Home NBA, National Basketball AssociationApprofondimenti Tra Israele e Palestina è guerra: come le star dello sport hanno reagito al conflitto

Tra Israele e Palestina è guerra: come le star dello sport hanno reagito al conflitto

di Carmen Apadula

Sappiamo tutti cosa è successo (e cosa sta succedendo) in Medio Oriente negli ultimi giorni.

Quello che, però, forse in molti non sanno, è che gli orribili eventi delle ultime settimane rappresentano il culmine di scontri vecchi decenni, che affondando le proprie radici nella storia.

Si sa, le origini di ogni conflitto dipendono sempre da chi viene interpellato.

C’è chi dice che questa guerra parte nell’antichità e affonda le proprie radici nelle sacre scritture ebraiche, che rivendicano il territorio palestinese come la terra promessa da Dio al popolo ebraico. 

Secondo altri, il tutto parte da quando, nel primo dopoguerra, l’Impero Ottomano si è sgretolato e la Palestina è passata sotto il controllo britannico. La popolazione ebraica cercava di sfuggire ai pogrom e alle persecuzioni subite nell’Europa orientale ma, con la dichiarazione di Balfour del governo britannico (risalente al 1917), le tensioni con le comunità arabe sono aumentate in maniera considerevole. 

Ma, prima di iniziare questo discorso, bisogna fare delle premesse.

Innanzitutto, ci sono vari ostacoli che impediscono la risoluzione di questi scontri, quali: la creazione di confini ben definiti, il controllo di Gerusalemme, gli insediamenti israeliani, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e le uccisioni politiche dei civili. 

I tentativi di negoziazione proposti nel corso degli anni, mirati a trovare una soluzione che ponesse la fine degli scontri tra i due Stati, porterebbero alla creazione dello Stato della Palestina, indipendente proprio come lo Stato di Israele.

Il problema? Nonostante una buona fetta della popolazione israeliana e palestinese preferisca tale soluzione, sono troppo profonde le strisce di disaccordo riguardo la forma finale dell’accordo, e poca la credibilità riguardo al rispetto degli impegni base dell’accordo.

Ma non solo. A questo, si aggiungano anche gli scontri tra eserciti regolari, gruppi paramilitari, organizzazioni terroristiche e cittadini indipendenti. Che, chiaramente, non sono circoscritti al campo militare, ma causano un numero elevatissimo di vittime soprattutto tra la popolazione civile sia israeliana che palestinese.

Conflitto israelo-palestinese: le cause della guerra

Ma andiamo a vedere quali sono le origini di questo conflitto. Per farlo, dobbiamo partire dall’inizio. 

Stando alle opinioni dei più, l’inizio dell’attuale conflitto tra Israele e Hamas risale al 1947

In quell’anno, le Nazioni Unite votarono (a seguito dello sterminio ebreo verificatosi durante l’Olocausto) per la spartizione del mandato della Palestina in due Stati: uno ebraico e uno arabo. Lo Stato ebraico corrisponde ovviamente all’attuale Israele, mentre quello arabo non vide mai la luce

La lotta tra gruppi armati di ebrei e palestinesi, considerati dai britannici come organizzazioni terroristiche, si intensificò fino al 1948, anno della dichiarazione di indipendenza di Israele. Ciò portò ad una guerra con l’Egitto, l’Iraq, la Siria e la Transgiordania

E la conseguenza non fu di certo positiva, anzi. Circa 700mila palestinesi furono espulsi dal proprio territorio o decisero di fuggire, e tuttora non hanno ancora ottenuto l’autorizzazione per tornare. Gli arabi rimasti in Israele furono invece soggetti a discriminazioni di ogni tipo per oltre due decenni, oltre che privati di numerosi diritti civili fondamentali

Nel 1964, una coalizione di gruppi palestinesi ha fondato l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) per stabilire, attraverso la lotta armata, uno stato arabo al posto di Israele.

Nel 1967, Israele sospettava che un’invasione fosse vicina e lanciò quello che ha dichiarato essere un attacco preventivo contro la Giordania, l’Egitto e la Siria. Durante la Guerra dei Sei Giorni, l’Israele ha occupato i territori palestinesi di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza, occupazioni che ebbero un profondo impatto sulla vita quotidiana dei palestinesi e furono fermamente condannate dalle Nazioni Unite.

Nel 1981, la penisola del Sinai fu restituita all’Egitto, dopo una serie di accordi che costarono la vita al presidente egiziano dell’epoca, Anwar el-Sadat. Ma milioni di rifugiati palestinesi si trovano ancora nei campi profughi di diverse nazioni limitrofe, aspettando una soluzione immersi nella miseria.

Per vent’anni, Israele ha considerato la popolazione palestinese sotto il suo controllo, tanto che ha continuato con le espansioni coloniali e con le espropriazioni in Cisgiordania.

Quest’illusione andò in frantumi nel 1987, quando un numero elevatissimo di giovani palestinesi scese in strada per ribellarsi contro l’esercito israeliano. La rivolta, che prese il nome di intifada, fu caratterizzata da arresti di massa e centinaia di palestinesi processati o uccisi, essendo stati definiti “spie”.

Nel 1993, si sono verificati svariati colloqui segreti tra Israele e l’OLP, che hanno portato agli Accordi di Oslo, che a loro volta istituirono l’Autorità nazionale palestinese e l’autogoverno in alcune parti della Cisgiordania e di Gaza. Alcuni palestinesi li considerarono come una forma di resa, mentre gli israeliani di estrema destra si opposero alla cessione di insediamenti o territori

Ma nel 2000 le trattative di pace vacillarono e arrivò anche il fallimento dei colloqui di Camp David, un vertice tra il presidente degli Stati Uniti dell’epoca, Bill Clinton, e il primo ministro israeliano Ehub Barak

Quando, nel 2005, l’allora premier Ariel Sharon acconsentì di smantellare numerosi insediamenti ebraici in Palestina, il sovversivo Yasser Arafat (che aveva guidato la seconda intifada) era ormai morto insieme ad oltre tremila palestinesi e mille israeliani. L’odio tra le due parti è diventato insanabile proprio in quel periodo, e la costruzione di un intricato sistema di muri nella West Bank non ha di certo aiutato.

Nel 2006, il partito islamista radicale Hamas, dopo una lunga guerra civile contro l’OLP, vinse le elezioni. Ma la situazione per i palestinesi della Striscia di Gaza si è andata solo a peggiorare. Israele decretò un embargo totale dell’enclave, con controllo continuo dello spazio aereo e delle acque territoriali, mentre l’economia palestinese ha subito un tracollo clamoroso.

Nell’aprile di quest’anno, Israele ha attaccato la Moschea al-Aqsa, mentre ad ottobre Hamas ha lanciato circa 5000 missili verso Tel Aviv

Tutto il resto… beh, lo vediamo tutti i giorni al telegiornale. 

Israele vs. Palestina: le reazioni interne al conflitto

Benjamin Netanyahu, attuale Primo Ministro israeliano, si è detto più volte contrario alla creazione di uno Stato palestinese, e vari membri del suo governo sostengono apertamente l’annessione di tutta o parte della Cisgiordania.

Numerosi paesi, in particolare vari alleati occidentali di Israele (come, ad esempio, gli Stati Uniti) e alcuni paesi europei, hanno condannato gli attacchi di Hamas, esprimendo solidarietà nei confronti di Israele e affermando che quest’ultimo ha il diritto di difendersi dagli attacchi armati. 

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha condannato fermamente l’attacco compiuto da Hamas contro Israele, definendolo “terrorismo nella sua forma più spregevole”. Di conseguenza, Israele avrebbe il diritto di difendersi contro degli attacchi così atroci. 

L’ambasciatore israeliano dell’UE, Dimiter Tzantchev, ha condannato con forza l’attacco di Hamas. Svariate bandiere israeliane sono state issate davanti alla sede della Commissione europea e a quella del Parlamento europeo a Bruxelles. La presidentessa di quest’ultimo, Roberta Metsola, questo mese ha anche condotto una veglia in aula per commemorare le vittime israeliane dell’attacco. 

Il commissario europeo per l’allargamento, Oliver Varhelyi, ha annunciato su “X” (fino a poco tempo fa noto come “Twitter”) che la Commissione europea avrebbe sospeso immediatamente tutti i pagamenti dovuti all’aiuto per lo sviluppo palestinese. Il consenso emerso tra i ministri è una chiara condanna agli attacchi di Hamas, ma si chiede comunque la protezione dei civili, il rilascio degli ostaggi e l’accesso a cibo, acqua o medicinali a Gaza, in linea con le disposizioni di diritto internazionale umanitario

L’annuncio di Varhelyi è stato però criticato dai ministri degli Esteri di diversi stati dell’UE. Ad esempio Spagna, Irlanda, Belgio e Lussemburgo hanno insistito sul fatto che solo i singoli paesi potevano prendere tali decisioni. Il blocco ha corretto l’annuncio di Varhelyi, e ha successivamente affermato che avrebbe rivisto i pagamenti per prevenire qualsiasi forma di abuso.

Il portavoce della NATO, Dylan White, ha affermato che il blocco ha condannato gli attacchi terroristici di Hamas contro Israele, un partner della NATO. Di conseguenza, Israele avrebbe il diritto di difendersi. 

Il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, Tor Wennesland, ha condannato l’attacco di Hamas e ha affermato che gli eventi hanno provocato “scene orribili e troppe vittime israeliane”, mentre svariati feriti sono stati rapiti all’interno della Striscia di Gaza. Il suo invito è, dunque, quello di far cessare immediatamente gli attacchi contro i civili. 

La Forza ad interim delle Nazioni Unite in Libano ha affermato che sta rafforzando la sua presenza vicino al confine con Israele, e che si sta impegnando in svariate “operazioni di contrasto” al lancio dei razzi di Hamas. 

Diversi leader mondiali hanno annunciato la loro intenzione di visitare Israele, tra cui il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz

I paesi del mondo musulmano hanno invece espresso sostegno nei confronti dei palestinesi, scagliandosi contro l’occupazione israeliana dei territori della Palestina, ed indicandola come la causa principale di questo escalation di violenza

La Lega Araba ha affermato che la continua attuazione, da parte di Israele, di politiche violente ed estremiste è come “una bomba ad orologeria”, che priva la regione di qualsiasi opportunità di stabilità in un futuro prossimo. 

Il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki, ha espresso la sua massima preoccupazione per la situazione, e ha richiesto l’immediata cessazione delle ostilità, oltre a ricordare la negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese. 

L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, ha criticato l’imposizione di un assedio totale su Gaza da parte di Israele, affermando che tale mossa è stata proibita dal diritto internazionale

Numerosi paesi hanno invece semplicemente richiesto un’interruzione del fuoco e una riduzione della tensione

I governi occidentali esprimono ancora ufficialmente il loro sostegno ad una soluzione a due Stati, ma non si è comunque registrato alcun progresso per un accordo

Conflitto israelo-palestinese: qual è stato il suo impatto sullo sport?

Migliaia di persone stanno pagando con la vita il conflitto tra le due nazioni. Le tensioni stanno aumentando, e tutto il mondo osserva con trepidazione ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza

E neanche lo sport rimane isolato dall’attuale situazione, tanto che ne ha già subito alcune conseguenze

Nel corso del crescente conflitto israelo-palestinese, il calcio si è trovato intrappolato in polemiche e divisioni politiche. Le profonde tensioni della guerra hanno superato i confini internazionali e colpito giocatori, tifosi e addirittura intere organizzazioni sportive.

E’ chiaro che in una situazione del genere il calcio giocato è passato in secondo piano, e la Federazione calcistica israeliana ha ufficializzato la sospensione delle competizioni nazionali fino a nuovo ordine. Si prevede che quest’interruzione sarà lunga, e non c’è ancora una data per il ritorno di questo sport nel Paese israeliano.

La Coppa del Mondo FIFA, ospitata dal Qatar lo scorso anno, è stata occasione per dimostrare solidarietà filo-palestinese

La dimostrazione più significativa è stata la celebrazione da parte dei giocatori del Marocco, dopo la loro storica vittoria contro la Spagna, buona per la conquista dei quarti di finale. Dopo la vittoria, i giocatori hanno infatti celebrato alzando la bandiera palestinese, mentre i tifosi hanno mostrato dei cartelloni con scritto “Free Palestine” sugli spalti dello stadio. Durante la partita Francia-Tunisia, un tifoso è invece riuscito ad entrare in campo per sventolare la bandiera palestinese.

In quell’occasione, tanti giornalisti israeliani hanno dichiarato apertamente la propria ostilità nei confronti di gesti di questo tipo, ma la FIFA ha sempre lottato per mantenere un’equilibrio tra sport e politica.

Equilibrio che ora, ad un anno di distanza, con una battaglia che infuria, non c’è. 

La UEFA ha annunciato il rinvio di tutte le partite che coinvolgono la nazionale israeliana o le sue squadre giovanili. 

La partita tra Israele e Svizzera (che fungeva da qualificazione per gli Europei 2024) è in attesa di una nuova data, proprio come il match tra Israele e Kosovo, che è stato rinviato

Oltre alle partite della nazionale senior, la UEFA ha rinviato anche le partite Under 21 di Israele contro l’Estonia e la Germania, oltre ad aver annullato un torneo Under 17 che avrebbe dovuto vedere Israele scontrarsi con il Belgio, Gibilterra e Galles.

E sono tantissime le testimonianze di giocatori o allenatori che sono bloccati in Israele a causa del conflitto. 

Potremmo citare, ad esempio, Jose Rodriguez (calciatore del Maccabi Tel Aviv) o Josep Maria Berrocal (assistente allenatore dello stesso club), che ha dichiarato: “Tutte le case qui hanno una stanza schermata e protetta. Se suona l’allarme, si ha a disposizione un minuto e mezzo per entrarci. Noi ci dormiamo. È scioccante sentire i missili. La cosa più straziante sono le domande che fanno i miei figli. Mi chiedono se ci saranno altre sparatorie o dove andremo se la guerra porterà alla distruzione della nostra casa”.

Ma c’è un caso in particolare, che ha sconvolto tutti. Ed è il caso di Lior Assulin

L’ex calciatore stava festeggiando il suo 43° compleanno in una zona del sud dell’Israele, quando Hamas ha attaccato il centro commerciale in cui si trovava, uccidendo in pochi secondi lui e un numero elevatissimo di altre persone presenti. L’Hapoel Tel Aviv, il team per cui giocava, ha confermato la tragica notizia.

La Major League Baseball ha rilasciato una dichiarazione lunedì scorso, affermando di essere “inorridita” dagli atti di terrorismo commessi contro il popolo di Israele, che hanno portato via così tante vite.

Anche la squadra di football americano dei New York Jets ha dichiarato di stare “dalla parte del popolo di Israele”.

Ma la prima organizzazione a muoversi è stata proprio l’Euroleague Basketball. 

Tramite una comunicazione ufficiale, l’organizzazione ha annunciato il rinvio di due partite. Infatti, il match di Eurocup BKT tra Hapoel Shlomo Tel Aviv e Wolves Vinius è ancora in attesa di una nuova data, proprio come è stata sospesa anche la partita di Eurolega tra Emporio Armani Milano e Maccabi Tel Aviv Basket

I giocatori del Maccabi Tel Aviv Basket sono stati trasferiti a Cipro. Sono stati i giocatori stranieri a dirigersi per primi verso l’isola del Mediterraneo, mentre gli israeliani li hanno seguiti una volta garantita la sicurezza delle loro famiglie. L’Eurolega sta ancora valutando la possibilità di farli competere sull’isola. 

D’altro canto, non manca il supporto anche per il lato palestinese

L’Algeria si è detta disposta ad ospitare tutte le partite che coinvolgono la nazionale di calcio palestinese, e a sostenere tutti i costi che si andranno ad aggiungere a causa della guerra.

Secondo una dichiarazione della Federazione calcistica algerina, rilasciata lunedì scorso: “Tutte le partite ufficiali e non, che coinvolgono la preparazione della squadra palestinese per la qualificazione ai Mondiali 2026 e alla Coppa asiatica 2027, saranno giocate nel nostro paese, che si assumerà anche tutti i costi associati”. 

La decisione, passata prima sotto il vaglio della Confederazione calcistica asiatica (AFC), è stata annunciata dopo una richiesta presentata alle autorità algerine da Jibril Rajoub, capo della Federazione calcistica palestinese

Diversi calciatori algerini hanno dimostrato solidarietà nei confronti dei palestinesi durante le partite della loro nazionale.

Ad esempio Riyad Mahrez ha postato una foto, che mostra lui e due suoi compagni di squadra, che tengono fieramente in mano la bandiera palestinese.

Ma l’impatto del conflitto si estende ben oltre i singoli giocatori e le singole squadre, sconvolgendo intere leghe e competizioni internazionali.

L’assenza della squadra palestinese dal torneo amichevole Merdeka Cup ha lasciato la competizione con solo tre squadre, alterando le dinamiche dell’evento e sollevando preoccupazioni per le future partecipazioni ad alti tornei. 

La natura discordante del conflitto è infatti venuta alla ribalta quando Schalke Yusuf Kabadayi ha espresso la sua solidarietà verso la Palestina sui social media. Il suo post “I stand with Palestine” è stato rapidamente accolto con una condanna da parte del suo agente, che lo ha costretto ad emettere delle scuse pubbliche

Ciò ha messo in luce le complessità affrontate dagli atleti che esprimono convinzioni politiche, specialmente se si tratta di prendere una posizione in un conflitto così sensibile e polarizzante.

Al contrario, ad esempio, Daniel Peretz non ha avuto ripercussioni per la sua dichiarazione pro-Israele dopo il recente attacco di Hamas. 

Questa evidente disparità di trattamento sottolinea la necessità di politiche coerenti, che regolino le opinioni politiche dei giocatori e che sollevino questioni cruciali riguardo la libertà di espressione nello sport. 

Israele-Palestina: la guerra dilaga, anche la NBA reagisce

La NBA ha rilasciato una breve dichiarazione a riguardo: “La NBA e la NBPA (National Basketball Player’s Association, n.d.r.) piangono la terribile perdita di vite umane in Israele, e condannano questi atti di terrorismo. Siamo al fianco del popolo di Israele e preghiamo per la pace nell’intera regione”.

Già nel 2018 la lega è stata costretta a scusarsi per aver descritto i territori palestinesi come “occupati”, cedendo alle pressioni dei politici israeliani di destra, che si opponevano a tale descrizione. 

Sebbene il Ministro dello Sport dell’epoca, l’israeliano Miri Regev, abbia rivendicato la propria vittoria per aver rimosso la descrizione dopo aver definito la Palestina come uno Stato “immaginario”, contrariamente a quanto riportato da vari media, l’espressione “territori palestinesi” era ancora un’opzione valida per la posizione dei votanti in un sondaggio per la scelta degli NBA All-Star

Deni Avdija è l’unico giocatore israeliano della NBA, che gioca per i Washington Wizards. La squadra ha infatti rilasciato una dichiarazione, che recita: “Siamo al fianco del popolo di Israele”.

Ma è stato quando LeBron James ha rilasciato una dichiarazione insieme al suo socio Maverick Carter, proprio riguardo l’attuale situazione di Israele, che i fan si sono scatenati. 

“La devastazione in Israele è tragica e inaccettabile. L’omicidio e la violenza nei confronti di persone innocenti da parte di Hamas è terrorismo” si legge nella dichiarazione congiunta pubblicata su X (sempre Twitter, per la cronaca). “La famiglia SpringHill Company invia le più sentite condoglianze a Israele e a tutta la comunità ebraica”.

Sebbene LeBron sia uno dei giocatori più amati della NBA, è il suo attivismo fuori dal campo a renderlo ancora più ammirevole per tutti i suoi fan. 

Non a caso, è diventato una voce di spicco per la giustizia sociale, avendo parlato spesso di questioni politiche e sociali

Nel 2020, ad esempio, ha contribuito a formare “More Than a Vote”, un’organizzazione no-profit che mobilita gli elettori neri e si batte contro la soppressione degli elettori. A settembre, si è recato per la prima volta in Arabia Saudita, dove ha gestito dei programmi di cura presso l’Accademia Sportiva Alazem, facilitata dalla Federazione di Basket dell’Arabia Saudita.

Di conseguenza, quando alcuni dei suoi fan hanno visto il post a sostegno di Israele, senza alcun riferimento nei confronti della Palestina, si sono agitati. 

“Quando ho visto quel post, il mio cuore è andato in frantumi. Che senso ha sostenere persone se non riescono a vedere l’ingiustizia che viene fatta al tuo popolo?” ha detto Musa Abdelaziz, un fan di LeBron. “Le persone come lui non valgono la pena di essere sostenute. Non si può lottare per un’ingiustizia e poi ignorarne completamente un’altra”. 

In tanti hanno iniziato a commentare i suoi post sia su Instagram che su X. “Non puoi essere serio, amico”, “Cancella questa roba”, “Free Palestine”, oppure “Sto vendendo le mie maglie che hanno il tuo nome”. Molti hanno fatto anche riferimento ad una sua foto in cui leggeva l’autobiografia di Malcolm X. “Quale parte dell’autobiografia di Malcolm ti ha detto che va bene sostenere l’oppressione?” hanno commentato alcuni.

Ma, dall’altro lato, che ne è dei giocatori o membri dei front office che sostengono la causa palestinese? 

“Chi sostiene i diritti dei palestinesi e si oppone all’occupazione è sempre messo in una posizione scomoda” ha dichiarato Jules Boykoff, professore presso la Pacific University in Oregon ed ex calciatore professionista.

Molti temono di essere puniti. 

Per dirne una, all’inizio di questa settimana il blogger NBA Jackson Frank, che è stato recentemente assunto da PhillyVoice per scrivere dei Philadelphia 76ers, ha risposto al post della squadra su X, che recitava: “Siamo al fianco del popolo di Israele”.

La sua risposta è stata: “Questo post fa schifo! Solidarietà alla Palestina, sempre”. 

Il giorno dopo, Frank è stato licenziato.

Secondo Danyel Reiche, professore associato della Georgetown University in Qatar, ci sono sempre stati due pesi e due misure quando si tratta di mostrare apertamente il proprio sostegno ad Israele o alla Palestina, soprattutto nel mondo dello sport.

Ha spiegato che il sostegno ad Israele è solitamente accettato. Ma il sostegno alla Palestina è sempre stato punito.

Boykoff ha spiegato che la politica è sempre stata presente nello sport, e che queste dichiarazioni dovrebbero fungere da “campane che suonano a morto” per l’errata convinzione che sport e politica non si mescolano. 

“Il fatto che le squadre sportive professionistiche sentano il bisogno di fare dichiarazioni dimostra che lo sport è politico in tutto e per tutto” sostiene. “Chiunque vi dica il contrario, probabilmente sta mungendo la vacca dello sport con entrambe le mani e vuole che lo status quo rimanga, in modo che il denaro continui a sgorgare”.

Ha spiegato che dichiararsi a favore di Israele è diverso, perché potrebbe “alienare” i fan che simpatizzano per la causa palestinese, il cui numero sta in realtà crescendo secondo i recenti sondaggi

“Dopo un decennio in cui i democratici hanno mostrato una crescente affinità verso i palestinesi, le loro simpatie in Medio Oriente sono ora più per i palestinesi che per gli israeliani, con un 49% contro il 38% percento” mostra l’ultimo sondaggio Gallup.

Conflitto israelo-palestinese: in WNBA una meta in meno per l’offseason

Ma con la situazione già precaria viene messo in secondo piano un altro problema altrettanto spinoso, se non di più. 

Attualmente, il campionato di basket femminile israeliano ha sospeso il gioco.

Alysha Clark, che ha trascorso le ultime 5 offseasons WNBA giocando in Israele, con la guerra quest’anno non potrà tornarci. 

“Lì per me è una seconda casa. Non lo so” sostiene. “Onestamente il mio istinto mi dice di non andare. Preferirei stare a casa e stare con la mia famiglia, seguire il mercato delle Las Vegas Aces e fare queste cose più tranquille”. 

Mentre la Clark e altre giocatrici stanno valutando le loro prossime mosse, le possibilità di mercato estero continuano a ridursi, tra la situazione in Israele e la guerra russo-ucraina ancora in corso. 

Durante l’ultima offseason, quasi la metà delle giocatrici della lega ha viaggiato in Israele, Australia, Turchia, Italia e circa una mezza dozzina di altri paesi per arrotondare il proprio stipendio.

Mentre è più facile per le veterane o per le ex MVP, le giocatrici più giovani stanno vivendo momenti ancora più difficili.

La rookie Leigha Brown, ad esempio, era pronta per andare in Israele il giorno prima dell’inizio del conflitto. Ed è grata di non aver ancora preso un volo per andare lì, a differenza di altre sue colleghe.

“Il mio volo era previsto per le 9:30 quel sabato mattina” ha detto. “Ero già nell’hotel dell’aeroporto, mi stavo preparando, quando il mio allenatore israeliano mi ha chiamato e mi ha detto di non partire. Ha detto che le partite sono state sospese fino a nuovo ordine. Tutta la mia famiglia era grata che non fossi partita. Voglio solo trovare un altro posto dove giocare, fare esperienza”.

Ma la Russia non sarà una valida opzione per lei. Perché dopo l’arresto di Brittney Griner nel 2022, e con la guerra contro l’Ucraina ancora in corso, la Russia è completamente fuori discussione.

Le giocatrici hanno sempre pensato a diversi fattori quando si sono trovate a decidere dove avrebbero voluto giocare, tra cui: la sicurezza, la salute, le finanze, gli obblighi familiari e la qualità della vita.

Ma ora c’è anche altro a cui pensare: la prioritization rule della WNBA. 

Dalla stagione 2024 in poi, le giocatrici con più di due anni di esperienza devono confermare alle squadre la propria presenza entro il 1° maggio, altrimenti potrebbero essere sospese per l’intera stagione.

Esistono due modi per mettere fine a una guerra: la vittoria totale di uno schieramento, o un cessate il fuoco quando se ne presentano le condizioni. Tra Hamas e Israele, è chiaro che si lavora per il secondo scenario.

I razzi di Hamas non possono sconfiggere Israele, e lo stato ebraico non ha alcun desiderio di riprendere il controllo della Striscia di Gaza e dei suoi due milioni di abitanti, un incubo per il suo esercito. Resta da capire quando arriverà il cessate il fuoco, e a quali condizioni.

Se il cessate il fuoco arriverà, sia Hamas sia Israele potranno rivendicare una vittoria. Ma niente sarà risolto, perché il silenzio delle armi non è sinonimo di pace.

Questa crisi non somiglia a nessuna di quelle che l’hanno preceduta, perché non si limita al classico conflitto tra Gaza e Israele. Non dobbiamo dimenticare gli scontri di Gerusalemme Est, dove tutto è cominciato, e soprattutto il “fronte interno” tra cittadini israeliani, ebrei e palestinesi del 1948

Queste sono ferite che non si chiuderanno con un cessate il fuoco.

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