L’ovvia preoccupazione dei Boston Celtics, dopo la figuraccia rimediata contro i Cleveland Cavaliers nel primo turno dei playoffs di quest’anno, riguarda il talento. I Cavs, con un trio di stelle di prim’ordine nel roster, sono stati semplicemente superiori, tanto da rendere scontato il risultato finale della serie e mettere in ombra l’impegno nell’esecuzione dei verdi, nonché il genio strategico del loro giovane allenatore, Brad Stevens.
Dopo quella sonora sconfitta (che arrivò in un momento molto buono della squadra, che aveva chiuso le ultime 30 gare della regular season con un rispettoso 20-10), il presidente dei Celtics, Danny Ainge, aveva dichiarato: “Penso che abbiamo bisogno di aggiungere più talento al nostro team. Allo stesso tempo, comunque, sono soddisfatto di molti giocatori che abbiamo. Il problema è che non siamo allo stesso livello di franchigie come Cleveland, e dobbiamo cercare di capire il perché”.
A pochi mesi di distanza da queste parole, i Celtics si trovano in una posizione scomoda. Si potrebbe dire che, fino a questo punto, Ainge ha fatto tutto ciò che era in suo potere, riportando in post-season una squadra ricostruita da zero nel giro di poco tempo, come già avevano fatto rispettabili nomi del calibro di Sam Presti (Oklahoma City Thunder), Daryl Morey (Houston Rockets) e Danny Ferry (Atlanta Hawks, prima che i suoi commenti razzisti nei confronti di Luol Deng ne causassero la radiazione).
Ainge non ha fatto altro che prendere i pilastri restanti dell’ormai defunto Big Three, Paul Pierce e Kevin Garnett, e trasformarli in merce di scambio, con l’aspettativa che quei due “beni”, impacchettati e venduti insieme, si convertissero in un ritorno di cui Boston potesse godere nell’immediato futuro. La stessa cosa è stata fatta con i veterani Rajon Rondo e Jeff Green, lo scorso inverno. I Celtics hanno ottenuto due chiamate al primo turno del draft di quest’estate e, probabilmente, si ritroveranno con ben 8 chiamate al primo turno (e circa 10 al secondo turno) nei prossimi quattro anni.
Nel fare tutto ciò, Ainge è stato anche capace di mantenere sani i libri contabili: il presidente, infatti, già nei mesi scorsi aveva sottolineato che questa off-season sarebbe stata forse la prima nella storia della franchigia con spazio nel salary cap, certamente la prima da quando è salito in carica, ed è ben noto quanto la flessibilità economica sia cruciale nel processo di ricostruzione di ogni squadra.
Tuttavia, nonostante tutte le mosse azzeccate di Ainge (squadra giovane, buon allenatore, buona salute finanziaria), Boston ha ancora raccolto molto poco. Mentre Houston si è assicurata le prestazioni di James Harden e Dwight Howard e Oklahoma City si è aggiudicata (non senza fortuna, sia chiaro) Kevin Durant e Russell Westbrook, i Celtics sono emersi da questa calda estate di mercato con un solo nome di spicco, l’ala Amir Johnson, da affiancare a quello del non fondamentale David Lee.
Si tratta di passi avanti, sicuramente. Il problema, però, è che si tratta di due veterani che non possono caricarsi la squadra sulle spalle, investiti dell’arduo compito di mettere ordine in un gruppo di giocatori dal talento buono, ma non eccellente.
Il sogno Kevin Love è presto svanito. In sede di draft, Ainge non ha saputo offrire abbastanza per arrivare a Justise Winslow, con il risultato di aggiungere pressione su Marcus Smart, la sesta chiamata di Boston la draft del 2014, ormai quasi “costretto” a diventare una stella in tempi brevi. A rendere la situazione ancora più drammatica, c’è da aggiungere che Smart potrebbe essere davvero l’unico giocatore nell’attuale roster con le potenzialità per trasformarsi in un campione.
Questo è, in sostanza, il problema principale legato ad una ricostruzione, che molti sottovalutano: serve molta fortuna. Ciò non ha nulla a che vedere con la riluttanza di molti free agents a firmare per Boston, perché la maggior parte di questi, alla fine, spera sempre di ritornare nella stessa squadra con cui aveva firmato l’ultimo contratto. I giocatori candidati al cambio di casacca sono generalmente quelli che si rendono disponibili alla cessione (e/o che vengono ceduti) prima dell’inizio della free agency. L’ultima telenovela estiva, che ha visto protagonista DeAndre Jordan, ne è un esempio lampante.
In fin dei conti, c’è sempre bisogno che qualcosa di straordinario avvenga perché una superstar decida di andare a giocare per una determinata franchigia. Nella NBA, un general manager può anche fare tutto ciò che è nelle sue possibilità (pianificare gli scambi, le acquisizioni in free agency e quant’altro), ma non può certamente costringere giocatori come Harden o Howard a mettersi sul mercato (e nemmeno Garnett, il quale arrivò, nel 2007, soltanto grazie ad una serie di presupposti, che avrebbero permesso ai Celtics di trasformarsi immediatamente in una contender per il titolo, che sarebbe infatti arrivato l’anno successivo). Per non parlare, poi, dei buoni e giovani prospetti collegiali, adocchiati ma resi irraggiungibili dall’egual lungimiranza di GM o proprietari con scelte al draft favorevoli (Ainge non è riuscito a convincere Michael Jordan a privarsi di Frank Kaminsky, approdato agli Charlotte Hornets alla nona chiamata dell’ultimo draft).
Se sei a capo di un team NBA, tutto ciò che puoi fare è mantenere il tuo roster flessibile ed organizzare a tuo favore le future scelte al draft. Per il resto, puoi solo aspettare. E’ un po’ come la pesca: puoi avere gli ami e le esche migliori, e potresti anche lanciare in acqua la tua canna per più di mille volte, ma non significa che prenderai per forza qualcosa.
I Celtics, nel particolar caso in cui i Mavericks dovessero mantenere una posizione dalla 8 in giù nel draft del prossimo anno e i Timberwolves dovessero rientrare almeno tra le 18 migliori squadre della lega (i diritti sulle scelte sfumano se Dallas si ritrova con una scelta al draft tra la 1 e la 7, e se Minnesota si qualifica tra la 1 e la 12) potrebbero ottenere tre chiamate al primo turno al draft del 2016 (un posto è già garantito da una scelta ceduta da Brooklyn, nel 2013). Questo evento rappresenterebbe un’ulteriore occasione per Boston di migliorare il livello del proprio talento, sia che avvenga attraverso il draft o qualche trade invernale/estiva.
Sulla carta, dunque, Ainge e i Celtics stanno facendo un buon lavoro di rifondazione, ma il rischio di fallire fa parte del gioco. Ciò che serve nel Massachusetts è solo un po’ di fortuna.
Claudio Spagnuolo
Twitter: @KlausBundy
Tratto da: Sean Deveney, “Celtics’ rebuilding plan didn’t count on never getting breaks”, www.sportingnews.com