Il nuovo CBA della NBA che entrerà in vigore dal 2023-24 prevederà un “second tax apron“, ovvero un Upper Spending Limit sul salary cap, ovvero la cosa più vicina a un hard cap applicabile alla lega.
Definito Second Tax Apron in gergo, l’upper spending limit non sarà altro che una seconda soglia salariale oltre la luxury tax, superata la quale una squadra affronterà forti limitazioni sul mercato come penalità. Dal 2023-24 la seconda soglia sarà impostata dai 17.5 milioni di dollari oltre la soglia della luxury tax, e le squadre che resteranno entro tale confine potranno proseguire come avviene già oggi per i team che pagano la tassa di lusso: semplicemente accettando di sborsare.
Superato l’upper spending limit, alle squadre verrà impedito di usare la midlevel exception salariale prevista anche per le squadre che sono in territorio di luxury tax (taxpayer mid-level exception). Una squadra che sfora non potrà inoltre cedere una futura prima scelta che cada nei successivi 7 anni, non potrà spedire somme di denaro (le cosiddette cash considerations) in sede di scambio né ricevere più salario di quello in uscita via trade. Né sarà possibile mettere sotto contratto dei free agent provenienti dal mercato dei buyout.
Se l’upper spending limit fosse in vigore già oggi, squadre come Warriors, Celtics, Bucks, e Nets non avrebbero potuto mettere sotto contratto Donte DiVincenzo, Danilo Gallinari, Joe Ingles e Patty Mills durante l’ultima free agency. I Clippers non sarebbero invece stati in grado di prelevare da Portland via trade Norman Powell e Robert Covington perché avrebbero ricevuto più salario di quello ceduto.
Perché la NBA ha voluto inserire un upper spending limit? Nelle ultime stagioni la “minaccia” di luxury tax salatissime non ha fermato team come Warriors, Clippers o Nets dall’accumulare salario e riscrivere di fatto ogni record per l’importo della tassa di lusso. Warriors e Clippers si troveranno a pagare nel 2023 una luxury tax che è praticamente pari al proprio monte salari.
I Nets di Joe Tsai e i Clippers di Steve Ballmer non hanno certo problemi nell’accollarsi luxury tax alle stelle. E a San Francisco il Chase Center di proprietà dei Golden State Warriors è una tale fonte di introiti da permettere sostenibilità finanziaria da solo. Anche la proprietà dei Milwaukee Bucks, il cui valore è schizzato alle stelle con la vittoria nel 2021 e con Giannis Antetokounmpo, ha accettato di pagare una luxury tax impegnativa, così come i Boston Celtics. Nel 2022-23 saranno 9 le squadre oltre la soglia della luxury tax, e di queste ben 6 oltre quello che sarebbe stato l’upper spending limit fissato a 17.5 milioni di dollari oltre la soglia della tassa di lusso.
In sede di trattativa, il tentativo della NBA di introdurre una versione ancora più stringente dell’upper spending limit, qualcosa che sarebbe davvero diventato una versione propria di un hard cap, sarebbe stato fronteggiato però anche dalle squadre “piccole”, in mercati meno ricchi e centrali che oggi non pagano la luxury tax ma che in un futuro prossimo potrebbero essere costrette a spendere per trattenere i propri giocatori migliori e una squadra vincente.
Cleveland Cavs e Oklahoma City Thunder gli esempi migliori. I Cavaliers hanno due giocatori (Darius Garland e Donovan Mitchell) sotto contratto al massimo salariale come Designated Players, dal 2024 diventerà eleggibile per la sua rookie scale extension anche Evan Mobley, che potrà ottenere a sua volta il massimo salariale. A OKC, oltre a Shai Gilgeous-Alexander che è già sotto contratto al massimo salariale, saranno eleggibili a partire dal 2024 per la rookie scale extension Josh Giddey, quindi Chet Holmgren e Jalen Williams, che assime a Lu Dort formano il nucleo giovane e di talento della squadra.
E dall’anno prossimo? A oggi Clippers e Warriors sono già in proieizione oltre l’upper speding limit, la free agency 2023 sarà il primo banco di prova delle nuove regole salariali NBA.