 assist. Un record assoluto e incredibile pensare che quella sarà la loro ultima cavalcata insieme, ma adesso ci arriviamo.

E sono anche i due più chiacchierati, con una narrazione che negli anni inquadra Durant nel ruolo del nice guy e, soprattutto, tende a considerare Westbrook quasi come un ostacolo tra KD e il suo destino, il titolo.

Ma questo è quello che hanno scritto i giornali, perché il loro rapporto è andato ben oltre una divisione dei ruoli dentro o fuori dal campo.

Odi et amo, scriveva Catullo, in un senso più profondo del semplice amore e odio a cui siamo abiutati. Un rapporto viscerale sul campo da gioco, con entrambi che non si risparmiavano critiche e complimenti. “Nessuno dei due può fare a meno dell’altro”, dice Durant.

Ed era vero, perché quando nel 2012\13 Russell si rompe il menisco, i sogni di Oklahoma si infrangono contro Memphis al secondo turno dei playoffs. Mentre quando nel 2013 KD si infortuna al piede destro, OKC non riesce ad arrivare nemmeno ad arrivarci, ai playoffs.

Che storia la loro.

Nel 2013\14, con Westbrook ancora alle prese con i rimasugli dell’intervento, per Durant è tempo di caricarsi la squadra sulle spalle. Come risponde? 32 punti, 7,4 rimbalzi e 5,5 assists a partita per farne vincere 59 ad OKC: è l’MVP della stagione. KD è il miglior giocatore della lega.

Il suo discorso di ringraziamento è uno dei più sentiti della storia (e vittima, ovviamente, di una miriade di meme che non ha proprio gradito). La parte finale non è per persone troppo emotive: da ragazzo cresciuto praticamente senza padre, la persona più importante da ringraziare è lei, mamma Gloria. “You are the real MVP”, dice Durant, in un momento di commozione generale.

Da quel momento, riprendendo le parole del figlio, Gloria si farà chiamare The Real MVP anche fuori dal campo, cavalcando in maniera più o meno discreta l’evento (parere di chi scrive, senza far polemica).

Nel discorso, però, c’è anche un’altra parte toccante. Ed è quando parla proprio di lui, di Russell, tenuto separato dal resto dai compagni e dicendo in tre frasi praticamente tutto il loro rapporto.

“Ci sono giorni che vorrei soltanto dirti di andartene via, di sparire. Ma so che ci sono giorni in cui tu faresti altrettanto con me. Ti voglio bene, amico mio”.

Kevin Durant nel suo discorso di premiazione

Il Tradimento

Il colpo di scena della carriera di Kevin Durant arriva nell’estate 2016.

Anche se c’è chi, giustamente, lo fa risalire un po’ prima. Al 30 maggio 2016. Perché? Perché è il giorno della gara 7 tra OKC e Golden State.

È la finale della Western Conference. Gli Warriors arrivano a quei playoffs spremuti, dopo aver rincorso, con successo, il record All-time di Vittorie/sconfitte nella regular season: 73-9.

Oklahoma quell’anno ha invece cambiato allenatore: c’è Billy Donovan. Con Scott Brooks che proprio all’inizio dei playoffs diventa il nuovo allenatore degli… Washington Wizards! E che, quest’anno, ha ritrovato nella capitale proprio Russell Westbrook.

Siamo quindi in finale di Conference. Oklahoma è a sorpresa sopra 3-1 e vola sulle ali dell’entusiasmo. Ma lo sport è una cosa folle, Klay Thompson è una cosa folle, e i Thunder pian piano si sciolgono: rimonta di Golden State e la serie, una delle più elettrizzanti di sempre, finisce 4-3 per i campioni in carica.

Quell’estate KD termina il suo contratto di 5 anni con i Thunder. Si parla tanto, tantissimo di dove andrà a giocare il prossimo anno. Oklahoma è favorita, e soprattutto i tifosi non possono credere che il loro giocatore di punta non rifirmi con la squadra che l’ha cresciuto. Che non voglia portare a termine quanto iniziato.

Ma si parla tanto quell’estate. Tante sono le squadre sulle sue tracce: ci sono i Clippers, ci sono gli Heat, ci ha provato anche Dallas ma Mark Cuban non ha proprio toccato i tasti giusti (definendo Westbrook non un campione e ottenendo una lapidaria risposta di Durant: “è un’idiota”).

Si parla anche degli Warriors, usciti con le ossa rotte dalle ultime Finals ma con un’inaspettata disponibilità economica dettata da oculati contratti, il balzo in avanti di quasi 20 milioni del salary cap NBA, un po’ di fortuna nella sfortuna (le caviglie di Steph) e una innegabile bravura del front-office.

“Ma va, ma mica può andare agli Warriors!” È un po’ il sentimento generale.

E invece, il 4 luglio, attraverso The Players Tribune, Durant annuncia la sua scelta: andrà nella Baia.

La squadra reduce dal 73-9, la miglior squadra (per record) della storia, acquisisce uno dei primi due giocatori della lega. È apoteosi. È anche una svolta da “villain” che ricorda molto da vicino, per termini ma non per modi, quella di LeBron & i suoi talenti nel 2010.

Una svolta che chiude le porte di un capitolo (e chiude le porte praticamente di tutto lo stato dell’Oklahoma a KD) e ne apre un’altra: quella della possibilità, dalla stagione successiva, di mettere in scena la miglior squadra, almeno offensivamente, della storia della NBA.

Nei suoi successivi tre anni a San Francisco succedono in particolare tre cose:

  • Si toglie di dosso, definitivamente, l’etichetta di bravo ragazzo trasformandosi in uno dei giocatori più odiati.
  • Raggiunge l’apice della sua forma cestistica, completando anche spettacolari progressi difensivi e diventando il miglior giocatore della NBA.
  • Arriva il momento più buio della sua carriera, con l’infortunio al tendine d’Achille durante gara 5 delle Finals 2019.

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