Il nome Golden State Warriors, ai giorni nostri, è sinonimo di eccellenza. Indica una franchigia capace di trasformarsi, grazie a una serie di impeccabili manovre dirigenziali, in una macchina da titoli e da record. Prima dell’avvento di Stephen Curry, però, la storia del club è stata ben più ricca di ombre, che di luci. Dai tempi del trasferimento da Philadelphia alla Bay Area, l’unico titolo è datato 1975, quando Rick Barry e compagni sconfissero in finale i favoritissimi Washington Bullets. Il momento di vero splendore, però, arrivò soltanto all’inizio degli Anni ’90 e durò la miseria di due stagioni, bruscamente interrotto da alcune sciagurate decisioni manageriali. Una parentesi breve e avara di successi, ma rimasta impressa a fuoco nella memoria degli appassionati, che la ricorderanno per sempre come l’era dei ‘Run TMC’.
Nell’estate del 1989, gli Warriors abbandonarono le divise raffiguranti il profilo della California, che li avevano accompagnati per due decenni. Le maglie con la scritta trasversale, recentemente celebrate da Kevin Durant e compagni, non furono l’unica novità di quella off-season. Con la quattordicesima scelta al draft fu infatti selezionato Tim Hardaway, guizzante playmaker da University of Texas at El Paso (UTEP). L’inventore del letale crossover chiamato “UTEP Two-Step” si rivelò il tassello mancante per completare una rivoluzione iniziata l’anno precedente, quando erano arrivati Mitch Richmond, guardia da Kansas State, e coach Don Nelson, che aveva preso il posto del giovane George Karl. Nelson era stato preceduto, a Oakland, dalla sua fama di grande innovatore del gioco. Negli undici anni trascorsi nella doppia veste di allenatore-general manager dei Milwaukee Bucks aveva stravolto il concetto di ‘posizioni da 1 a 5’, affidando il pallone a giocatori come Marques Johnson, prototipo della cosiddetta ‘point forward’, allontanando i lunghi dal canestro (se non togliendoli proprio dal campo) e abituando ogni atleta a ricoprire più ruoli, nel corso di una partita. A tutti gli effetti, aveva inaugurato quello small ball (all’epoca indicato proprio come ‘Nellie Ball’) che, in tempi recenti, ha portato a ripetuti trionfi i nuovi Warriors, quelli targati Steve Kerr.
La versione di fine Anni ’80 di Golden State era ben lontana da quella attuale. Una dirigenza più incline al risparmio, che alla lungimiranza, era riuscita a cedere tutti quei giocatori in grado di infiammare l’Oakland Coliseum. Il caso più recente era stato quello di Eric ‘Sleepy’ Floyd, ceduto agli Houston Rockets (insieme a Joe Barry Carroll) pochi mesi dopo aver realizzato il record di punti in un quarto di una gara playoff (29, su 51 totali, nel quarto periodo di gara-4 contro i Lakers dello ‘Showtime’). L’unica scelta davvero azzeccata, prima di Richmond e Nelson, fu la chiamata di Chris Mullin al draft del 1985. Cresciuto sui playground tra Harlem e il Bronx, uno dei pochi bianchi a frequentare quelle zone, Mullin aveva sviluppato il suo gioco alla Power Memorial Academy, scuola superiore newyorchese resa leggendaria da Lew Alcindor (oggi noto come Kareem Abdul-Jabbar) negli Anni ’60. Fu scelto dagli Warriors dopo una splendida esperienza collegiale a St. John’s University e una medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1984, vinta giocando al fianco di Michael Jordan e Patrick Ewing. La sua carriera da professionista, iniziata con seri problemi di alcolismo, ebbe una svolta con l’arrivo di Don Nelson. Il nuovo allenatore-dirigente lo aiutò sia sul campo, spostandolo da guardia tiratrice ad ala piccola, che fuori, mandandolo in riabilitazione per porre fine ai suoi guai con la bottiglia.
In quella fatidica estate del 1989, Mullin e Richmond (Rookie Of The Year nella stagione appena conclusa) erano a tutti gli effetti i leader della squadra. Le aggiunte del lituano Sarunas Marciulionis (uno dei primi europei ad avere un significativo impatto oltreoceano) e, soprattutto, di Hardaway, furono l’innesco che fece esplodere la miccia. In particolare, Tim mostrò fin da subito una grande intesa con Mitch e Chris, destinatari prediletti dei suoi lanci in campo aperto e perfetti interlocutori per gli spettacolari ‘fraseggi’ in transizione. Ben presto si ritenne necessario dare un nome a quello scoppiettante trio, che in breve tempo aveva fatto cadere ai suoi piedi il pubblico della Baia. Il San Francisco Examiner organizzò un vero e proprio ‘contest’, con i tre membri come ‘giurati’. A spuntarla fu ‘Run TMC’, ottenuto mischiando le iniziali dei loro nomi (Tim, Mitch, Chris) a quello del celebre gruppo hip-hop Run DMC.
I dettami di Don Nelson, espressi con rapidità e versatilità, ma anche con istinto e improvvisazione dai Run TMC, resero gli Warriors una vera e propria macchina da punti. Chiusero la stagione 1989/90 con la più alta media realizzativa della lega, mentre l’anno successivo furono il secondo miglior attacco. In entrambe le stagioni, però, la loro difesa fu solo la ventiseiesima NBA. Il primo anno del trio mise in evidenza il più grande difetto, fino a quel momento, del ‘Nellie Ball’: segnare tanto non significava per forza vincere. 37-45 il record finale (con 14 sconfitte nelle prime 18 partite) e playoff 1990 guardati in televisione.
Al pubblico, la carenza di risultati sembrò l’ultimo dei problemi; lo spumeggiante attacco ‘run-and-gun’ di Nelson, guidato dalle intuizioni di Hardaway e finalizzato dall’atletismo a tutto campo di Richmond e dalle mani fatate di Mullin, conquistò l’ammirazione di gran parte degli appassionati e portò il Coliseum a 41 sold out consecutivi nella stagione 1990/91. Oltre che dalle prodezze dei Run TMC, i fan della Bay Area venivano trattenuti a palazzo da una felice operazione di marketing: ogni volta che la squadra raggiungeva i 120 punti, pizza gratis per tutti. Ecco dunque, all’avvicinarsi del fatidico traguardo, innalzarsi al cielo il coro: “Pizza! Pizza!”. Considerando che, nella stagione 1990/91, gli Warriors ne misero 116 di media, è facile pensare che i loro sostenitori siano arrivati ad aprile con lo stomaco bello pieno…
Il 2 novembre 1990, nella prima gara stagionale, Golden State vinse a Denver per 162 a 158; quel punteggio rimane tuttora il più alto di sempre in una partita senza supplementari (e il terzo più elevato in assoluto). I Run TMC, nominati co-capitani da Nelson, misero a referto 72.5 punti combinati a partita, quell’anno, secondi solo al trio English-Vandeweghe-Issel (Nuggets ’82-’83) nella storia NBA (un record poi sbriciolato da Curry-Thompson-Durant nelle ultime due stagioni). Mullin, Richmond e Hardaway finirono contemporaneamente nella top-10 dei migliori realizzatori della lega. Chris e Tim, inoltre, presero parte all’All-Star Game di Charlotte.
Oltre a divertire il pubblico, gli Warriors del 1990/91 ottennero dei risultati. Il settimo piazzamento ad Ovest (44 vittorie e 38 sconfitte) non fece certo gridare al miracolo, ma permise comunque alla truppa di Don Nelson di tornare ai playoff. Al primo turno si trovarono di fronte i San Antonio Spurs, guidati da Larry Brown in panchina e da un giovane David Robinson in campo. I nero-argento si presero gara-1 grazie a una prova stratosferica del trio formato da Robinson, Rod Strickland e Willie Anderson, che chiuse con 98 punti combinati sui 130 totali. Da gara-2 in avanti, però, il palcoscenico fu tutto per i Run TMC. Golden State vinse le successive tre partite (con una gara-4 da 32 punti per Hardaway) ed eliminò i favoritissimi texani. Galvanizzati dalla rimonta, gli Warriors si presentarono carichi di aspettative al cospetto degli avversari più prestigiosi. I Los Angeles Lakers stavano regalando ai loro fan l’ultimo ‘colpo di coda’ dell’era-Showtime. Con Kareem Abdul-Jabbar ormai in pensione e Pat Riley che aveva appena lasciato il posto a Mike Dunleavy, quelli erano i Lakers di James Worthy, Byron Scott, Sam Perkins, Vlade Divac e, ovviamente, Earvin ‘Magic’ Johnson, ancora all’oscuro delle sue condizioni di salute. L’Uomo Magico ebbe un compito infame, vista l’età: cercare di contenere lo scatenato Hardaway, che infatti gli segnò in faccia 33 punti in gara-1. Ciononostante, L.A. si prese la vittoria. Nella partita successiva, Magic ebbe modo di riscattarsi, piazzandone 44, conditi da 12 rimbalzi e 9 assist. Dall’altra parte, però, al solito, grande Timmy (28 punti e 14 assist) sì unì un inarrestabile Chris Mullin, che con 41 punti regalò ai suoi il pareggio nella serie.
Tornati in California, gli Warriors organizzarono per i loro ospiti una ‘festa di benvenuto’ in grande stile. Ad accompagnare l’ingresso dei padroni di casa furono chiamati nientemeno che i Run DMC, coloro che avevano ispirato l’azzeccatissimo soprannome degli idoli locali. Tutto ciò non fece altro che motivare ulteriormente i Lakers, che espugnarono due volte Oakland e chiusero la pratica al Great Western Forum.
Sebbene i sogni di gloria fossero infranti, il futuro della franchigia appariva roseo. I tre leader, ma anche i principali ‘comprimari’ (da Marciulionis al pittoresco lungo Tom Tolbert) erano infatti nel fiore degli anni, e intorno all’ambiente c’era un entusiasmo contagioso. La dirigenza, però, riuscì a rovinare il ‘giocattolo’. La sconfitta contro i Lakers convinse la proprietà della necessità di apportare qualche modifica, per cercare di compiere il passo successivo. Nelson, che ricopriva il doppio ruolo di allenatore-executive, fu spinto a ‘smussare’ le sue convinzioni tattiche, rinunciando a uno dei tanti esterni del roster per aggiungere chili e centimetri sotto canestro. D’altronde, senza lunghi non si vince… Vero, Steve Kerr?
Al draft 1991 vennero selezionati l’ala grande Chris Gatling e il centro Victor Alexander, ma l’attenzione di Nelson era focalizzata soprattutto su un giocatore: Billy Owens. Scelto dai Sacramento Kings con la terza scelta assoluta (dietro a Larry Johnson e Kenny Anderson), Owens era stato nominato Big East Player Of The Year con la maglia di Syracuse. Ciò che maggiormente ‘intrigava’ Nelson erano le sue ottime doti da rimbalzista (8.8 di media al college), così come il fatto che potesse ricoprire almeno tre ruoli (guardia, ala piccola e ala grande). Insomma, il giocatore ideale per far incontrare il Nellie Ball e la necessità di ‘irrobustire’ la squadra. In coincidenza con l’inizio della stagione 1991/92, gli Warriors andarono all-in: Billy Owens passò a Golden State, mentre a Sacramento finirono una seconda scelta 1995, il centro di riserva Les Jepsen e… Mitch Richmond! Nelson si affrettò a dichiarare che la cessione di Richmond rappresentava la scelta più dura della sua carriera, ma ormai i giochi erano fatti. Il trio Run TMC era stato distrutto per sempre.
Inizialmente, la mossa sembrò pagare. Owens chiuse la stagione d’esordio a 14.3 punti e 8 rimbalzi di media, e fu incluso nell’All-Rookie First Team. Gli Warriors vinsero 55 partite, ben undici in più rispetto all’anno precedente, e conquistarono i playoff con il terzo miglior record a Ovest. Nonostante un grande Hardaway, un Marciulionis da 21.3 punti di media e un ottimo Billy Owens (19.3 e 8.3 rimbalzi nella serie), la banda-Nelson si arrese al primo turno ai rampanti Seattle SuperSonics di Gary Payton e Shawn Kemp.
A partire dalla stagione successiva, però, i progetti della franchigia andarono a rotoli. Mentre Mitch Richmond conquistava il primo dei suoi sei All-Star Game e si consacrava leader dei Kings (che ritireranno il numero 2 in suo onore), la sua vecchia squadra perdeva un pezzo dopo l’altro. Chris Mullin, reduce dalla leggendaria spedizione olimpica con il Dream Team, saltò gran parte della regular season per un problema al pollice, Tim Hardaway e Billy Owens si fermarono a lungo per infortuni al ginocchio, Sarunas Marciulionis giocò solo 30 partite dopo una bruttissima caduta in estate, facendo jogging, che gli procurò la rottura di una gamba e la slogatura di una caviglia. Golden State terminò la stagione senza playoff, condannata da un record 34-48 che la relegò al decimo posto nella Western Conference.
Una stagione così brutta portò comunque delle note liete. La prima indossava la maglia numero 15 e rispondeva al nome di Latrell Sprewell. Vera e propria ‘gemma nascosta’ del draft 1992, ‘Spree’ fu selezionato dagli Warriors con la ventiquattresima scelta. I numerosi infortuni dei compagni gli permisero di mettere in mostra fin da subito le sue straordinarie doti atletiche e un arsenale offensivo d’élite. Titolare in 69 delle 77 partite disputate, chiuse l’anno da matricola a 15.4 punti di media e fu inserito nel secondo quintetto All-Rookie.
L’altra ottima notizia arrivò dalla draft lottery, che regalò a Nelson e soci la terza chiamata assoluta. La scelta ricadde su Anfernee ‘Penny’ Hardaway, fenomenale guardia in uscita da University of Memphis. Gli Orlando Magic, detentori della prima scelta, avevano però messo gli occhi su Hardaway, che aveva ben impressionato durante i workout individuali e, soprattutto, poteva contare sull’approvazione di Shaquille O’Neal, che aveva ‘recitato’ con lui nel film Blue Chips. Proposero così uno scambio, che Golden State accettò prontamente: Penny si trasferì in Florida insieme a tre prime scelte future, mentre a Oakland arrivò il primo giocatore selezionato in quel draft 1993: Chris Webber.
Se Penny Hardaway, talento scintillante, sarebbe stato comunque l’ennesimo esterno del roster, Webber era a tutti gli effetti il giocatore che mancava. Lungo iper-atletico con mani da violinista e visione di gioco fuori dal comune per il ruolo; l’identikit ideale per completare il quintetto sognato da Nelson. In più, arrivava in NBA spinto da una feroce voglia di riscatto; ‘C-Webb’ era infatti reduce da due finali NCAA perse con i mitici ‘Fab Five’ di Michigan. L’ultima sconfitta era arrivata anche a causa sua: un timeout chiamato senza più averne a disposizione era costato alla sua squadra un fallo tecnico, che aveva di fatto regalato la vittoria a North Carolina.
Il 1993/94 degli Warriors non partì con i migliori auspici: ben presto, si scoprì che Hardaway e Marciulionis avrebbero dovuto saltare l’intera stagione per risolvere i problemi alle ginocchia. L’assenza di due giocatori così importanti, comunque, diede modo ai giovani talenti del post-Run TMC di esplodere definitivamente. Sprewell chiuse a 21 punti di media e conquistò l’All-Star Game, mentre Chris Webber fu eletto Rookie Of The Year. Aiutata anche dal solito Chris Mullin e da un ottimo Billy Owens, Golden State tornò ai playoff, con il sesto piazzamento a Ovest. La corsa si fermò al primo turno, per mano dei Phoenix Suns di Kevin Johnson, Dan Majerle e di uno straordinario Charles Barkley, che completò lo sweep chiudendo gara-3 con 56 punti e 14 rimbalzi.
Una sconfitta che, in ogni caso, non sembrava così dolorosa; quel gruppo, formato da giovanissime stelle e da campioni ancora all’apice della carriera come Mullin e Hardaway, aveva tutti i requisiti per sognare in grande. Come già accaduto negli anni dei Run TMC, però, gli ambiziosi progetti della franchigia andarono rapidamente in fumo. Stavolta non fu una trade a rovinare tutto (anche se Ricky Pierce e Carlos Rogers, arrivati da Seattle in cambio di Marciulionis, si rivelarono degli assoluti flop), ma una serie di divergenze tra Webber e Nelson. L’allenatore vedeva C-Webb come il centro perfetto per il suo Nellie Ball, mentre il nativo di Detroit prediligeva il ruolo di ala grande. Le discussioni tra i due si susseguirono per tutta la stagione, sfociando spesso in urla e improperi pubblici, finché le loro posizioni non divennero inconciliabili. A nulla servì l’innesto del centro Rony Seikaly, Most Improved Player con i Miami Heat nel 1990; anzi, la mossa peggiorò ulteriormente la situazione, visto che comportò il ‘sacrificio’ di Billy Owens, uno dei migliori amici del numero 4. Webber esercitò l’opzione che gli permetteva di uscire dal contratto, dopodiché accettò una sign-and-trade (rinnovo contrattuale con successivo scambio, per garantire alla vecchia squadra una contropartita) che lo spedì agli Washington Bullets, in cambio di Tom Gugliotta e tre prime scelte future. Ancora una volta, era tutto da rifare.
Al momento dell’addio di C-Webb, che era comunque rimasto ai box in attesa di ‘sbrogliare la matassa’, Golden State aveva un record di sei vittorie e una sola sconfitta; dopo lo scambio con Washington, fu il tracollo. I nuovi acquisti, Pierce e Seikaly, fecero compagnia a Chris Mullin nella lista infortunati per gran parte della stagione. Gugliotta fu prontamente ceduto ai Minnesota Timberwolves, con cui diventerà un All-Star nel 1997, in cambio del rookie Donyell Marshall, che giocò decentemente solo la prima stagione, prima di sprofondare nella mediocrità. Quando il tabellino recitò il triste bilancio di 14 vittorie e 31 sconfitte, Don Nelson rassegnò le dimissioni, sostituito da Bob Lanier. Esattamente come nel 1992/93, le uniche note liete di una stagione pessima, conclusa all’undicesimo posto nella Western Conference, furono Sprewell, All-Star per il secondo anno di fila, e l’ottenimento della prima scelta assoluta al draft. Fu selezionata un’ala grande, naturalmente. Si chiamava Joe Smith, ma verrà per sempre ricordato come colui che venne scelto prima di Antonio McDyess, Jerry Stackhouse (che però era una guardia), Rasheed Wallace e, soprattutto, Kevin Garnett…
Oltre a Smith, le novità in casa Warriors erano rappresentate da Jerome Kersey, ‘secondo violino’ di Clyde Drexler nella Portland degli Anni ’80, e B.J. Armstrong, reduce dal primo three-peat dei Chicago Bulls targati Jordan-Pippen-Jackson. Con un backcourt formato da Armstrong e dall’ormai insostituibile Sprewell, Tim Hardaway perse il posto in quintetto. Prima della trade deadline, il ‘motore’ dei Run TMC lasciò la Bay Area. Passò a Miami, dove al fianco di Alonzo Mourning diverrà il primo, grande simbolo della giovane franchigia. Ad Oakland arrivarono, in cambio, il lungo Kevin Willis e il playmaker Vernell ‘Bimbo’ Coles.
La magia degli anni d’oro dei Run TMC, però, era svanita. Lo spogliatoio, gestito dal nuovo coach Rick Adelman, era ormai distrutto. Sprewell e Kersey ebbero un feroce litigio e il primo, dando un assaggio delle sue pericolose attitudini, si presentò all’allenamento successivo brandendo una spranga e minacciando di sostituirla presto con una pistola. Seikaly, Coles, Armstrong e Harris si rivelarono buoni innesti, ma niente di più. Gli Warriors mancarono nuovamente i playoff; la consapevolezza della fine di un’epoca si fece sempre più concreta.
L’era dei Run TMC terminò ufficialmente con la stagione 1996/97, l’ultima di Chris Mullin nella Bay Area. Ancora una volta, ‘Spree’ fu l’unico motivo di soddisfazione; 24.2 punti di media (massimo in carriera) e terza convocazione all’All-Star Game. Anche Joe Smith giocò una buonissima regular season (18.7 punti e 8.5 rimbalzi a gara); per il resto, un roster sempre più vecchio (a cui venne aggiunto anche un Mark Price sul viale del tramonto) faticò enormemente a tenere il passo degli squadroni dell’Ovest. Chiusero al decimo posto la Western Conference, facendo calare definitivamente il sipario sul progetto. In estate, tutto ciò che rimaneva dell’era-Run TMC fu spazzato via; coach Adelman fu prontamente silurato e il grande capitano, Chris Mullin, fu spedito agli Indiana Pacers (in cambio di Erick Dampier e Duane Ferrell, non proprio due All-Star…). Anche le divise di quegli anni ruggenti furono abbandonate, sostituite da una versione più moderna e decisamente più ‘tamarra’, come da dettami della moda NBA dei tardi Anni ’90.
Mentre Mitch Richmond lasciava il testimone a Chris Webber (con Adelman in panchina) nei cuori dei fan di Sacramento, mentre Tim Hardaway conquistava Miami e Chris Mullin raggiungeva le Finals con Indiana, Golden State cadde in un baratro profondo, da cui uscirà solo con l’arrivo di Stephen Curry. L’ultimo atto di una saga tanto entusiasmante, quanto inconcludente, ebbe come protagonista il giocatore più entusiasmante e inconcludente di tutti: Latrell Sprewell. Il numero 15 entrò presto in conflitto con il nuovo allenatore, P.J. Carlesimo, noto per l’approccio piuttosto ‘brusco’ nei confronti dei giocatori. Il primo dicembre del 1997, Sprewell rispose malamente all’ennesimo rimprovero di Carlesimo, che decise di cacciarlo dall’allenamento. Per tutta risposta, ‘Spree’ gli si gettò al collo, tentando di strangolarlo. Allontanato a forza dai compagni uscì dalla palestra, fece qualche giro intorno alla struttura con la sua Lamborghini fiammante, quindi rientrò e colpì nuovamente il coach con una gomitata. La sua follia gli costò molto caro: la franchigia prima lo sospese per dieci partite senza stipendio, poi optò per annullare direttamente il suo contratto, dando il via a una lunga diatriba legale. Anche la NBA usò la mano pesante, squalificandolo per l’intera stagione. La sua carriera, appena agli inizi, fu gravemente compromessa. Così come furono compromesse, una volta per tutte, le ambizioni di quei Golden State Warriors.