Kobe Bryant è una stella che vivrà per sempre di luce propria: un giocatore in grado di lasciare, dopo la sua prematura scomparsa, un’eredità eterna. Un modo di intendere il basket e la vita, che lo hanno reso uno dei giocatori più amati di sempre.
Mamba Mentality, una mentalità vincente al 100%, che ha formato tutta la generazione di talenti che attualmente giocano in NBA e che formerà anche le future generazioni.
Nella sua a lunga e gloriosa storia, la NBA ha visto passare migliaia di giocatori, alcuni tra questi hanno vinto, altri sono diventati delle star, altri ancora sono entrati nella Hall Of Fame, Sono ben pochi, però, quelli che sono riusciti ad imporsi come icone planetarie, espandendo la loro fama oltre i confini della lega più spettacolare al mondo,Tra questi eletti c’è senza dubbio Kobe Bryant.
Nato a Philadelphia il 23 agosto 1978 e cresciuto in Italia con il mito (o meglio, con l’ossessione) di Michael Jordan, il figlio di ‘Jellybean’ Joe è entrato a sua volta nell’Olimpo dei più grandi di sempre. In vent’anni di carriera, Kobe ha fatto innamorare della pallacanestro intere generazioni, ed è diventato l’ultimo, grande simbolo dei Los Angeles Lakers. Qualche ora fa, la franchigia californiana gli ha reso omaggio con un riconoscimento mai concesso a nessuno in precedenza, ovvero ritirando ben due numeri diversi in suo onore. Dal 18 dicembre 2017, l’ 8 e il 24 saranno appesi in eterno al soffitto dello Staples Center, ultimo teatro delle sue gesta. In questa edizione celebrativa delle NBA Jersey Stories ripercorreremo l’inimitabile carriera del Black Mamba attraverso le maglie che lo hanno accompagnato lungo due decenni che, purtroppo per noi, non torneranno mai più.
Kobe Bryant alla Lower Merion High School (1991-96)
Nel 1984, archiviata una decennale carriera NBA (tra Philadelphia, San Diego e Houston), Joe Bryant si trasferisce in Italia con la moglie, due figlie femmine e un maschietto di sei anni con un nome bizzarro: Kobe Bean. Al seguito del padre nelle diverse tappe della sua ultima avventura cestistica, il bimbo cresce tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Viene su ‘a pane e basket’, sia a causa del lavoro di papà Joe, sia per le videocassette che, puntualmente, il nonno materno spedisce dagli Stati Uniti. Mentre muove i primi passi sui campi da basket, il piccolo Kobe ammira le gesta degli ultimi Los Angeles Lakers targati ‘Showtime’ e, soprattutto, di un atleta che sta rapidamente conquistando il mondo; indossa la maglia numero 23 dei Chicago Bulls, e risponde al nome di Michael Jeffrey Jordan. Bryant Jr. è letteralmente folgorato dalle prodezze di MJ, tanto da cercare di imitarlo in qualsiasi movenza.
Chiusa ufficialmente la carriera di Joe, nel 1991 la famiglia fa ritorno in Pennsylvania, e il tredicenne Kobe viene iscritto alla Lower Merion High School. Con la maglia bianco-amaranto degli Aces, Bryant diventa una stella. Dopo aver infranto un record dopo l’altro e collezionato riconoscimenti individuali, nel 1996 trascina la squadra al titolo statale. La sua maglia numero 33 (come quello indossato dal padre al liceo) verrà ritirata dalla Lower Merion, con tanto di cerimonia sold out, il 16 dicembre 2010.
I grandi college fanno a gara per assicurarsi i suoi servigi, ma il ragazzo ha ben altre ambizioni. L’estate precedente, Kevin Garnett era stato il primo giocatore dopo vent’anni a passare direttamente dalla High School alla NBA. Visto l’indiscutibile successo dell’operazione, con ‘The Big Ticket’ che è già l’uomo-franchigia dei Minnesota Timberwolves, Kobe decide di seguirne le orme, dichiarandosi eleggibile per il draft.
Kobe Bryant ai Los Angeles Lakers con la #8 (1996-99)
La classe del 1996 verrà ricordata come una delle più ricche di sempre. Nella serata di East Rutherford vengono chiamati (tra gli altri) Allen Iverson, Stephon Marbury, Ray Allen e Steve Nash. La tredicesima scelta appartiene agli Charlotte Hornets, i quali hanno però raggiunto un accordo, nei giorni precedenti, per cederla ai Los Angeles Lakers, in cambio del centro Vlade Divac. La franchigia del North Carolina dichiarerà in seguito che tale scelta non sarebbe comunque ricaduta sul talento da Lower Merion. Anche Kobe, però, non ha mai nemmeno lontanamente considerato l’idea di giocare a Charlotte. Anzi, ha svolto diversi provini al cospetto di Jerry West, general manager dei Lakers, che è rimasto folgorato dalla sue abilità. Insomma, l’ipotesi di un trucco ben orchestrato non è mai tramontata. Fatto sta che Bryant va a indossare la maglia numero 8 (il 33, appartenuto a Kareem Abdul-Jabbar, era già appeso al soffitto del Great Western Forum) della squadra per cui dice di tifare fin da bambino, mentre West mette a segno uno dei più grande colpi della sua carriera. La cessione di Divac serve infatti ad arrivare al promettente Kobe, ma soprattutto a liberare spazio per il vero, grande botto di mercato: l’acquisizione di Shaquille O’Neal, sulla buona strada per diventare il miglior centro NBA.
I primi passi in gialloviola di Bryant non sono certo in discesa. Coccolatissimo dalla dirigenza, molto meno da allenatore e compagni. Coach Del Harris ne riconosce il talento, ma gli concede pochissimi minuti. Le guardie titolari sono infatti gli All-Star Nick ‘The Quick’ Van Exel e Eddie Jones. I compagni, dal canto loro, faticano a ‘digerire’ gli atteggiamenti da star del ragazzino, egoista e accentratore in campo, schivo e solitario fuori. Il suo anno da rookie non è un granché, ma viene impreziosito dalla vittoria allo Slam Dunk Contest (più giovane vincitore di sempre). Con il passare della stagione, però, Kobe conquista sempre più spazio nelle rotazioni. Nel 1997/98 parte come sesto uomo, sempre alle spalle dell’inamovibile Jones, ma con intenti assai bellicosi; sarà l’anno della sua deflagrazione. Le sue clamorose prestazioni lo candidano al premio di Sixth Man Of The Year (battuto da Danny Manning dei Phoenix Suns), convincono il pubblico a votarlo titolare all’All-Star Game 1998 (anche in questo caso, il più giovane di sempre) e la dirigenza a liberarsi senza rimpianti di Jones e Van Exel. Nel giro di due anni, Kobe è diventato una star.
Kobe all’All-Star Game 1998
Ecco, l’All-Star Game. L’edizione del 1998 (in cui i giocatori indossano le maglie delle rispettive franchigie; accadrà fino al 2003) segna il ‘debutto in società’ del giovane Kobe Bryant. Nemmeno ventenne, il ragazzino da “Philadelphia / Italy” (come dirà LeBron James durante un allenamento di Team USA) si presenta al cospetto degli dei del basket americano. Da una parte (tra gli altri) Shaquille O’Neal, Karl Malone, Kevin Garnett, Jason Kidd, Gary Payton e il rookie Tim Duncan, dall’altra Reggie Miller, Penny Hardaway, Grant Hill e, dulcis in fundo, Michael Jordan in persona. Per quelli che si aspettano un minimo di timore reverenziale per il faccia-a-faccia col suo idolo di sempre, Bryant ha in serbo una bella sorpresa. Sul palcoscenico del Madison Square Garden si prende ‘con le cattive’ il ruolo da protagonista; segna 18 punti (top scorer per la Western Conference), ma soprattutto tira 16 volte, con i grandi della NBA fermi a guardare. Durante l’incontro si permette addirittura di ‘cacciare via’ Karl Malone, rifiutando un suo blocco per poter giocare in isolamento. Non il modo migliore per conquistare l’affetto dei colleghi… La formazione dell’Est domina l’incontro, e il premio di MVP finisce nelle esperte mani di ‘His Airness’. Per il suo giovane allievo, però, quella partita segna l’inizio di un’inesorabile ascesa al vertice.
Kobe Braynt ai Los Angeles Lakers con la numero #8 (1999-2006)
Nonostante la presenza di una superstar affermata come Shaq e di un astro nascente come Kobe, i giovani Lakers non riescono a fare strada nell’agguerrita Western Conference di fine millennio. Prima gli Utah Jazz di Stockton e Malone, poi i San Antonio Spurs di Duncan e Robinson, si rivelano avversari troppo forti e interrompono sistematicamente la corsa ai playoff dei gialloviola.
L’anno della svolta è il 1999. Innanzitutto cambia lo stile delle maglie, con i numeri viola ‘3D’, resi celebri dalle imprese di Magic Johnson, sostituiti da quelli bianchi, già utilizzati all’epoca in cui Jerry West era in campo. Poi cambia il palazzetto, con il mitico Forum sostituito dal nuovissimo Staples Center. Soprattutto, cambia l’allenatore; in estate viene ingaggiato Phil Jackson, capace di guidare i Chicago Bulls a sei titoli NBA nel giro di otto stagioni.
Tra ‘Coach Zen’ e Kobe inizia un rapporto leggendario, caratterizzato da mille controversie. Se Jackson aveva avuto non poche difficoltà a limare lo smisurato ego di Michael Jordan, con il numero 8 l’impresa è ancora più ardua. Bryant è consapevole del suo enorme talento, ma il suo ‘esibizionismo’ va spesso oltre il consentito. I compagni continuano a non sopportarlo. A far loro da portavoce ci pensa Shaq, che lo accusa davanti a tutti di “giocare solo per le statistiche personali”. Esasperato, Jackson chiede a Jerry West di cederlo, ma la sua proposta viene prontamente declinata. I due, costretti a proseguire la loro ‘convivenza forzata’, riescono in qualche modo a entrare in sintonia. Quando ciò accade, i Lakers sono pronti a salire sul tetto del mondo.
Nel triennio 1999-2002, i gialloviola dominano incontrastati. Si portano a casa tre titoli consecutivi, spazzando via, nell’ordine, Indiana Pacers, Philadelphia 76ers e New Jersey Nets. Shaquille O’Neal è una furia incontenibile; MVP di tutte e tre le finali disputate, MVP della regular season e dell’All Star Game nel 2000. Il three-peat, però, porta anche il marchio indelebile di Kobe Bryant, indiscusso ‘secondo violino’ di una squadra comunque ricca di ottimi giocatori (tra cui Glen Rice, Robert Horry, Derek Fisher, Rick Fox e Ron Harper). Le prestazioni della giovane guardia migliorano anno dopo anno, tanto da far sorgere dubbi su chi, tra lui e Shaq, possa essere il giocatore di riferimento per il futuro.
Sì, perché la coppia più dominante della storia NBA è destinata a separarsi. Kobe è diventato ormai una superstar, e di certo non si può accontentare di essere il ‘gregario’ di Shaq. La sua missione personale è scalzare il numero 34 dal ruolo di leader del gruppo, e a tale scopo sviluppa un’etica lavorativa ai limiti del maniacale; quando non è in palestra ad allenarsi è davanti a uno schermo a studiare il prossimo avversario. O’Neal non sembra condividerne le abitudini, e per questo Bryant lo attacca ripetutamente; per lui, l’unico modo per continuare a vincere è far sì che tutti, nessuno escluso, mantengano il suo livello di intensità. Dirigenza e allenatore non possono che approvare tutto ciò, e la loro considerazione nei confronti di Kobe cresce a tal punto da spingere ‘The Diesel’ a chiedere la cessione.
A deteriorare irreversibilmente il rapporto tra i due arriva l’accusa di stupro, e il conseguente processo, che travolgono Bryant nell’estate del 2003. Kobe intima pubblicamente a Shaq di non proferire parola a riguardo con i giornalisti. In seguito, lo rimprovererà di non essergli stato vicino in quel periodo difficile. Ci sono poi le tensioni in campo: nel 2003 i Lakers vengono sconfitti dagli Spurs al secondo turno di playoff. L’anno successivo, nonostante le aggiunte dei veterani Gary Payton e Karl Malone (“sono venuti qui per me” dirà di loro Shaq), vengono travolti in finale dai sorprendenti Detroit Pistons di Larry Brown. Dopo la disfatta, con i contratti di Bryant, O’Neal e Jackson in scadenza, è tempo di prendere delle decisioni. La scelta ricade su Kobe, e Shaq è costretto a trasferirsi a Miami. La grande dinastia è finita.
All-Star Game 2003: Kobe e Michael
L’edizione del 2003 della partita delle stelle non è una delle tante. E’ quella in cui Michael Jordan, tornato in campo due anni prima dopo il suo secondo ritiro, dà l’ultimo saluto agli altri All-Star NBA. Per l’occasione, la lega ripropone le divise utilizzate nel 1985, anno del debutto di MJ in questa particolare manifestazione. L’evento della Philips Arena è pensato come una festa in onore del più grande cestista mai apparso fino a quel momento, con tanto di concerto-tributo di Mariah Carey sulle note di “Hero”.
Eppure, in tanti provano a ‘rovinare’ la celebrazione. Innanzitutto il pubblico stesso, che nelle votazioni per i quintetti gli preferisce, nel ruolo di guardia, due stelle all’apice della carriera come Allen Iverson e Vince Carter (con quest’ultimo che poi cederà – malvolentieri – il suo posto al ‘festeggiato’). Poi Kevin Garnett, autore di una prestazione mostruosa coronata con il premio di MVP. Soprattutto, a fare da ‘guastafeste’ ci pensa il buon Kobe.
Arrivato alla sesta apparizione consecutiva, oltretutto come giocatore più votato in assoluto, Bryant decide di combinarne una piuttosto grossa al suo grande ispiratore. A pochi secondi dalla chiusura del primo overtime (sì, all’epoca queste sfide erano decisamente più combattute), infatti, Jordan rompe l’equilibrio con quello che sembra il canestro della vittoria; jumper da lato corto, pubblico in delirio e un finale degno della migliore sceneggiatura. Invece, il lieto fine viene cancellato dal numero 8 della squadra rossa, che subisce fallo da Jermaine O’Neal e segna due dei tre tiri liberi concessi. Nuova parità, altro overtime, show di Garnett e vittoria alla Western Conference. Come cantavano i Negrita: “Qui non è Hollywood”…
Kobe Bryant con laThrowback uniforms
Negli anni di passaggio tra l’era-Champion (Anni ’90) e l’era-Adidas (2006), la sponsorizzazione tecnica delle maglie NBA è controllata da Nike, Starter e Reebok. Le aggressive strategie di marketing dei tre brand danno il via ad un’autentica esplosione di nuove divise. Se alla fine del vecchio millennio erano comparse le prime versioni Alternate (quelle nere dei Bulls, ad esempio), i primi anni del 2000 vedono fiorire le edizioni celebrative, altresì dette “Throwback”. Quali migliori testimonial dei Los Angeles Lakers, che in quegli anni dominano incontrastati sulla lega?
Nell’ultimo periodo del ‘Rinascimento gialloviola’, Kobe Bryant e compagni indossano una serie di maglie che rendono omaggio alla storia della franchigia. Ecco allora le maglie azzurro chiaro dei Minneapolis Lakers (quelle indossate anche, di recente, da Lonzo Ball e compagni), trascinati dal grande George Mikan a cinque titoli in sei stagioni negli Anni ’50. Oppure le splendide divise bianco-blu dei primi Lakers targati Los Angeles, quelli di Elgin Baylor e Jerry West, condannati al frustrante ruolo di ‘eterni secondi’ dai Boston Celtics di Bill Russell nei Favolosi Anni Sessanta.
Los Angeles Lakers #8 Alternate (22/01/2006)
Inaugurata nella stagione 2000/01, la maglia bianca dei Lakers viene consegnata alla Storia il 22 gennaio 2006, quando Kobe la indossa nella gara casalinga contro i Toronto Raptors.
Shaq se n’è andato ormai da un pezzo, e a fine stagione alzerà al cielo il suo quarto Larry O’Brien Trophy al fianco di Dwyane Wade. I Lakers sono ormai a tutti gli effetti la squadra di Kobe Bryant. Dopo l’addio del grande compagno / rivale, il numero 8 dà vita ad un vero e proprio one-man-show. Le sue statistiche aumentano vertiginosamente, ma i risultati tardano ad arrivare. Nel 2005, L.A. manca l’accesso ai playoff per la prima volta in dieci anni. La stagione successiva, che vede il ritorno in panchina di Phil Jackson (l’anno prima si erano avvicendati Rudy Tomjanovich e l’assistente Frank Hamblen), è quella in cui Kobe fa registrare le migliori cifre della sua carriera. Chiude con 35.4 punti di media (miglior marcatore stagionale) e con 27 partite oltre i 40 segnati. Il 20 dicembre ne mette 62 – in tre quarti di gara – contro i Dallas Mavericks (che alla fine del terzo quarto ne avevano totalizzati… 61), ma la notte da tramandare ai posteri deve ancora arrivare.
Eccoci dunque al 22 gennaio. Allo Staples Center, Lakers e Raptors si affrontano in una sfida non certo imperdibile, sulla carta. Se i californiani sono una formazione mediocre, i canadesi sono terribili. Basti pensare che, al termine della stagione, si aggiudicheranno la possibilità di scegliere Andrea Bargnani con la prima chiamata assoluta al draft. Alla fine del primo tempo, i gialloviola sono sotto di 14 punti, ma Kobe sembra in serata (26 a referto). Nel secondo tempo, qualcuno comincia ad accorgersi di assistere a qualcosa di speciale. 27 punti nel terzo periodo, 28 nel quarto: in totale fanno 81, seconda miglior prestazione di sempre dietro ai mitici 100 di Wilt Chamberlain nel 1962. I Lakers vincono in rimonta, e coach Jackson, dopo aver giustamente elogiato la sua star, dichiara: “Non è esattamente il modo in cui vorresti che la tua squadra vincesse una partita…”.
Kobe Bryant ai Los Angeles Lakers con la #24 (2006-2016)
La stagione 2006/07 porta con sé una novità che lascia un po’ disorientati i fan di tutto il mondo; Kobe Bryant si presenta al training camp senza lo storico numero 8, con cui ha scritto pagine indelebili nella storia della franchigia. Al suo posto, sulla maglia gialloviola compare il 24. Parte subito una serie di speculazioni riguardo a questa scelta; per qualcuno “è uno in più di 23, il numero di Jordan”, per altri sta a indicare la sua dedizione “24 ore al giorno” al mestiere. La spiegazione più verosimile, però, è che il 24 era il primo numero indossato da Kobe alla Lower Merion High School, prima di passare al 33.
Cambia la scritta sulla maglia, ma non cambiano le stratosferiche prestazioni del fenomeno dei Lakers. L’apice di quella stagione è l’impressionante striscia da 65, 50, 60 e 50 punti fatta registrare tra il 16 e il 23 marzo. Ormai Bryant è unanimemente considerato il più grande giocatore al mondo. Ciò nonostante, il premio di MVP continua a sfuggirgli (nel 2005 e nel 2006 va a Steve Nash, mentre nel 2007 a Dirk Nowitzki) e la squadra, seppur in crescita, viene eliminata dai Phoenix Suns di Mike D’Antoni per due anni di fila.
I continui insuccessi e le scarse prospettive di rilancio spingono Kobe a un passo dall’addio, con le altre 29 franchigie pronte a fare follie per aggiudicarselo. Dirigenza e allenatore riescono però a convincerlo a restare, assicurandogli che presto arriveranno i rinforzi che chiede. La chiave di volta si chiama Pau Gasol, talentuoso lungo spagnolo, che viene prelevato dai Memphis Grizzlies a stagione in corso. Con lui a completare un quintetto che può già contare su Derek Fisher, Kobe Bryant, Lamar Odom e Andrew Bynum, i gialloviola si trasformano in una vera e propria corazzata. Trascinata da un Bryant finalmente MVP, la truppa-Jackson torna alle finali NBA, ma viene sconfitta, in una serie dal forte sapore storico, dai Boston Celtics targati Rivers-Pierce-Garnett-Allen-Rondo. Ormai, però, la squadra è tornata a grandi livelli. Nel biennio successivo, colui che ora si fa chiamare ‘Black Mamba’ consacra la seconda parte della sua carriera con due titoli e altrettanti trofei di Finals MVP. Il suo quarto anello arriva contro i sorprendenti Orlando Magic di Stan Van Gundy e Dwight Howard, mentre il quinto, quello più bello a suo dire, viene vinto al termine di una leggendaria gara-7 contro gli avversari di sempre, i Celtics.
Kobe e il Redeem Team nel 2008
Dopo l’incoronazione a MVP e la batosta subita alle NBA Finals 2008, Kobe viene nominato capitano della spedizione olimpica americana ai Giochi di Pechino. La strada della star dei Lakers e quella di Team USA hanno impiegato ben dodici anni per incontrarsi. Nel 2000, Bryant aveva declinato l’invito per Sydney causa matrimonio. Due anni più tardi, l’allarme sicurezza destato dagli attentati dell’11 settembre aveva fatto desistere i top player NBA dal partecipare al Campionato dei Mondo, di scena a Indianapolis (solo l’idolo di casa, Reggie Miller, aveva risposto “presente” alla chiamata). Poi sono arrivate delle piccole operazioni estive (spalla e ginocchio) e, soprattutto, il processo in Colorado, a tenere impegnato Kobe su altri fronti. Il suo debutto con la maglia della Nazionale avviene ai Campionati Americani del 2007, quando la squadra di coach Mike Krzyzewski demolisce un avversario dopo l’altro, vince la medaglia d’oro e si assicura un posto a Pechino.
Quello che si presenta in Cina viene subito ribattezzato ‘Redeem Team’, ovvero ‘la squadra della redenzione”. La USA Basketball, infatti, è reduce dalle cocenti delusioni di Indianapolis 2002 (imbarazzante sesto posto) e Atene 2004 (Olimpiade aperta con una sconfitta contro Porto Rico e chiusa con una ‘inaccettabile’ medaglia di bronzo), ed è decisa più che mai a riscattare quelle pessime figure. Per l’occasione, ‘Coach K’ ha a disposizione un roster stellare. Oltre a capitan Kobe ci sono, tra gli altri, LeBron James, Carmelo Anthony, Dwyane Wade, Chris Bosh, Dwight Howard, Chris Paul, Jason Kidd e Deron Williams. Con un cast del genere, perlopiù motivato a dovere (“Sarà oro, oppure fallimento” dichiara alla stampa King James), per Team USA è impossibile sbagliare. Dopo aver chiuso il girone eliminatorio a punteggio pieno, con uno scarto medio di 32.4 punti, la corsa alla medaglia d’oro è quasi una formalità.
Kobe Bryant all’All-Star Game 2009
Su diciotto selezioni per l’All-Star Game, Kobe Bryant viene eletto MVP quattro volte. L’occasione più memorabile è senza dubbio quella del 2009, tenutasi a Phoenix. Non tanto per la partita in sé, vinta piuttosto agevolmente dalla formazione dell’Ovest (146 a 119; sì, la competitività dell’evento stava già calando drasticamente), quanto perché insieme a Bryant viene nominato co-MVP… Shaquille O’Neal!
Se la presenza all’evento del Black Mamba era pressoché scontata (MVP in carica e giocatore più votato per la Western Conference), non si può dire altrettanto per ‘The Big Cactus’ (ennesimo soprannome auto-affibbiatosi, stavolta dovuto al fatto che Shaq giochi in Arizona). O’Neal non è più il dominatore di inizio millennio, e i numerosi acciacchi stanno segnando l’inizio del suo inevitabile declino. Tuttavia, il suo trasferimento da Miami a Phoenix gli regala una seconda giovinezza. Anche grazie al rinomato staff medico dei Suns, capace di fargli recuperare un buon livello di forma, il numero 32 si rivela una risorsa fondamentale per la versione del ‘7 seconds or less’ targata Alvin Gentry (al contrario, i rapporti tra il suo predecessore, Mike D’Antoni, e Shaq non erano mai decollati). La sua performance alla partita delle stelle non è forse la migliore tra quelle dei suoi (il compagno Amar’e Stoudemire e Chris Paul avrebbero delle argomentazioni più che sufficienti a riguardo), ma alcuni dei suoi 17 punti arrivano nei momenti decisivi, e i ‘grandi burattinai’ della lega non si lasciano sfuggire un’occasione così ghiotta. I due ex rivali, che ormai da tempo hanno disteso i rapporti, sorridono divertiti mentre fingono di contendersi il trofeo.
Kobe Bryant con il Team USA 2012
A vent’anni di distanza dall’estate del Dream Team, la USA Basketball assembla un’altra squadra da sogno per affrontare le Olimpiadi di Londra. Il grande anniversario viene celebrato anche con una tappa di preparazione a Barcellona, teatro delle gesta della più grande formazione di tutti i tempi. Inevitabilmente e incontrollatamente, da ogni dove giungono tentativi di paragone tra le due corazzate. Se nel 1992 i capitani erano Michael Jordan, Magic Johnson e Larry Bird, due decenni dopo è la volta di LeBron James (reduce dal primo titolo in carriera), Kevin Durant (suo avversario in finale) e Kobe Bryant. Lo stesso Mamba si diverte a provocare Jordan, asserendo che l’età media più ‘verde’ del Team USA 2012 (in effetti, i Magic e Bird visti in Spagna erano a fine carriera) farebbe pendere l’ago della bilancia – in un’ipotetica sfida – dalla sua parte.
Seppur non iconica come l’inimitabile truppa allenata da Chuck Daly e, oltretutto, priva degli infortunati Derrick Rose, Dwyane Wade, Blake Griffin e Dwight Howard, quella di Coach K è certamente una delle migliori Nazionali di sempre. Oltre ai tre capitani ci sono stelle all’apice della carriera come Carmelo Anthony (che contro la Nigeria, in soli 14 minuti, infrange a suon di triple – ben 10 – il record assoluto di punti, 37), Chris Paul e Kevin Love e coloro che domineranno la NBA negli anni a venire: Russell Westbrook, James Harden e Anthony Davis, fresco di titolo NCAA e prima chiamata assoluta al draft.
Per la questione medaglia d’oro, non c’è ovviamente storia; otto vittorie e zero sconfitte, avversari asfaltati con uno scarto medio pressoché identico a quello degli illustri predecessori (32 punti). L’unica partita minimamente combattuta è la finale contro la Spagna, guidata da un indomabile Pau Gasol (24 punti). Dall’altra parte, i 30 di Durant (che si ripeterà, quattro anni dopo, contro la Serbia), permettono agli USA di salire sul gradino più alto del podio. Con il secondo oro olimpico al collo, Kobe Bryant dice addio alla Nazionale.
La Hollywood Nights numero 24 (2013/14)
La bellissima divisa nera presentata dai Lakers nella stagione 2013/14 verrà indossata da Kobe… soltanto davanti ai fotografi.
L’annata precedente era stata ‘apocalittica’ per i gialloviola. Nell’estate che vedeva Bryant impegnato a Londra, la dirigenza aveva messo a segno due clamorosi colpi di mercato: prima era arrivato Steve Nash, anima e corpo dei Phoenix Suns, poi Dwight Howard, il centro più dominante della sua generazione. Unendo questi due fuoriclasse a Kobe, Gasol e Metta World Peace (un tempo conosciuto come Ron Artest), L.A., dopo due precoci eliminazioni ai playoff consecutive, si imponeva come principale favorita per il titolo NBA, magari dopo un’attesissima serie finale tra Kobe e LeBron, i due migliori cestisti viventi.
Invece, tutto era andato per il verso sbagliato. Bryant e Howard erano presto entrati in conflitto, con il primo che accusava il secondo di poco attaccamento alla causa (scarsa intensità e recuperi troppo lenti dai vari problemi fisici) e ‘Superman’ che era arrivato addirittura a chiedere la cessione del Black Mamba. Una lunga sequela di infortuni aveva fatto sì che il quintetto titolare giocasse insieme solo una manciata di partite. Con i risultati che tardavano ad arrivare, coach Mike Brown era stato silurato e sostituito prima dall’assistente Bernie Bickerstaff, poi da Mike D’Antoni, capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato. L’unico elemento del quintetto stabilmente in salute era Kobe Bryant, trasformato da D’Antoni (già con lui a Londra 2012) in un giocatore sempre più completo e ‘altruista’ (6.3 assist di media a fine stagione, miglior dato in carriera). Con gli illustri compagni spesso ai box, il numero 24 era quasi sempre in campo. Sul finire della stagione, però, l’eccessivo sovrautilizzo aveva finito per costare caro. Il 12 aprile 2013, nel corso della partita contro gli emergenti Golden State Warriors, il tendine d’Achille di Kobe era saltato. Guai a immaginarsi urla e pianti; senza fare una piega, il Mamba aveva segnato dalla lunetta i punti numero 33 e 34 della sua gara, poi era uscito con le sue gambe. Arrivato proprio alla vigilia dei playoff (conquistati dai Lakers in extremis), l’infortunio di Kobe era stata la ‘mazzata’ definitiva su quella maledetta stagione. 4-0 Spurs al primo turno, sogni di gloria finiti.
Eccoci dunque a quella maglia nera mostrata alla stampa, ma mai indossata in campo. Howard ha cambiato aria, scegliendo James Harden e gli Houston Rockets. Los Angeles è a caccia di riscatto ma, almeno inizialmente, non può contare sul convalescente capitano. Bryant recupera con una velocità impensabile, e l’8 dicembre 2013 si ripresenta sul parquet contro i Toronto Raptors. La troppa fretta, però si rivela fatale; dopo sole sei partite un altro infortunio, stavolta alla tibia, lo mette definitivamente fuori uso. Per i Lakers, senza di lui, si apre l’abisso.
Los Angeles Lakers #24 Hollywood Nights Sleeve Edition (2014-2016)
Per la stagione 2014/15, la Adidas e i Lakers hanno in serbo alcuni cambiamenti di stile. L’azienda tedesca decide di spostare il logo NBA sul retro delle maglie (mossa apripista per il futuro avvento degli sponsor), mentre la franchigia accoglie con (immotivato) entusiasmo l’idea di aggiungere le maniche alla divisa nera. Al di là delle questioni estetiche, questa maglia accompagnerà Kobe e i Lakers lungo un triste declino.
Il Mamba si presenta puntualmente alla partenza della nuova regular season, fresco di un criticatissimo rinnovo biennale da quasi 50 milioni di dollari. Gioca 35 partite in condizioni fisiche piuttosto precarie (con dolori a ginocchia, schiena, piedi e, ovviamente, tendine d’Achille), tanto che il nuovo allenatore, Byron Scott, ne limita parecchio il minutaggio. Il 14 dicembre 2014, Bryant compie un passo leggendario, superando il ‘maestro’ Michael Jordan al terzo posto nella classifica dei migliori realizzatori di sempre (dietro agli irraggiungibili Kareem Abdul-Jabbar e Karl Malone). Il 21 gennaio 2015, Kobe va a schiacciare in testa alla difesa dei New Orleans Pelicans. Nell’eseguire il movimento, però, la spalla destra cede. Continua a giocare utilizzando solo il braccio sinistro, ma presto capisce che il problema è grave. E’ costretto a operarsi, chiudendo prematuramente un’altra stagione.
Relegato a bordocampo, Bryant assiste impotente alla peggiore versione dei Lakers che si ricordi. I gialloviola chiudono sia il 2014 che il 2015 al penultimo posto della Western Conference. Per quanto incredibile possa sembrare, riusciranno a fare ancora peggio l’anno successivo…
Kobe Bryant nel Christmas Day (25/12/2015)
Kobe rimette piede in campo nella opening night della sua ventesima stagione NBA con la stessa squadra (record ogni epoca, poi eguagliato da Dirk Nowitzki nel 2017/18). Le prime partite mostrano un Bryant molto lontano dai tempi migliori. Ancora in condizioni fisiche non ottimali e con pessime percentuali al tiro (contro Golden State segna un solo canestro dal campo su quattordici tentativi, per un totale di quattro punti), esprime più volte la sua frustrazione anche davanti ai giornalisti.
Il 29 novembre 2015, il sito The Players’ Tribune pubblica una lettera, firmata dal Mamba in persona, che scuote il mondo dello sport (e non solo). Si intitola “Dear Basketball”, e annuncia la sua decisione di ritirarsi al termine della stagione. Da quel momento i fan di tutto il mondo, non solo i tifosi dei Lakers, si stringono attorno a lui in un virtuale abbraccio collettivo. Mentre i gialloviola vanno a fondo (finiranno ULTIMI ad Ovest), Kobe Bryant viene accolto in tutte le arene americane da folle in delirio e video celebrativi in quello che viene presto ribattezzato Farewell Tour.
Il calendario della stagione prevede il ‘derby’ natalizio contro i Los Angeles Clippers. Tra le mille vicissitudini delle ultime, travagliate stagioni, il numero 24 è solamente alla seconda apparizione natalizia da quando la lega ha adottato delle divise speciali per l’occasione. Nel 2012 aveva indossato una (non azzeccatissima) maglia ‘total white’ per la sfida contro i New York Knicks dell’amico Carmelo Anthony. Per l’edizione 2015, invece, Adidas raddrizza il tiro, proponendo una bella versione bianca con caratteri viola in corsivo. L’ultimo Natale NBA di Kobe lo vede di fronte a Chris Paul. Qualche anno prima (dicembre 2011), le strade di Kobe e CP3 erano state a un passo dall’incrociarsi. La dirigenza gialloviola aveva infatti imbastito una trade con i New Orleans Hornets per trasferire il loro playmaker in California, in un affare che prevedeva il passaggio di Lamar Odom nella ‘Big Easy’ e di Pau Gasol a Houston. L’entusiasmo di squadra e tifosi era però stato smorzato dalla NBA, all’epoca proprietaria della franchigia della Louisiana (in attesa di nuovi compratori). Attraverso il commissioner David Stern, la lega aveva posto il veto sull’affare, sostenendo che, per non meglio specificate “basketball reasons”, non fosse un bene per i ‘suoi’ Hornets. Paul era finito comunque a Los Angeles, ma sulla sponda Clippers, scatenando un vespaio di polemiche e ‘teorie del complotto’ mai del tutto sopite.
Kobe all’All-Star Game 2016
L’apice della stagione di commiato del Black Mamba si raggiunge a Toronto, sede di quello che sarà il suo ultimo All-Star Game. I suoi numeri e e le sue prestazioni non sarebbero probabilmente degne di convocazione ma, in casi come questo, non ci sono cifre che tengano. Per Kobe è un vero e proprio plebiscito. Viene inserito in quintetto a furor di popolo, ricevendo più voti di tutti, anche di quello Stephen Curry che, a fine stagione, sarà il primo MVP unanime della storia.
L’edizione 2016 dell’evento è per Bryant quello che era stato per Jordan nel 2003: una serata-tributo. La palla a due se la contendono lui e LeBron James, il grande avversario mai affrontato ai playoff. Con lo stesso James ingaggia più volte, durante l’incontro, sfide uno-contro-uno, e lo stesso fa con il compagno di mille battaglie Pau Gasol. Nel corso della serata, Magic Johnson e Michael Jordan gli rendono omaggio, e Kobe stesso prende il microfono per ringraziare i tifosi. Come era successo a MJ, nemmeno Bryant viene eletto MVP dell’incontro. Chiude con 10 punti e lascia il palcoscenico ad un inarrestabile Russell Westbrook, che alza il secondo trofeo consecutivo dopo aver ‘trascinato’ la Western Conference ad un roboante 196-173 (sì, ormai “liberi tutti”…). L’All-Star Game 2016 segna anche il sorpasso di LeBron, sullo stesso Kobe, nella classifica marcatori all-time della manifestazione. Per quello che può contare…
Los Angeles Lakers Kobe Bryant #24 (13/04/2016)
Il ‘Kobe Bryant Farewell Tour’, dopo aver fatto registrare il tutto esaurito in ogni arena d’America, termina ufficialmente il 13 aprile 2016. Una data che si conosceva da tempo, eppure quasi ‘temuta’ dai milioni di appassionati di basket del pianeta. I biglietti per la serata dello Staples Center, il cui parquet viene ornato per l’occasione con i numeri 8 e 24, sono ormai esauriti da mesi, e gli ultimi ad aggiudicarseli hanno dovuto sborsare cifre degne di una finale NBA. I tifosi dei Lakers, la città di Los Angeles, lo star system hollywoodiano, il mondo intero (persino Shaquille O’Neal) stretto attorno al leggendario campione per la sua festa d’addio.
Visto il personaggio in questione, l’uscita di scena del Black Mamba non poteva certo essere una tranquilla serata di gala, tra giacche, cravatte e convenevoli. L’ultimo atto dell’epopea di Kobe è una partita, e che partita. Avversari dei gialloviola, nell’ennesimo finale anticipato di stagione (gli ultimi playoff risalgono a quello sventurato 2013), sono gli Utah Jazz.. La squadra che, quando Kobe esordiva in NBA, si preparava a dominare la Western Conference trascinata da Stockton e Malone. Entrambe le formazioni hanno dovuto, presto o tardi, dire addio alle ambizioni da post-season (i Jazz sono aritmeticamente estromessi da qualche ora), ma la portata dell’evento fa sì che l’intensità sia quella delle grandi occasioni. Soprattutto per Kobe Bryant, il quale, dopo la presentazione da parte di Magic Johnson e l’ovazione del pubblico al suo ingresso, scatena l’inferno. 15 punti nel primo quarto, solo 7 nel secondo, poi altri 15 nel terzo. Nell’ultimo periodo, con la fine che si avvicina, va a scrivere un’altra pagina di storia. Ne segna 23 (the magic number), per un totale di 60. A quasi 38 anni, record di anzianità per un ‘sessantellista’. Una prestazione figlia anche dei CINQUANTA tiri dal campo presi, ma i 60 punti arrivano con una serie di canestri da Black Mamba, ad altissimo tasso di difficoltà. Triple impossibili, finte, penetrazioni e viaggi in lunetta. Giusto per ricordare al pianeta NBA quello che sta per perdersi. I Lakers vincono in rimonta, trascinati da lui; proprio come gli è sempre piaciuto fare.
Raggiunta la cifra tonda, è ora di abbandonare il palcoscenico. C’è tempo per un ultimo, commosso discorso, chiuso con le parole “Mamba out” e con il microfono lasciato sul parquet. Allora sì, che è davvero finita. Cala il sipario sulla carriera di uno dei più grandi sportivi di tutti i tempi. Magari non il più vincente, il più completo o il più iconico, ma certamente un giocatore che non si era mai visto, e che mai si rivedrà. E che ora tutti potranno ricordare ammirando quelle due maglie, numero 8 e numero 24, innalzate a eterna gloria.
Grazie di tutto Kobe Bryant, non ti dimenticheremo mai.