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Kevin Garnett e il moto di Rivoluzione

di Luigi Molinari
kevin garnett

Il moto di rivoluzione è quello che compie il nostro pianeta attorno alla propria stella di riferimento, il Sole. Le conseguenze generate da questo movimento sono essenzialmente due: la durata del giorno e della notte nei diversi periodi dell’anno, alle varie latitudini e l’alternarsi delle stagioni.

A innescare la rivoluzione è la volontà di raggiungere un obiettivo come fosse l’unica forza capace di tenere in vita un sistema complesso e basato su forze talvolta calcolabili, ma nella maggior parte dei casi completamente imponderabili. Per questo prima di giudicare esaminando solo i numeri è necessario osservare da molto lontano, dall’universale, per arrivare a metterci il muso completamente dentro, fino al particolare apparentemente più insignificante.

Mamma Shirley lo sa che il ragazzino ha qualcosa di speciale, lei la sa riconoscere la luce. La vede attraverso gli occhi giganteschi, più grandi delle spalle gracili e delle gambe ossute e infinite che sembrano non voler smettere di crescere, di suo figlio. La sente nella voce che sta cambiando, togliendogli le sfumature da bambino non solo nel tono, ma anche nel linguaggio che lei, morigerata e preoccupata del mondo là fuori, è costretta a bacchettare e rimbrottare di continuo. Lui non conosce la vita, non è preparato, non ha i mezzi necessari per difendersi e per farsi lasciare in pace dal destino scritto per chi è nato in South Carolina e ha un colore della pelle troppo scuro per essere mascherato, un talento impossibile da mascherare e un carattere che potrebbe diventare la causa di dolori inenarrabili per sé e per la sua famiglia.

Mauldin High è una piccola scuola di un’altrettanto piccola cittadina, e se è vero come è vero che più piccoli sono gli spazi, più è probabile una collisione, la proporzione è presto fatta. Il liceo è al centro di scontri razziali quotidiani ed è sempre “noi contro loro” a ogni occhiata, ogni parola, ogni testa a testa, che rischiano di finire in tragedia. Mamma Shirley sa che Kevin ha la possibilità di arrivare lontano, anche dove non si può neppure sognare, figuriamoci immaginarlo, ma sa ancora meglio che per innescare la rivoluzione necessaria, il primo passo deve muoverlo lei.

Serve un pretesto, però, perché Kevin è un leader naturale ed è Mr. Basketball, tutti sanno cosa fa sul campo e fuori, si parla di lui a livello statale e ora i riflettori sono sempre più grandi e sempre più impietosi. Essere così in vista, se non sei preparato, può avere conseguenze inaspettate e da numero uno, potresti ritrovarti a essere un numero e basta, magari scritto sotto una foto che ti scheda come violento e potenziale minaccia per la società, un soggetto che merita il carcere. A maggior ragione perché così in vista.

È esattamente ciò che accade.

Da Mauldin High alla Farragut Academy

Shirley sa perfettamente che Kevin non ha picchiato quel ragazzo bianco, non a scuola, non rompendogli una caviglia. Il punto è che la polizia la pensa diversamente e che per Kevin le porte del carcere si apriranno già da stasera. È vero, lui non fa niente per mascherare il suo ego, i suoi amici non sono certamente dei chierichetti del coro delle Orsoline e la sua fisicità si impone prepotente nelle questioni che nascono tra i corridoi della Mauldin High, ma stavolta c’è qualcosa di diverso, di più profondo, legato al sentimento che scorre nel sistema degli Stati del Sud, da sempre, per sempre.

La stella di Kevin Garnett deve essere oscurata, deve darsi una regolata quel “n***o” smilzo, deve abbassare la testa. Sembra di leggere una ben più nota vicenda, quella di un coetaneo di Kevin, un altro ragazzino che aveva la sua stessa luce e al quale sarebbe stata riservata una sorte ancora più devastante: Allen Iverson. I due in effetti si conoscono anche, sono stati rivali in un torneo organizzato da Nike che ha sempre l’occhio lungo su certi atleti e che ha già deciso quanto puntare su di loro. Ma Shirley non permetterà che Kevin rimanga un nome sul trafiletto della cronaca locale, né un numero in uno schedario della polizia, tantomeno un’occasione dissolta tragicamente e di cui riamane un fumoso ricordo. Il primo passo, quello definitivo, lo muove lei: paga la cauzione per rimandare l’incubo e magari cercare di non viverlo affatto, prepara i bagagli e trasferisce tutto il mondo della sua famiglia a Chicago, che non sarà certo la più tranquilla delle città in cui trovare pace perpetua, ma offre possibilità enormi, considerando che da qualche anno è il centro del mondo sportivo mondiale, grazie al più grande di sempre.

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Garnett e Pierce ai Celtics

Nel suo ultimo anno di liceo Kevin Garnett giocherà (sempre) e studierà (mai) alla Farragut Academy. A dire il vero avrebbe avuto un’alternativa molto suggestiva, scegliere di iscriversi alla Lincoln High a Coney Island, la casa di Jesus Shuttlesworth nella finzione di He Got Game, ma in realtà di proprietà di un ragazzino geneticamente “on fire” che risponde al nome di Stephon Marbury, il più piccolo della dinastia, ma quello che avrebbe portato tutti al circo di lì a qualche anno. Tornerà nella storia, comunque. KG preferisce Chicago anche per poter stare al fianco di Ronnie Fields, “The best freshman in the Country” che invece nella storia, questa almeno, non ci tornerà.

Si diploma dopo aver passato un anno che è pura poesia ed essere stato nominato per la seconda volta, in due scuole diverse, in due stati diversi, Mr. Basketball, un primato che nessuno gli ha ancora tolto, nemmeno Tim Duncan.

La rivoluzione determina la durata delle ore di sole e di buio e finora ha lavorato egregiamente, ma non basta. La scelta del college è fondamentale per proseguire il percorso educativo e formativo nella vita di un ragazzo nero con il suo vissuto e che, potenzialmente, potrebbe diventare la ragione per cui spendere tanti soldi da parte di una franchigia NBA. Quindi bisogna passare al setaccio le varie offerte recapitate a casa e che mamma Shirley esamina con minuziosa apprensione. I criteri di valutazione si basano sulla completezza del programma di studio, sulla posizione geografica dell’ateneo e sul ranking della squadra che deve necessariamente essere inserito nel circuito NCAA per completare il disegno. Tutto preciso, tanto Kevin se lo contendono metà dei coach del Paese, e l’altra metà vorrebbe poterlo guardare almeno da lontano, o no? No. C’è un problema. Il suo SAT è troppo basso. Cioè? Lo Scholastic Assessment Test valuta il percentile nel quale ciascun aspirante si posiziona, stilando un profilo del possibile candidato. Quello di KG mostra lacune profonde e praticamente incolmabili, quindi per accedere a un college di primordine deve prima affrontare un percorso di “adeguamento agli standard richiesti” frequentando un Junior College e poi, magari, tra qualche anno si vedrà.

Oppure… oppure? Ci si potrebbe dichiarare eleggibili al draft direttamente dalla high school. Ma non lo ha mai fatto nessuno dai tempi di Moses “The chairman of the boards” Malone ed era il 1974. Se la rivoluzione è mossa da una forza imponderabile, capace di sfuggire alle logiche fisiche, questa potrà dimostrarsi capace di rompere ogni schema precedente, diventando essa stessa precedente di riferimento, per maggiori informazioni citofonare a casa Bryant.

Kevin Garnett, l’esordio NBA

Il draft NBA del 1995 vede candidato Kevin Maurice “The Kid” Garnett da Farragut Academy. Alla quinta scelta assoluta i Minnesota Timberwolves scelgono di puntare sulle sue gambe esili e lunghissime, sui suoi occhi giganti, sul fisico tutto da fare, ma soprattutto sulla luce che adesso vede tutto il mondo e non solo mamma Shirley. “The Revolution” porterà sulle spalle il numero 21.

L’ingresso nella lega, per quanto fragoroso, non accende gli entusiasmi dei tifosi e della stampa, complice anche la scelta di coach Bill Blair di farlo partire dalla panchina o di farcelo restare per una larga parte del tempo, cosa che incrinerà notevolmente i rapporti tra i due, e che darà alla dirigenza dei Twolves il pretesto per avvicendare la guida tecnica dando le chiavi della palestra a coach Flip Saunders, che è ben consapevole di ciò che gli viene chiesto di fare. Nonostante la presenza a roster di Tom Gugliotta, Spud Webb, Christian Laettner e Isaiah Rider, la post-season rimane un tabù, ma si gettano le basi perché il processo di crescita avvenga in maniera rapida e non spenga l’entusiasmo di KG, costringendolo a cedere alle lusinghe di altre sirene.

Quello che non era riuscito qualche anno prima, si materializza nella sua seconda stagione: una strategia fatta di scambi e magheggi regala la scelta al draft 1996 (uno di quelli col più alto tasso di testosterone, ignoranza e talento della storia) proprio di Stephon Marbury. Il disegno è chiaro, si tratta di mettere KG nelle condizioni di tenere palla il giusto, affidandosi al playmaking di “Starbury” e di concentrare la sua esplosività sui due lati del campo. A Gugliotta il compito di portare blocchi hulkiani e di annientare (quantomeno provarci) le offensive avversarie nel pitturato. Risultati alterni. Si, ma già molto più costanti e chiari di prima. La stagione consente a Kevin e Tom di essere chiamati per l’All-Star Game e a Marbury di spargere il verbo del cemento di Coney Island infiammando i cuori di chiunque abbia una sinistra vocazione per il lato oscuro della palla a spicchi, compreso chi scrive.

Basta questo per far sì che la rivoluzione sia perpetua? Nossignore, ma almeno si va ai playoffs, per la prima volta nella storia da quando esiste di nuovo una squadra a Minneapolis, dopo il trasloco dei Lakers. Ora, il fatto che si schiantino malamente contro i Rockets è un dettaglio bello grosso, che corrisponde alla maestosità di Hakeem Olajuwon. Ma l’attenuante “The Dream” non è la sola scucchiaiata di miele capace di addolcire le ferite di KG, bisogna adagiarci sopra anche un bel bigliettone che recita “125MILIONIDIDOLLARIPERSEIANNI”. Tanto valgono la sua fedeltà alla maglia e il suo sudore copioso elargito a ogni palla a due alzata in casa e fuori. I numeri sono da leggenda, quelli del suo contratto (che diventeranno causa di malumori in tutta la Players Association fino a scatenare il lock-out nella regular season) e quelli sul campo.

Si dice che un soprannome, se te lo danno bene, sia un grande regalo. Nel caso del Nostro, quelli affibbiatigli ricalcano perfettamente le due anime della sua carriera fino a questo momento: “The Big Ticket” per tutti quelli del “perché a lui si e a me no?” e “The Franchise” per chi ha dormito indossando una maglia con un lupo grigio sul petto, sognando un Larry O’Brien Trophy.

Kevin Garnett
Kevin Garnett ai Timberwolves

Già, il titolo. Nonostante i fantacontratti e i milioni, nonostante il clamore mediatico per ogni sua uscita infelice, per ogni gesto censurabile, per ogni fallo tecnico e per tutte le altre meravigliose invenzioni che dispensa ogni sera, il titolo non arriva e non arriverà. I premi individuali si, ogni anno è candidato a qualcuno di quei riconoscimenti che non appagano più, anzi, frustrano e pesano come maledizioni, soprattutto se visti alla luce dei compensi. Ma il vero motivo per cui entrare nel Gotha ed essere ricordato come colui in grado di incarnare la rivoluzione, quella che determina il corso delle stagioni e porta la luce ed il buio, quello non può metterlo in bacheca. Dopo dodici anni passati a prepararsi per la guerra, ad ascoltare la neve, ad affilare tutte le armi, anche quelle più scorrette e maleducate, quelle capaci di tirare in mezzo chiunque con una frase sparata senza rispetto, un’allusione volgare e becera, un massacrante stillicidio al sistema nervoso di qualunque avversario (persino dell’imperscrutabile Tim Duncan), la verità che emerge è che nessuno vince da solo. Se il supporting cast (orribile didascalia) non è all’altezza della missione, e se il leader non è capace di infondere la sua stessa motivazione nel sottopelle dei compagni, anche se si chiamano Latrell Sprewell e Sam Cassell, si raccolgono solo finali di Conference perse dando tutto, troppo, ma senza avere intorno una squadra vera, focalizzata, leale, quella che spesso si sente definire come famiglia.

Un essere umano con la sua intelligenza, però, sa benissimo quando è arrivato il momento di svoltare, di rivedere i piani e di incanalare il propellente che ti fa mettere mano a tutta la riserva di energie, in un’idea che non rimanga tale ma che si concretizzi nel più breve tempo possibile. Un essere umano con la sua intelligenza, sa, inoltre, che non può esporsi mediaticamente chiedendo di andare via dalla casa che ha riempito vita e conto in banca a te e tutta la tua progenie per i secoli a venire, e alla quale devi il beneficio di una seconda occasione. Come si fa? Vai via in cambio di una vagonata di giocatori più o meno onesti lavoratori, e qualche scelta al draft, tanto per non far sentire troppo la nostalgia della post-season ai tifosi. L’unica struttura in grado di soddisfare tale elucubrazione è quella dei Boston Celtics, una contender vera, nella quale ci sono già ad aspettarlo due entità sovrannaturali: uno lo chiamano Jesus (Coney Island torna sempre) e l’altro è morto e risorto nel giro di poche ore, a seguito di un agguato all’arma bianca culminato in dodici coltellate inferte con una ferocia raccapricciante.

I Boston Celtics e il titolo NBA

La squadra stavolta c’è tutta, ambientarsi è un attimo. Anche perché il biancoverde della divisa sta bene persino a Brian Scalabrine, e vale davvero la pena rischiare persino di farsi male sul serio pur di onorare la chiamata e l’Ubuntu che coach Doc Rivers spera di inculcare nei suoi ragazzi più carismatici. La stagione regolare è uno scherzo, KG pilota Rajon Rondo solo con la voce e gli sguardi, Paul Pierce e Ray Allen giocano di sciabola e fioretto e la loro facilità di imposizione è persino snervante alle volte, per chi guarda. Figuriamoci per chi ci gioca contro. I playoffs, invece, fanno storia a sé. Per superare primo e secondo turno servono quattordici partite, roba da campagna napoleonica, e in finale di Conference c’è Detroit che molla solo alla sesta. I Big Three sono obbligati a vincere, perché le critiche sono sempre più aspre e quando c’è Garnett di mezzo non possono che essere tali. C’è chi scommette sulla loro implosione, c’è chi parla di troppi galli nel pollaio, di scarsa coesione, di progetti comuni inesistenti. Ma gli analisti più schierati non riescono a vedere che Ubuntu è già realtà, che nei Celtics nessuno vince da solo anche se sei morto e risorto. Il pugno che KG batte sul petto, l’urlo belluino che gli spalanca la bocca, lo sguardo spiritato come posseduto da un demone ancestrale, non sono più per sé stesso, ma per una famiglia. La sua. E la famiglia è quanto di più sacro abbia imparato da mamma Shirley e dalla tradizione del Sud. Nessun uomo può esimersi dal difendere la propria famiglia. Anche se in finale ci sono i cattivi per eccellenza, per maggiori informazioni citofonare a casa Bryant.

L’MVP delle Finals è “The Truth” (ricordate la storia del soprannome?), ma poco importa, perché quella che rischiava di essere solo una storia da cronaca nera locale, un ricordo fumoso nel cuore di una madre impaurita ma determinata a non assecondare il destino, adesso indossa l’anello che consente di sedersi al tavolo dei più grandi di sempre. Un vincente oltre che una luce accecante.

Gli anni di Brooklyn, una franchigia frutto di un esperimento sociale, politico ed economico, riuscito in parte (considerazione assolutamente personale, ei il ritorno ai Timberwolves per fare da mentore a Karl-Anthony Towns sono pura asserzione del suo status, quello che nel 2020 è stato universalmente riconosciuto con l’inserimento nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame.

In fondo, la rivoluzione non è altro che un ritornare al punto di partenza, ma ogni volta con una consapevolezza maggiore, quella di tenere gli obiettivi sempre in vista, di calcolare la propria traiettoria al meglio, affinché per ogni periodo di buio torni sempre la luce e per ogni inverno, per quanto siderale possa sembrare, ci sia sempre la nostra forza a guidarci verso la primavera.

Quando cominciano i Playoffs ed è tempo di dimostrare che si è pronti a battere il pugno sul petto, a spalancare le fauci e a sgranare gli occhi, per difendere la propria famiglia anche a costo di farsi male sul serio.

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