Home NBA, National Basketball AssociationApprofondimenti I quintetti del millennio: Golden State Warriors

I quintetti del millennio: Golden State Warriors

di Stefano Belli

I Golden State Warriors hanno iniziato il nuovo millennio esattamente come avevano concluso quello vecchio: nei bassifondi della Western Conference. Sono rimasti tra le squadre-barzelletta della NBA per quasi tutti gli anni Duemila, eccezion fatta per l’imprevedibile cavalcata di Baron Davis, Monta Ellis e compagni al motto “We Believe“, nel 2007.

L’arrivo di Stephen Curry, però, ha inaugurato un nuovo corso, che non solo ha portato i californiani al successo, ma li ha resi una delle migliori franchigie di sempre. Per questo motivo, nella nostra lineup del millennio troviamo solo giocatori dell’epoca più recente. Questo è il quintetto ideale dei Golden State Warriors dal 2000 in avanti.

Point guard: Stephen Curry

Il suo ingresso nella NBA, nel 2009, non solo ha cambiato la storia degli Warriors; ha rivoluzionato la pallacanestro a ogni suo livello, dai playground di quartiere alle arene più avveniristiche. E dire che nelle sue prime stagioni in California, su Steph c’erano parecchi dubbi, legati soprattutto a delle caviglie troppo fragili.

Nel 2012, la scelta della dirigenza di preferire lui all’idolo di casa Monta Ellis ha scatenato l’indignazione dei tifosi, che però si sono ricreduti presto. Da quel momento, l’ascesa di Curry procede inarrestabile come la marea in Normandia. Nel 2013 si presenta al grande pubblico con delle prestazioni da sogno al Madison Square Garden, allo Staples Center e nella serie playoffs persa contro i San Antonio Spurs, nel 2014 esordisce all’All-Star Game e viene inserito nel secondo quintetto All-NBA, dopodiché prende il controllo della lega. Steph trascina gli Warriors a quattro titoli e 6 finali NBA, vince due premi di MVP, di cui uno all’unanimità, e uno da miglior giocatore delle Finals, viene incluso in altri 8 quintetti All-NBA, fa impazzire gli appassionati di tutto il mondo e infrange qualsiasi record legato ai canestri da tre punti, di cui a gennaio 2022 diventa il leader ogni epoca. Tralasciando le statistiche, i primati e il palmarès, Curry è riuscito a creare una cultura vincente nella Bay Area, dove nessuno era riuscito a farlo prima.

Guardia: Klay Thompson

Il tiratore da Washington State viene scelto con l’undicesima chiamata al draft 2011. Nella sua stagione da rookie parte come riserva di Monta Ellis, ma la cessione di quest’ultimo ai Milwaukee Bucks spalanca a Klay le porte del quintetto. Il suo micidiale tiro da tre punti, unito alla pericolosità perimetrale di Stephen Curry, dà origine al soprannome “Splash Brothers“, con cui le due guardie di Golden State emergono tra i migliori backcourt della lega. Nel 2014 si parla di una sua cessione a Minnesota per arrivare a Kevin Love, ma l’affare non va in porto, e per gli Warriors inizia un irripetibile ciclo vincente. Un ciclo di cui Thompson è un elemento chiave, con la sua difesa asfissiante e con i suoi memorabili exploit offensivi; dai 37 punti realizzati in un solo quarto contro i Kings nel 2015 alle 14 triple segnate contro i Bulls nel 2018 (entrambi record all-time), passando ovviamente per l’incredibile gara-6 del 2016 contro i Thunder. Cinque volte All-Star e due volte All-NBA, i gravi infortuni subiti nel 2019 sembrano indicare la fine della dinastia Warriors, che invece riprende vita con il suo trionfale rientro, nel 2022.

Ala piccola: Andre Iguodala

Nelle otto stagioni trascorse a Philadelphia, ‘Iggy’ è stato il go-to-guy dei Sixers ed è emerso tra i giocatori più spettacolari della lega, partecipando anche a un All-Star Game nel 2012. Nell’anno passato a Denver ha iniziato la transizione verso un nuovo ruolo, quello dell’affidabile veterano capace di far crescere con l’esempio i giovani talenti. È esattamente il tipo di giocatore che serve ai rampanti Warriors, che infatti lo mettono sotto contratto nell’estate del 2013. Il suo innesto è fondamentale per far compiere alla squadra un grosso balzo in avanti, verso i piani alti della Western Conference. Nella sua prima stagione in California viene inserito nel primo quintetto All-Defensive, l’anno successivo è tra i protagonisti assoluti del titolo; la sua difesa su LeBron James e i suoi canestri decisivi gli valgono il premio di Finals MVP. Utilizzato spesso come sesto uomo da Steve Kerr, Iguodala è sempre in campo nei momenti chiave, ed è un elemento imprescindibile della grande dinastia Warriors. Nel 2019 viene ceduto per esigenze salariali, e la dinastia, complici gli infortuni e la partenza di Kevin Durant, si interrompe. Nel 2021 Andre torna sulla Baia, e come per magia la vecchia corazzata torna a vincere. Messosi al dito il quarto anello, Iggy gioca un’ultima stagione a San Francisco, per poi appendere le scarpe al chiodo nel 2023.

Ala grande: Kevin Durant

Con l’avvicinarsi dell’estate 2016, al general manager degli Warriors, Bob Myers, viene una pazza idea: “e se provassimo a prendere Kevin Durant?“. Il fenomeno dei Thunder è in scadenza di contratto, e il suo ciclo nell’Oklahoma sembra giunto al termine. La delegazione californiana, reduce dalle 73 vittorie in regular season e dalle finali perse contro i Cavs, riesce a convincere KD a fare il grande passo: uno dei giocatori più forti al mondo si unisce quindi alla squadra dei record.

In quel momento prende forma la macchina da pallacanestro più inarrestabile mai apparsa su un parquet. Durant è l’arma letale del magnifico esercito di coach Kerr, quella da utilizzare soprattutto quando bisogna vincere partite e titoli. Il numero 35 decide due edizioni consecutive delle Finals, vincendo in entrambe le occasioni lo scontro diretto con il suo più grande rivale, LeBron James, e sparandogli in faccia una memorabile tripla nella gara 3 del 2017. Le sue straordinarie prestazioni rischiano di condurre gli Warriors al three-peat, ma in gara 5 delle Finals 2019 il tendine d’Achile salta, e allo stesso tempo si chiude la sua esperienza nella Bay Area. KD firma per i Brooklyn Nets, lasciando una squadra che forse non è mai stata davvero sua, ma che ha contribuito a portare a livelli forse irraggiungibili da chiunque.

Centro: Draymond Green

Dopo quattro stagioni passate a Michigan State, Green viene chiamato a inizio secondo giro del draft 2012. L’unico aspetto chiaro fin dall’inizio è la sua spiccata attitudine difensiva, ma tutto il resto è da decifrare. Draymond è troppo basso per giocare da ala grande, ma è troppo lento e ha mani troppo grezze per fare l’ala piccola. Nei suoi primi due anni da professionista, coach Mark Jackson lo utilizza per far rifiatare l’All-Star David Lee, ma l’infortunio di quest’ultimo apre le porte del quintetto a Green per i playoffs 2014. Da quel momento in avanti, Dray diventa un pilastro dei grandi Warriors, assumendo il ruolo di leader carismatico. I suoi frequenti eccessi sono ottimamente bilanciati dall’intelligenza tattica e dall’onnipresenza difensiva, che valgono a Green quattro All-Star Game, un premio di Difensore dell’Anno, 8 inclusioni nei quintetti All-Defensive e due nei quintetti All-NBA. L’ennesima leggerezza, nel corso di un alterco con LeBron James, costa una bella fetta del titolo 2016 a Golden State, ma Draymond mette una firma indelebile sulle quattro finali vinte dai californiani, prenotando un posto per il suo numero 23 fra quelli appesi al soffitto del Chase Center.

Sesto uomo: Andrew Wiggins

A contendere questo posto al canadese c’erano Baron Davis, stella dei Warriors versione “We Believe”, Monta Ellis, che ha traghettato la squadra tra due epoche, David Lee, ovvero l’unico All-Star di Golden State nei primi anni Dieci, e due affidabili gregari come Shaun Livingston, preziosissimo all’inizio della dinastia, e Kevon Looney, indispensabile per le vittorie più recenti.

Wiggins, però, è stato decisivo per il trionfo del 2022. A Minnesota, Andrew sembrava una promessa non del tutto mantenuta; in 6 stagioni ha collezionato cifre di tutto rispetto, ma l’incostanza e l’incapacità di lasciare un segno non venivano ritenute all’altezza di una prima scelta assoluta. A febbraio 2020, la trade che lo porta a San Francisco in cambio di D’Angelo Russell viene accolta con un certo scetticismo dai tifosi Warriors, ma Wiggins dimostra presto di potersi inserire a meraviglia nel sistema di coach Steve Kerr. Dopo un buonissimo 2020/21, chiuso con un’eliminazione al torneo play-in, Andrew esplode nella stagione successiva, facendo il suo esordio all’All-Star Game e disputando dei playoffs stellari, impreziositi da una memorabile schiacciata in testa a Luka Doncic. Preziosissimo sui due lati del campo durante le Finals, Wiggins vince il suo primo titolo NBA giocando da secondo violino della squadra, spalla perfetta dell’MVP Stephen Curry.

Allenatore: Steve Kerr

Nell’estate del 2014, dopo aver esonerato a sorpresa Mark Jackson, la dirigenza decide di rimpiazzare l’amatissimo allenatore con un vero e proprio esordiente. Cinque volte campione NBA da giocatore, gregario dei Chicago Bulls di Michael Jordan e dei San Antonio Spurs di Tim Duncan, dopo il ritiro Steve Kerr ha lavorato come analista televisivo e come general manager dei Phoenix Suns.

L’idea di affidare la guida tecnica di una squadra in rampa di lancio a qualcuno che non si è mai seduto su una panchina, se non come giocatore, suscita parecchio sgomento tra i tifosi, i quali non possono certamente immaginare quello che sta per succedere. Steve Kerr fa compiere agli Warriors il salto decisivo per trasformarsi da gruppo promettente a corazzata inaffondabile. Le influenze dei suoi grandi allenatori generano una concezione tattica innovativa, basata sul movimento continuo di pallone e giocatori, sull’abilità di lettura dei singoli e sulle inimitabili doti balistiche degli Splash Brothers. Golden State vince il titolo al primo tentativo, giocando un basket corale e divertente, e nel 2015/16 lascia ai posteri la miglior regular season di sempre. Dopo aver perso clamorosamente le Finals 2016 contro Cleveland, con l’arrivo di Kevin Durant gli Warriors prendono in ostaggio la lega, dominando incontrastati per quasi tre stagioni. Gli infortuni illustri e la partenza di KD, nel 2019, sembrano porre fine alla dinastia, e le sconfitte del biennio successivo fanno calare qualche ombra sull’effettivo valore di Kerr. Poi ecco la stagione 2021/22, con il ritorno della “Strength in numbers” e con il quarto titolo NBA dell’era Kerr. Il biondo allenatore, incluso nella lista dei 15 migliori coach di sempre, si mette così al dito il suo nono anello.

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