Si racconta che, più o meno in Africa occidentale, varie popolazioni del continente nero si riunirono sotto un unico grande gruppo religioso chiamato Yoruba. Questo gruppo ebbe come capostipite un certo Oduduwa, una sorta di figura mistica, una divinità principesca. Attorno a questa figura ruotano leggende su imprese, su miracoli: pare infatti che abbia creato gli esseri umani utilizzando l’argilla di Ile-Ife, andando poi a mettere in piedi, su quella terra, una città-stato. Ecco, immaginiamo che il protagonista sia stato plasmato direttamente dal sovrano di Ife. Poiché la sua tempra non era scalfibile, le sue doti tecnico-fisiche andavano ben oltre lo scibile umano. Un cestista? No, di più: un giocatore che riscritto la storia del basket e che ha fondato un culto. Proprio come fa un ente supremo. Vi dice niente il nome Akeem? Forse. Meglio se aggiungiamo una ‘h’. Hakeem. Hakeem Olajuwon, per la precisione. Un ragazzo proveniente dalla Nigeria, da una città importante per il commercio atlantico, Lagos. Lui aveva il suo piccolo sogno: volare oltreoceano, negli Stati Uniti. La sua ambizione prende vita quando uno scampolo delle sue capacità al di fuori dell’ordinario vengono adocchiate da un certo Richard Mills, nel bel mezzo di una partita di calcio. L’uomo lo convince a deporre i guanti da portiere e a destreggiarsi con la palla a spicchi.
La scalata verso la leggenda inizia piano piano. L’impatto con gli States per Hakeem non è memorabile. Arrivato a New York, non esce nemmeno dall’aeroporto a causa del freddo bestiale che proprio non sopporta. Decide dunque di anticipare il viaggio a Houston per valutare l’iscrizione alla locale università. Ad aspettarlo all’aeroporto non c’è una delegazione del college, un accompagnatore. Nessuno. Come se fosse uno qualsiasi. E allora prende un taxi. Taxi che ha ispirato diverse storielle. C’è chi dice che il tassista fosse nigeriano e che quel pizzico d’aria di casa dal retrogusto nostalgico l’abbia convinto a rimanere lì, o addirittura chi sostiene che lo stesso tassista abbia sbagliato a portarlo ad Austin, interpretando male le indicazioni. Sta di fatto che alla fine il giovane negli USA ci rimane per davvero, andando a servire la causa dei Cougars nella NCAA.
In Texas inizia la storia. Viene chiamato dai Rockets con la prima scelta assoluta del draft 1984 con l’intenzione di affidare all’africano le fortune future della franchigia. Olajuwon viene affiancato sotto le plance a Ralph Sampson, che venne spostato per l’occorrenza nel ruolo di ala grande: sorgono così le Twin Towers, una coppia di lunghi atletici e tecnici. I primi anni sono un apprendistato proficuo, tanto che alla seconda stagione arriva il primo accesso alle Finals. Di fronte però ci sono quei verdi mostri sacri dei Boston Celtics guidati da Larry Bird che si fanno valere con scaltrezza e bravura. Un ingenuo Hakeem rilascia all’epoca delle dichiarazioni memorabili, con le quali rivela di non sapere nulla della storia dei Celtics. Vabbè, capita.
Passa il tempo e le sue doti trascendentali iniziano ad uscire prepotentemente. Il nativo di Lagos si consacra come un centro totale, efficiente su entrambe le metà campo. Tosto, sublime, raffinato. Offensivamente riesce a sviluppare un arsenale con cui affrontare le battaglie più ostiche: un tiro dalla media affidabile, un buon gancio e un gioco in post enciclopedico. Ma soprattutto una move che diverrà la sua griffe inconfondibile: il Dream Shake. Grazie al suo lavoro di piedi elude la marcatura avversaria con finte pregevoli e beffarde. Repentine, letali. Molti colleghi cadono nel suo tranello, alcuni dei quali abbastanza illustri: come l’Ammiraglio David Robinson che, durante gara-2 delle Western Conference Finals 1995, non riesce ad arginare la danza trascinante del nigeriano.
Elegante come un leone che passeggia sornione nella savana, arcigno e guardingo come un grosso rinoceronte. Anche nella sua metà campo Olajuwon la spiega: con la sua agilità sbarra con vigore la strada del canestro, dilettandosi con cruente stoppate. Utilizzo del fisico, utilizzo della mente. Non era affatto raro che si divertisse ad intercettare passaggi bloccando sul nascere ogni velleità. Un difensore preparato, sotto ogni aspetto.
Hakeem si mette d’impegno e scrive la sua epopea, pagina dopo pagina. Una, importante, il 29 marzo 1990: diventa il terzo membro (sono quattro in totale) dell’esclusivo club della quadrupla doppia, mettendo a referto contro i Milwaukee Bucks 18 punti, 16 rimbalzi, 10 assist e 11 stoppate. Stralci di onnipotenza. Arrivano riconoscimenti individuali come le convocazioni all’All-Star Game o gli inserimenti negli annuali quintetti NBA e in quelli difensivi. Riesce ad essere più volte miglior stoppatore e miglior rimbalzista. Quello che suggellerebbe il tutto sarebbe un bell’anello da infilare al dito: gli anni volano ma pare che non ci sia spazio per un sogno del genere. Addirittura tra le parti, ad un certo punto, si crea una crepa. I Rockets che contestarono al centro di aver finto un infortunio per cercare di essere ceduto. Nulla di irreparabile, però. Anzi. I paletti verso il successo erano appena stati messi. Giunge il rinnovo contrattuale e poi l’arrivo in panchina di Rudy Tomjanovich, direttore d’orchestra che mise a posto le note nel suo spartito.
Siamo al 1994. Postseason. I Rockets sbattono fuori in quattro gare i Portland Trail Blazers di Clyde Drexler, la spuntano contro i Phoenix Suns di Charles Barkley in sette partite (37 punti e 17 rimbalzi del numero 34 nell’ultimo atto) ed hanno ragione degli Utah Jazz. Alle Finals trovano di fronte i New York Knicks guidati da Patrick Ewing. Due colossi pronti a fare la guerra sotto canestro, proprio come accaduto in NCAA precedentemente. Se quella volta a trionfare fu Pat con la sua Georgetown, stavolta a godersi la vittoria è Olajuwon: al termine di una serie dura e ad alta tensione, il possente baluardo porta i suoi in paradiso. Sette match giocati al cardiopalma. Sportellate senza pietà e colpi di classe, come in film thriller d’annata. Titolo agguantato con tanto di MVP delle finali a far da ciliegina sulla torta.
A volte nella vita due vecchi amici devono prendere strade diverse per poi ritrovarsi e lottare per un unico scopo. Nel febbraio 1995 Houston acquisisce Clyde Drexler mandando ai Portland Trail Blazers Otis Thorpe. Sì, proprio lui, The Glide. Lo stesso Drexler che aveva frequentato il college insieme ad Hakeem, dando vita alla filosofia baskettara chiamata ‘Phi Slama Jama‘: gioco frenetico, contropiedi frizzanti e schiacciate spettacolari. Lo scambio fu criticato da molti. Questo perché, secondo giudizi taglienti, la guardia non si sarebbe ambientata facilmente nei meccanismi di una squadra che si era privata di un ingranaggio fondamentale (Thorpe, appunto). E invece no. Sesto posto ad Ovest, poi i playoff: forse nessuno si aspettava l’exploit. Pratiche Jazz e Suns archiviate, poi di traverso si mettono i San Antonio Spurs di Robinson. Un altro duello titanico. La disciplina e la forza dell’Ammiraglio non riescono ad arginare la furia divina dell’africano che balza ancora agli onori della cronaca: 4-2 Rockets e Spurs a casa. Il meraviglioso quadro viene completato dal 4-0 rifilato agli Orlando Magic di un Shaquille O’Neal in erba. The Diesel è ancora inesperto per fronteggiare la sua controparte, che mette in mostra tutto quello che sa fare. Il repeat arriva, sfondando qualche aspettativa negativa. E c’è anche il secondo MVP delle Finals di fila. Quella è l’ultima apparizione di Olajuwon al grande ballo: neanche l’arrivo di Barkley serve per tentare di nuovo il colpaccio. Percorrendo il viale del tramonto il centro ha a che fare con qualche problema fisico di troppo e con una piccola parentesi coi Toronto Raptors. A 39 anni disse basta.
E così quel ragazzotto d’etnia Yoruba, fedele erede sportivo del re Oduduwa, ce l’ha fatta. Ha sprigionato le sue risorse ultraterrene usufruendo di un corpo d’acciaio. Ha calcato il parquet come un vero Dio venuto da una terra lontana per tramandare il suo credo. Per realizzare il sogno di una vita.