Il 23 agosto 2021 Kobe Bryant avrebbe compiuto 43 anni, e idealmente 6 di quello che dopo il ritiro dal basket giocato nel 2016 sarebbe diventato il secondo capitolo della sua vita. Quello dopo, “oltre” il parquet.
Della legacy come dicono in inglese, del lascito di Kobe Bryant al mondo del basket e dello sport si è scritto in 16 mesi di tutto e di più, dopo l’incidente aereo del 26 gennaio 2020. A testimonianza di quanto influente sia stata la sua esistenza, in campo e fuori, per così tante persone e sportivi professionisti e non al mondo, si potrebbero citare i tantissimi omaggi spontanei nati letteralmente ai 4 angoli del globo, tra campetti di strada, murales e persino nel rinominare strade e piazze, come accaduto a Reggio Emilia lo scorso gennaio e come accadrà in futuro anche a Los Angeles, davanti allo Staples Center dove giocano i Lakers, in quella che oggi si chiama (ancora) Figueroa Street.
Spontanea, quanto figlia del proprio tempo social, anche la gara innescatasi nei mesi successivi la scomparsa di Kobe Bryant tra sportivi e semplici individui ispirati dal campione, a mostrare ciascuno la propria versione della Mamba Mentality. Una disciplina di rigore sportivo che il Black Mamba si era dato sin dai tempi del liceo alla Lower Marion High School e che con gli anni si era fatto brand, anche nella seconda e purtroppo troppo breve incarnazione da life coach e genio creativo di Kobe.
Kobe Bryant su un campo da basket ha vinto tutto. Titoli NBA (5), Olimpiadi (2 ori a Pechino 2008 e Londra 2012), un premio di MVP, una lista di achievements – di traguardi e record personali e NBA – lunga pagine e pagine. Kobe Bryant, dal trono dorato da campione dello sport tra i più famosi al mondo, ci era anche caduto nel 2003. Buttato giù da un’accusa e un processo subito per stupro di una dipendente di un resort in Colorado, procedimento chiuso in sede civile e con un’ammissione di responsabilità. E con la sua cultura del lavoro unita a capacità imprenditoriali e di businessman non comuni, Kobe Bryant quel trono se lo era ripreso, tornato migliore come giocatore e persona.
Kobe Bean Bryant è probabilmente tra i 10 migliori giocatori di basket di tutti i tempi, la NBA lo inserirà nella sua lista dei 75 grandi quando per l’All-Star Game 2022 celebrerà i suoi 75 anni di vita. Abbiamo voluto parlare qui di “trono” e metafore di teste coronate per sottolineare una delle tantissime cose che Bryant ha rappresentato sui campi da basket NBA.
L’anello di congiunzione.
Da e verso chi? Federico Buffa, LA voce assieme a Flavio Tranquillo del basket NBA in Italia, definì in una vecchissima puntata di NBA Action Kobe Bryant il “principe regnante“. Colui che in attesa che – si era nel triennio 2007-2010 – il futuro re della NBA LeBron James acquisisse la maggiore età cestistica, aveva occupato come il Giovanni Senzaterra delle leggende di Robin Hood il regno lasciato vacante da Michael Jordan.
Nello sport i troni si conquistano, non sono ereditari. E l’edizione dal 2007 al 2009 di Kobe Bryant fu, se letta oggi alla luce del dominio del decennio successivo da parte di LeBron, l’operazione lucida e tempista di una delle menti – di pallacanestro e non solo – più beautiful, brillanti mai esistite. Più longevo di Tracy McGrady, più forte di Vince Carter, più “educato” di un’altra icona come Allen Iverson, tra 2007 e 2009 un Bryant già trentenne seppe capitalizzare su quel “vuoto di potere” giocando il suo miglior basket, vincendo un premio di MVP (2008), disputando tre finali NBA e vincendo 2 titoli, a distanza di ben 7 anni dall’ultimo. Un’enormità per lo sport professionistico.
Quei suoi Lakers non furono mai un superteam. Furono forti si, ma non come quelli dell’epoca di Shaquille O’Neal e neppure probabilmente forti come i migliori Chicago Bulls di Michael Jordan. Il fatto che furono in grado di giocare 3 finali NBA di fila è una delle testimonianze migliori anche se sottovalutate in favore di evidenti banalità (gli allenamenti massacranti, gli orari impossibili, lo spirito di sacrificio, le citazioni facili) della Mamba Mentality: programmazione, visione, raggiungimento di un obiettivo nei tempi previsti e – come in uno spot di un thè di tanti anni fa – la “forza della lucidità”.
Nella NBA di oggi uno dei refrain più gettonati è il concetto di “sfruttare le finestre” temporali entro cui diventa possibile vincere. La parte più difficile del lavoro è vederle arrivare e approfittarne, come è riuscito a fare poche settimane fa uno degli eredi di Kobe Bryant, Giannis Antetokounmpo.
Kobe Bryant non ha inventato tale cliché, e non ha mai parlato di finestre da sfruttare. Sarebbe stata un’ammissione di debolezza dichiararsi limitato – su un campo da basket – nel tempo per una persona che nelle ultime 7 partite della stagione 2012\13 con i suoi Lakers in lotta per i playoffs avrebbe giocato 319 dei 336 minuti disponibili. Di certo però deve averlo pensato, osservando le difficoltà di LeBron James con i Cleveland Cavs e intuendo che grazie alla sua forza di volontà quei suoi Lakers imperfetti (sarebbero migliorati col tempo) avrebbero avuto la migliore delle occasioni.
Nulla di più “Bryantesco” Kobe Bryant avrebbe mai fatto su un parquet NBA.
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