“From Chicago.. a guard 6’3, number 1… Derrick Rose!”
–Scusate ma Derrick Rose non ha fatto l’università a Memphis?
-“Sì”.
–“E perché allora From Chicago?”
–“Perché lui è di Chicago”.
Questo scambio di battute, fittizio, potrebbe essere un’ipotetica conversazione tra un qualsiasi tifoso NBA e un qualsiasi tifoso di Chicago, non soltanto dei Bulls, tra gli anni 2008 e 2016.
In quegli anni Derrick Rose è di Chicago, o ancor di più è Chicago, se volete.
La prima scelta al draft 2008, il rookie dell’anno, la vittoria del premio MVP nel 2011 (il più giovane di sempre a vincere questo premio), l’infortunio sempre nel 2011, la campagna pubblicitaria targata Adidas probabilmente più riuscita nella storia dello sport professionistico, l’attesa spasmodica di una città per il ritorno in campo del suo eroe, i nuovi infortuni che hanno portato all’addio nell’estate 2016.
Una storia, la sua, decisamente cinematografica. È mancato il lieto fine, degno dei migliori film hollywoodiani, ma spesso sono i finali amari che elevano un film a rango di capolavoro. Una storia che è una rivisitazione del viaggio dell’eroe di Vogler, in cui non c’è la resurrezione completa, ma abbonda comunque di catarsi.
Nonostante sia rimasto praticamente altri 5 anni dopo il primo grande infortunio, quello al legamento crociato anteriore nel 2011, è stato proprio quell’episodio a cambiare la storia, a far crollare il più bel castello creato da molti appassionati di basket e a consegnare alla storia dello sport uno dei più grandi what if, una sliding doors a cui va sempre il pensiero, ogni volta che il ragazzo di Chicago mette piede oggi su un parquet. E che ancora oggi, anche a sunset boulevard già intrapreso, suscita emozione.
Un giocatore avanguardistico e allo stesso tempo quasi anacronistico. Come pochi altri.
La sua esplosione coincide con la definitiva affermazione della NBA a livello internazionale, diventandone inevitabilmente la sua icona globale. Anche per questo di Rose sappiamo già tutto, è stato scritto e riscritto sulla sua storia (un consiglio, il libro: From Chicago. La storia di Derrick Rose di Davide Piasentini, ne abbiamo parlato anche sul nostro canale Youtube).
In questo pezzo, brevemente e in modo sommario, proviamo a ipotizzare cosa sarebbe potuto succedere a livello individuale e di squadra se la storia avesse preso pieghe differenti. Se coach Tom Thibodeau a 1:34 sulla sirena di gara 1 contro i Philadelphia 76ers nei playoff 2011, a partita praticamente già vinta avesse chiamato un time-out e avesse detto “Ei Derrick, va bene così per stasera, abbiamo vinto e non serve spingere oltre”.
Derrick Rose, l’ipotetico rendimento sul piano individuale
E’ probabilmente il punto più complesso, analizzato e discusso: dove sarebbe potuto arrivare Rose? Cosa sarebbe potuto essere oggi?
Ognuno ha le sue opinioni, sicuramente. C’è chi lo mette nell’élite del gioco a prescindere e chi lo mette in una sorta di limbo dettato dalla sua scarsa propensione (di allora) al tiro da fuori e al gioco perimetrale, aggiungendo che Rose abbia cambiato il suo gioco odierno proprio in virtù degli infortuni.
Opinione di chi scrive, come spesso accade la verità sta nel mezzo.
Concentriamoci su un punto focale.
Se Stephen Curry ha in modo inequivocabile cambiato il gioco, possiamo dire che D-Rose abbia rappresentato il primo prototipo e non archetipo del nuovo concetto di point-guard. Una concentrazione del genere di velocità, ball-handling e visione di gioco non si era mai vista prima in quel ruolo. Si vedrà invece dopo, bene o male. Ad esempio un nome su tutti: Russell Westbrook.
Senza dilungarci in paragoni tra i due, che hanno la stessa età, si vedono comunque delle strutture fisiche similari che hanno fatto dell’esplosività il loro marchio di fabbrica. Con una capacità di scelta discretamente migliore di quella dell’ex OKC e con la metamorfosi del gioco, sarebbe anche Rose diventato una macchina da tripla doppia? Difficile dirlo ma non improbabile da prevederlo.
L’aspetto più discusso in questo caso è il gioco perimetrale. Per dare qualche numero e fare un piccolo confronto, nell’anno dell’MVP Rose spara 328 triple mettendone a segno 128 (33.2%). Westbrook ne mette 34 su 103 (33%). Steph Curry, con un anno di meno, nel 2010/2011 segna 151 triple su 343 (44.2%). Ovviamente non possiamo basarci su un anno, a maggior ragione di tre giocatori agli inizi della carriera, però può essere indicativo. Rose non aveva nel tiro da 3 la sua arma principale (solo il 24% dei suoi tiri era oltre l’arco) e a lungo andare la sua fisicità sarebbe fisiologicamente venuta meno.
Ci sono però tre punti fondamentali che vanno a suo favore:
- Le sue statistiche sul tiro da fuori sono in linea con le tendenze di quegli anni;
- Un giocatore così competitivo come Rose non si sarebbe mai limitato a vivere di rendita, avrebbe lavorato (come ha poi fatto per esigenza) sul gioco perimetrale e l’avrebbe probabilmente unito alle sue tendenze naturali. Non scordiamoci che aveva solo 22 anni;
- Anche non lavorando in maniera pedissequa sul tiro, la profondità delle sue altre caratteristiche avrebbe fornito un clamoroso punto di singolarità nel roster;
Sono comunque ipotesi. Del resto anche mettendo da parte il suo infortunio nel 2011, la questione fisica rimane comunque. Rose, oltre ad aver spiegato che molti medici hanno attribuito al suo eccessivo peso i suoi problemi alle ginocchia, aveva una certa noncuranza nell’usare il suo corpo, quasi come fosse un mezzo esterno. Quindi di nuovo la solita domanda: sarebbe durato? Chissà..
Detto tutto questo, non bisogna mai scordare che D-Rose a quel punto era, per tutti “too big, too strong, too fast, too good“.
A livello di squadra
È scritto ‘a livello di squadra’ ma potrebbe tranquillamente essere scritto ‘a livello Chicago Bulls’, dato che se Rose non avesse subito la rottura del legamento crociato (e gli infortuni a seguire) difficilmente avrebbe lasciato Chicago, la sua città, a meno di imprevedibili scossoni dettati da altre esigenze (vedi John Wall). La sinergia che c’era tra Rose e la città di Chicago è qualcosa che raramente si è visto nello sport contemporaneo. Forse anche di più di LeBron con Cleveland: troppo facile essere il Prescelto a 17 anni e far piombare la città ai tuoi piedi.
Rose era Chicago perché oltre a esserne uno dei suoi figli e mettere letteralmente in campo sé stesso per la squadra, non aveva vergogna di mostrare anche le sue ansie e le sue paure. Un immagine su tutti: lo straziante video che ritrae il momento in cui Rose viene a sapere dal suo agente che i Bulls hanno deciso di scambiarlo con i New York Knicks per le cosiddette due noccioline. In quel momento finisce l’era Rose nella Città del Vento e finisce il sogno di milioni di tifosi. Il ragazzo del posto non ce l’ha fatta, e non ce la farà. Con la sua faccia quasi timida ma così aggressiva nello stesso momento, vince l’MVP della stagione 2011 a 22 anni. Quella stagione i Bulls escono in finale di Conference contro i Miami Heat.
Quella squadra presentava un roster abbastanza particolare, con un centro atipico (per tanti aspetti) come Joakim Noah, un ottimo giocatore in quel sistema come Carlos Boozer e un giocatore che con Rose si elevò a rango di All-Star, Luol Deng. Difficilmente quella squadra avrebbe potuto vincere il titolo NBA, in fatto di roster, solo ad Est, era inferiore ai Miami Heat di quegli anni. Squadra anacronistica con una stella anacronistica.
Come detto sono anni di transizione per il gioco. I cambiamenti si riversano anche nella costruzione dei roster, con i Miami Heat che danno il via al trend moderno dei cosiddetti superteam.
Perciò non è improbabile pensare che per una città in attesa da anni dell’arrivo di un nuovo eroe (prima e post Jordan i Bulls hanno vissuto dei momenti, diciamo, complessi), si sarebbe investito consegnando a Rose una squadra da titolo. Senza gettare la spugna come poi è avvenuto nel 2016 (hanno della trade con i Knicks), quando né il n.1 né il resto del roster erano all’altezza.
Ma la storia, come sentiamo dire spesso, non si fa con i sé. Questo è uno dei casi in cui molte persone avrebbero fatto qualsiasi cosa per rendere un sé realtà. Ma le storie vanno anche prese, ammirate, per come si consegnano alla Storia. E anche in questo caso bisogna vedere la bellezza che c’è dietro. La sfortuna ci avrà sì privato di una grande storia di successo, ma ci ha consegnato un moderno Eddie Felson, un eroe tragico, che avremmo comunque rimpianto.