Per chi si è avvicinato alla NBA nella seconda metà degli Anni ’90, i ricordi del primo impatto con quel mondo sono indissolubilmente legati alle ‘stravaganti’ divise dell’epoca. Tra quelle che hanno lasciato maggiormente il segno ci sono certamente le maglie di Toronto Raptors e Vancouver Grizzlies, due franchigie accomunate dalle stesse origini, ma divise ben presto da destini contrapposti. Mentre a Toronto si godevano le magie di Vince Carter, i tifosi della ‘parte sbagliata’ del Canada cestistico assistevano impotenti alle tragicomiche peripezie di una delle peggiori squadre della storia.
L’idea di far confluire team canadesi in una major di matrice statunitense non era certo una novità; la National Hockey League era stata fondata proprio in Canada (a Montreal) nel 1917, e i Toronto Maple Leaf erano una delle franchigie fondatrici. Anche nel nucleo originale della BAA (Basketball Association of America, che poi diventerà NBA) c’era un squadra di Toronto: gli Huskies, che il primo novembre del 1946 disputarono quella che verrà ufficialmente riconosciuta come la prima partita della storia NBA, perdendo contro i New York Knickerbockers. L’amore tra il Canada e il basket professionistico, però, durò solamente una stagione. D’altronde, quello era lo Stato dell’hockey… Gli Huskies dichiararono bancarotta, e la NBA rimase confinata nei soli Stati Uniti per quasi cinquant’anni.
All’inizio degli Anni ’90, la lega di David Stern godeva di una popolarità mai raggiunta in precedenza. L’avvento di Magic Johnson, Larry Bird e, soprattutto, Michael Jordan aveva trasformato il basket americano in un fenomeno globale, in grado di generare una quantità stratosferica di denaro. Sempre più città chiedevano di poter avere una franchigia e, dopo Miami, Charlotte, Orlando e Minneapolis, tra il 1993 e il 1994 anche Toronto e Vancouver videro le loro richieste accettate. A portare la NBA nella British Columbia fu il proprietario dei Vancouver Canucks della NHL, Arthur Griffiths, che fece costruire un’arena da 20.000 posti (il General Motors Place) per ospitare entrambe le franchigie.
Sia per i Grizzlies (i giganteschi orsi tipici della zona), che per i Raptors (il cui nome è dovuto invece a,,, Jurassic Park!), la marcia di avvicinamento alla stagione inaugurale fu un’impervia salita. Prima la maxi-tassa di ingresso da 125 milioni di dollari (contro i soli 32,5 chiesti a Heat, Hornets, Magic e Timberwolves nel biennio 1988/89), poi la disputa sulle scommesse sportive, illegali negli USA e lecite in Canada, quindi la questione-biglietti. Per avere il via libera definitivo, infatti, le due franchigie avrebbero dovuto vendere 12.500 abbonamenti entro il 1 gennaio 1995. Visto che, a una decina di giorni dalla scadenza, i Grizzlies erano riusciti a piazzarne circa diecimila, una catena di supermercati canadese decise di acquistarne i rimanenti, per regalare a Vancouver la sua franchigia NBA.
Una volta superati i primi ostacoli di un percorso assai tortuoso, tutto era pronto per cominciare. Visto che il nome della squadra era deciso, e che era stato pure creato un sito web (prima franchigia NBA ad averne uno), il passaggio successivo era la scelta delle divise. Ecco dunque le indimenticabili maglie bianco-verde acqua, con tanto di scritta ‘su roccia’ e gigantesco grizzly raffigurato sui pantaloncini; una tenuta che resterà nella memoria collettiva ben più a lungo della squadra stessa…
Stu Jackson, già allenatore dei Knicks nel 1989/90, fu assunto come general manager, mentre l’incarico di head coach fu assegnato a Brian Winters, alla sua prima – e ultima – esperienza da capo allenatore. Con lo staff tecnico ormai completo, mancavano solo i giocatori. Il primo ad essere messo sotto contratto fu il free-agent Kevin Pritchard, oggi presidente degli Indiana Pacers, che fu però tagliato prima ancora di scendere in campo. Per formare i roster delle due nuove franchigie venne organizzato un expansion draft. In sostanza, ognuna delle altre squadre NBA doveva ‘proteggere’ otto componenti del roster; gli altri avrebbero potuto essere selezionati da Raptors e Grizzlies. Naturalmente, un sistema del genere non poteva portare in Canada chissà quali fenomeni. Gli unici giocatori di un certo rilievo (escludendo i super-veterani Byron Scott, Jerome Kersey e John Salley) rimasti a disposizione erano B.J. Armstrong (prima scelta assoluta di Toronto), uno dei protagonisti del primo three-peat dei Chicago Bulls, e Greg Anthony, specialista difensivo che passò da New York a Vancouver. Tutti gli altri si rivelarono delle vere e proprie ‘meteore’ e alcuni di loro, al termine di quell’esperienza, non misero mai più piede su un parquet NBA.
Fu poi la volta del draft ‘regolare’, con i due ‘expansion team’ estromessi per regolamento dalle prime cinque chiamate. I primi a scegliere furono i Grizzlies, che con la sesta pick, subito dopo Kevin Garnett, chiamarono Bryant Reeves.
Centro di 213 cm per circa 130 chili, Reeves era cresciuto a Gans, un paesino sperduto tra i campi dell’Oklahoma che, nel 2010, contava 312 abitanti. Di fronte al suo immenso stupore nel veder passare un aeroplano in cielo, tale Byron Houston, suo compagno a Oklahoma State, gli aveva affibbiato il soprannome ‘Big Country’ (letteralmente ‘Il Grande Campagnolo’). La sua quadriennale carriera collegiale era stata impreziosita dalla memorabile cavalcata al torneo NCAA 1995, quando aveva trascinato i suoi Cowboys alle Final Four e aveva distrutto un canestro (entrando di diritto nella cultura popolare della sua piccola comunità) durante l’allenamento di preparazione alla sfida, poi persa, contro UCLA. Secondo i piani della dirigenza, ‘Big Country’ avrebbe dovuto essere il primo uomo-franchigia dei Grizzlies. La sua carriera, invece, rispecchierà alla perfezione la storia di quella squadra; un lento e inesorabile inabissamento.
L’avventura NBA dei Vancouver Grizzlies iniziò con i fuochi d’artificio; larga vittoria nella partita inaugurale a Portland, poi altro successo – all’overtime – nel debutto casalingo contro i Minnesota Timberwolves, di fronte a oltre 19 mila spettatori. Quel 2-0 iniziale, però, fu probabilmente il punto più alto della parentesi canadese della franchigia. Vancouver perse le successive 19 partite, tra cui una finita 111-62 per i San Antonio Spurs, e chiuse con il peggior record della lega: 15 vittorie e 67 sconfitte. Per quanto incredibile possa sembrare, l’anno dopo riuscì a fare ancora peggio, vincendo solo 14 partite (allora record negativo all-time). Alla luce delle prime (di tante) sconfitte, Brian Winters fu cacciato da Stu Jackson, che si auto-nominò capo-allenatore, per poi tornare dietro la scrivania al termine della disastrosa regular season.
La seconda, tragica stagione dei Vancouver Grizzlies era stata anticipata da una delle tante sliding doors che ne causarono la prematura scomparsa. Non potendo scegliere per prima a causa delle severe norme di inclusione a cui era stata sottoposta, la dirigenza aveva comunque a disposizione la terza chiamata in uno dei più ricchi draft della storia. Con Allen Iverson ormai accasatosi a Philadelphia e Marcus Camby selezionato dai ‘cugini’ Raptors, la scelta ricadde su Shareef Abdur-Rahim, stella dei Golden Bears di Berkeley. Poco da obiettare; in fondo, ‘Reef’ si rivelerà fin dall’inizio il miglior giocatore della breve e triste storia della franchigia. Cosa sarebbe successo, però, se al suo posto fosse stato chiamato Ray Allen, Steve Nash o… Kobe Bryant?
Un altro snodo cruciale per le sorti del team ebbe luogo nell’estate del 1997, quando a ‘Big Country’ Reeves fu proposta un’estensione contrattuale da 61.8 milioni di dollari in sei anni. Le sue prime stagioni erano state sicuramente positive, quella successiva sarebbe stata la migliore della sua carriera (16.3 punti, 7.9 rimbalzi di media e una gara da 41 punti contro Boston) ma, dal 1998 in avanti, i grossi problemi di peso e i continui infortuni lo porteranno a un prematuro ritiro.
Nel frattempo, l’osceno spettacolo continuava. Vancouver vinse 19 partite nel 1997/98. Un risultato tremendo, ma comunque il migliore di sempre per una franchigia che, nei suoi primi tre anni di vita, aveva fatto registrare un record di 48 vittorie e 198 sconfitte. Il poco invidiabile tabellino si aggiornò a 56-240 dopo la stagione 1998/99, ridotta a sole 50 partite per via del lockout. Il roster perse pian piano i suoi pezzi più importanti. I veterani aspettarono con ansia la scadenza del contratto per fuggire a gambe levate dal Canada, mentre i più giovani tirarono enormi sospiri di sollievo quando seppero di essere stati coinvolti in qualche trade. Tra questi ultimi, Antonio Daniels, spedito a San Antonio (e subito campione NBA con gli Spurs) appena un anno dopo essere stato scelto con la quarta chiamata al draft 1997. Nello stesso draft, poche posizioni più in basso, i Toronto Raptors selezionarono Tracy McGrady…
Ecco, il più grande problema, a Vancouver, era la mancanza di una stella, di un giocatore in grado di far entusiasmare le folle. Quello che non fu mai Shareef Abdur-Rahim, che pure era un’eccellente ala, e che non fu mai vicino ad essere Bryant Reeves. Al draft del 1998 venne scelto un grandissimo playmaker, Mike Bibby, campione NCAA con Arizona l’anno prima. Bibby, però, giocò la sua migliore pallacanestro con la maglia dei Sacramento Kings, ed era comunque un giocatore che badava più ‘al sodo’ che allo spettacolo. Per la cronaca, dopo di lui furono chiamati Paul Pierce e Dirk Nowitkzi. Soprattutto, i Raptors, ‘volto felice’ del Canada cestistico, selezionarono Vince Carter, colui che, a suon di incredibili schiacciate, li renderà la squadra più popolare della lega.
L’occasione giusta per arrivare alla tanto ambita star si presentò con il draft 1999, di cui i Grizzlies detenevano la seconda scelta assoluta. Tra i migliori prospetti di quella classe c’era Steve Francis, elettrizzante playmaker in uscita da University Of Maryland. Francis era il classico esempio di ‘fenomeno strappato alla strada’; cresciuto con altre 17 persone in un trilocale di Takoma Park, Maryland, aveva iniziato a trasportare droga all’età di dieci anni. Era stato salvato dal basket, sport dal quale si era inizialmente allontanato dopo la prematura scomparsa della madre (il padre era in carcere da tempo per rapina a mano armata). Lasciatosi alle spalle tale contesto, Francis si lasciò abbagliare dalle luci della fama e della ricchezza. Per il suo approdo nel mondo dei professionisti sperava in una cornice prestigiosa, un posto in cui il suo volto sarebbe potuto finire su tutte le copertine. In poche parole, quello che Vancouver non era.
Nelle settimane che precedettero il draft, colui che sarebbe diventato ‘Stevie Franchise’ fece chiaramente intendere di non voler giocare per i Grizzlies. Quando i Chicago Bulls chiamarono Elton Brand, lungo da Duke e altro pezzo pregiato di quella classe, la preoccupazione di Steve fu tale che il ragazzo venne sorpreso dalle telecamere a pregare, tra gli sguardi imbarazzati del suo entourage. Nel momento in cui il commissioner David Stern annunciò la scelta, Francis completò la patetica farsa con una caracollante ‘marcia funebre’ verso il palco.
L’ostracismo del giocatore nei confronti della franchigia, che aveva deciso di investire su di lui, proseguì nelle settimane successive, quando dichiarò pubblicamente di non gradire la destinazione per svariati motivi: dalle tasse alla lontananza da casa, passando per “la volontà divina”. La ‘ciliegina sulla torta’ fu un curioso episodio occorso all’aeroporto di Vancouver, dove una guardia chiese al suo agente se Steve e i suoi accompagnatori facessero parte di un gruppo rap. I Grizzlies, alla fine, si trovarono costretti ad orchestrare una trade e lo scambio, ovviamente, fu pessimo: in cambio del futuro All-Star (nonché Rookie Of The Year, a pari merito con Brand), ricevettero dagli Houston Rockets un mucchio di ‘mestieranti’ e alcune scelte future, da cui non scaturirà nessun valido giocatore.
La vicenda-Francis fu un colpo durissimo per la reputazione dell’atleta, le cui continue ‘turbolenze’ caratteriali lo porteranno fuori dalla NBA ad appena 31 anni. In ogni sua apparizione a Vancouver, da avversario, fu accolto dai tifosi – mai così accalorati, durante l’epopea dei Grizzlies – con urla, fischi e cartelloni, tra cui spiccò un memorabile “Segretamente, nemmeno tua nonna ti sopporta”. Ancor di più, fu una mazzata devastante per la credibilità della franchigia, seccamente e apertamente rifiutata da un giovane talento.
La fine dell’avventura era sempre più vicina. La stagione 1999/2000 fu un altro disastro; sconfitte a non finire (60 in 82 partite), un vorticoso avvicendamento tra allenatori e un netto calo dell’affluenza al General Motors Place. Nel frattempo, la proprietà era passata più volte di mano. Griffiths aveva ceduto parte delle sue quote a tale John McCaw nel 1995, all’inizio dell’avventura. Quando fu chiaro che l’entusiasmo verso la giovane franchigia non sarebbe mai esploso e che gli introiti non avrebbero mai raggiunto i livelli auspicati, McCaw mise i Vancouver Grizzlies sul mercato. Il primo a farsi avanti fu Bill Laurie, già owner dei St. Louis Blues nella NHL, che dichiarò l’intenzione di trasferire i Grizzlies nel Missouri, già teatro delle ‘leggendarie’ gesta degli Spirits negli Anni ‘70. Al rifiuto della NBA, la franchigia venne invece venduta a Michael Heisley, businessman di Chicago. Inizialmente, Heisley assicurò che la squadra sarebbe rimasta a Vancouver; poco dopo, come da prassi non scritta in questi casi, avviò le procedure per il ricollocamento a Memphis. Guai, però, ad accomunare l’addio dei Grizzlies a Vancouver a quello dei SuperSonics a Seattle nel 2008, accompagnato da una sommossa popolare e le cui polemiche non si sono mai sopite del tutto. La stagione di congedo del team dal Canada occidentale, oltre ad essere l’ennesima disfatta sportiva (23-59 il record finale), fu seguita con una ‘serena rassegnazione’ dal pubblico di casa, quello che avrebbe comunque continuato ad infiammare le partite di hockey dei Canucks. L’ultima apparizione casalinga fu, ironia della sorte, contro gli Houston Rockets di Steve Francis, il 14 aprile 2001. E naturalmente fu una sconfitta (oltretutto subita in rimonta, dopo aver toccato anche il +19), nonostante i 24 punti di ‘Reef’ e i 18 assist di Bibby. Oltre che dalle solite manifestazioni di disprezzo nei confronti del numero 3 avversario, la cornice della gara fu caratterizzata dai malinconici messaggi d’addio alla squadra, tra cui meritano una menzione “100 vittorie sono meglio che nessuna. Grazie Grizz” e soprattutto il laconico “Thanks for the worst team ever”, che non ha bisogno di traduzioni o spiegazioni. Dopo la curiosa vittoria sul campo dei Golden State Warriors (con uno Shareef da 28 punti e 22 rimbalzi), i Vancouver Grizzlies sparirono per sempre.
Finiva così la saga di una franchigia capace, in sei anni di vita, di perdere 359 partite e vincerne solo 101 (che comunque sono meglio di niente, come ricordavano i fan), di non vedere nemmeno col binocolo i playoff e di non regalare ai tifosi neanche l’ombra di un All-Star (Abdur-Rahim lo diventerà più tardi, con gli Atlanta Hawks). La città, che dopo l’addio dei Grizzlies attraversò un periodo di rapida crescita economica e culturale, non rimpianse mai quella squadra. Mai una protesta per la relocation, mai una commemorazione per quegli sventurati ‘pionieri’. Addirittura, il centro di allenamento venne trasformato in un campo di battaglia per i laser game. Anche i giocatori-simbolo furono lasciati partire; Reeves si ritirò per i continui problemi alla schiena, Bibby finì a Sacramento in cambio del funambolico Jason Williams e Shareef passò agli Hawks, che come contropartita offrirono un pacchetto comprendente la terza scelta assoluta al draft 2001. In quanto alle mitiche maglie, unico vero lascito dei Vancouver Grizzlies, bè… furono abbandonate ancor prima della città. Nella stagione 2000/01, la squadra indossò una versione rimodernata delle divise, che porterà con sé a Memphis. Anche il nome, nonostante il Tennessee non fosse proprio identificato come la terra degli orsi, rimase lo stesso. Una volta giunti nella loro nuova casa, come per magia, i Grizzlies trovarono quella stella che avevano atteso per anni. La scelta ottenuta da Atlanta si tramutò in Pau Gasol, colui che scriverà i primi, lieti capitoli di una storia iniziata nel peggiore dei modi, sul ‘lato oscuro’ del Canada cestistico.
1 commento
ottimo articolo !!!