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Golden State Warriors, ora occorre cambiare mentalità

di Mauro Manca

“It ain’t over ‘til the fat lady sings”. Il detto made in USA incontra la sua origine nella lirica, e nella sua accezione sportiva invita alla cautela diffidando appassionati e addetti ai lavori dal dare per scontato il corso di un’opera, almeno fino a quando il soprano non decide di salire sul palco. Nell’edizione 2015 delle NBA Finals tra Golden State Warriors e Cleveland Cavaliers ancora diversi atti devono andare in scena, tanti tenori in cerca di rivalsa proveranno a dare il meglio di sé prima che sia troppo tardi e la signora grassa canti per davvero. Al momento, la sensazione diffusa all’indomani di gara 3 è che questa serie stia vivendo una sorta di realtà parallela, coi menomati Cavs, dati inizialmente per spacciati al cospetto dei campioni della Western Conference, capaci di sovvertire il pronostico e portare a casa due partite su tre. Le assenze dei lungodegenti Varejao, Love e Irving, anziché abbattere la franchigia dell’Ohio paiono averne avvalorato la coesione e la forza mentale, con l’eroe che non ti aspetti incarnato nel corpo di Matthew Dellavedova, due big men generosi e operai, e dei gregari di lusso come Iman Shumpert e J.R. Smith, perfettamente calati nella parte e quanto mai funzionali al rimpasto tattico cui è stato costretto David Blatt.  Ah… e poi ci sarebbe Lebron. Con Irving KO in gara 1 il prescelto ha dovuto giocare una mole ancor più ampia di palloni, è stato costretto a prendere un maggior numero di tiri (41 punti di media finora, cifre raggiunte in una serie finale dai soli Jordan e Rick Barry) trovandosi quasi sempre ad iniziare e concludere l’azione. Non certo la sua pallacanestro ideale, ma una scelta necessaria che fino a questo momento sta pagando, energie e rotazioni al lumicino permettendo.

Steve Kerr assieme a Stephen Curry.

Steve Kerr assieme a Stephen Curry.

Lecito domandarsi se e quanto riusciranno i Cavs a resistere in queste condizioni prima che la spia della riserva si accenda, ma è superfluo aggiungere che, al di là di questo aspetto, dall’altra parte ci si aspettava decisamente qualcosina di più. Dopo una gara 1 vinta all’overtime senza convincere più di tanto, i Warriors si sono ritrovati a perdere le successive due sfide senza quasi dare la sensazione di voler lottare, assistendo inermi per larghi tratti alle imprese della banda Lebron, mettendo in mostra un calo sinistramente simile a quello visto contro i Memphis Grizzlies. Una prima spiegazione alle, al momento, non brillanti finals dei guerrieri può essere ricercata in un aspetto meramente psicologico. E’ probabile che Curry e compagni, trovandosi dinnanzi a un avversario martoriato da assenze pesanti e con una panchina eufemisticamente corta, abbiano commesso l’errore di prendere la serie quasi sottogamba, venendo così colti di sorpresa dall’inesauribile aggressività messa da Cleveland sul parquet. L’atteggiamento avversario ha generato nei Warriors un’inconscia paura di vincere, scrollata solo in parte durante l’assalto all’arma bianca nel finale di gara 3. Una situazione quasi surreale della quale hanno risentito anche gli aspetti tecnici; nella prima sfida in Ohio Bogut e Barnes sono pian piano spariti dal campo, inefficaci in attacco e troppo spesso prede della maggior energia delle controparti avversarie. Con il presidio sotto i tabelloni dell’australiano venuto meno, Kerr ha dovuto pescare dalla panca il jolly David Lee, di cui fino a quel momento si era parlato più per il contratto ingombrante che per le prestazioni. L’ala da Saint Louis ha invece messo in pratica una pallacanestro essenziale, fatta di buone decisioni e un ottimo sfruttamento del pick and roll, contribuendo incisivamente alla disperata risalita dei suoi nell’ultimo quarto e riuscendo laddove, oltre alla coppia di lunghi titolare, aveva fallito anche un nervoso Draymond Green. Sul perimetro le cose migliori si sono viste inizialmente da un solido e ambivalente Andre Iguodala (per caratteristiche quello che meglio si accoppia con Lebron), mentre gli Splash borthers, anche per merito dell’asfissiante lavoro 1vs1 di Shumpert e Dellavedova, si sono accesi solo a intermittenza. Soprattutto Steph Curry, dopo una gara 2 chiusa con percentuali apocalittiche, si è reso protagonista di una partita dai due volti: impalpabile nei primi 24 minuti e inarrestabile nel secondo tempo, andando vicinissimo negli ultimi minuti a completare la più clamorosa delle rimonte con una micidiale sequenza di triple, una più incredibile dell’altra. Steve Kerr e il suo staff avranno il compito di puntellare mentalmente lui, Thompson e il resto della compagnia nella speranza che tornino incisivi nell’arco dell’intero match, a partire dalla prossima fondamentale gara 4, crocevia della serie che per questi Warriors ha l’aria di un vero e proprio esame di maturità.

Per NBA Passion,

Mauro Manca

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