Home NBA, National Basketball AssociationApprofondimenti Stephen Curry e la rivoluzione del basket: la sua storia in 10 capitoli

Stephen Curry e la rivoluzione del basket: la sua storia in 10 capitoli

di Giacomo Seca
Stephen Curry

La rivoluzione

Torniamo all’introduzione. Stephen Curry ha cambiato per sempre il gioco del basket. Una frase che abbiamo sentito più di una volta e che ci siamo chiesti spesso se fosse vera o meno. Opinione di chi scrive? Sì. Ma le opinioni sono opinioni.

In questo paragrafo si vuole analizzare Curry sotto due diversi aspetti. Quello più “famoso”, cioè il suo modo di giocare e di stare in campo, e quello un po’ più sottovalutato, cioè quello caratteriale e di leadership.

Iniziamo dal primo e facciamo un piccolo passo indietro.

Madison Square Garden, 27 febbraio 2013. New York batte Golden State 109-105 ma Curry ne mette 54, con 11 su 13 da tre punti. Per molti è l’inizio della pallacanestro moderna e che non si guarderà mai più indietro.

È impossibile poter concentrare in poche righe il perché Curry abbia cambiato per sempre il gioco, non è questo il luogo ma, per chi volesse approfondire, sono in tanti che ne hanno scritto (e bene).

Quello che bisogna capire è che al di là delle doti balistiche e della pura questione “chi è più forte di chi”, non c’è stato nessun altro nella pallacanestro contemporanea che abbia portato attacchi, difese, allenatori, giocatori e Media a cambiare il loro punto di vista sul Gioco come ha fatto Curry. Nemmeno LeBron, che due cose le ha fatte, ma che è sempre rimasto “confinato” nelle coordinate strutturali e tecniche che il basket si è autoimposto negli anni. Wilt Chamberlain ha cambiato il gioco, ma probabilmente quel superuomo era troppo oltre e per questo messo in secondo piano.

E non è solo il tiro da 3, ma è (anche) tutto il resto. Il modo di muoversi, portare blocchi, l’avere costantemente 2-3 uomini addosso, il rendere l’attacco un vero attacco dal momento che si supera il centrocampo.

Per citare Flavio Tranquillo, durante la telecronaca della partita di play-in giocata tra Lakers e Warriors, “Se un allenatore avesse visto Drummond raddoppiare così, fino alla linea da tre punti, soltanto 7 anni fa, l’avrebbe fatto portare a un ospedale psichiatrico”.

Dall’altro punto di vista, come detto, parliamo del carattere.

E qui ci ricolleghiamo al suo soprannome, “The Baby Faced Assassin”, l’assassino con la faccia da bambino. Che è sì, dovuto alla sua caratterizzazione estetica, ma anche alla capacità di ucciderti, sportivamente parlando, da un momento all’altro e senza che tu possa fare nulla. Perché la capacità di Curry di vincere (e far vincere) le partite alla sua squadra è qualcosa che non si è vista molte volte. Le leggendarie accelerate dal terzo quarto riuscivano nell’incredibile obiettivo di: far aumentare a dismisura il numero di giro della propria squadra e del pubblico e distruggere psicologicamente la squadra avversaria. E questo non succedeva soltanto quando quella tripla “entrava”, ma era semplicemente il fatto di averla provata: non si è mai vista un’inoculazione tale di energia positiva dopo un canestro tentato o realizzato.

E come ha scritto Marcus Thompson II “è come se ci fosse in campo una dicotomia tra l’assassino e il giocatore altruista, dove il primo però aveva necessità di uscire fuori”. Coinvolgere i compagni rimanendo tu il killer. Perché ha cambiato il gioco, anche solo il provare quella tripla.

E inoltre è anche vero che Curry è la condizione sine qua non della nascita della cultura moderna degli Warriors. Prima di lui Golden State era quella del We Believe, la squadra che non vinceva un titolo dal 1975. Come è possibile che siano passati da essere quel tipo di underdog a essere la squadra più glamour della NBA? Infine, arriviamo alla stagione 2015/2016, quella del 73-9. Curry vince il suo secondo MVP, tiene medie di 30,1 punti a partita e 6,7 assists.

Okay, è la stagione del record e le tue medie sono spaziali, ma perché Stephen Curry è stato il primo e unico giocatore della storia a vincere il premio di MVP all’unanimità, ed è riuscito dove nemmeno Jordan è riuscito?

La risposta, a mio parere, è nel suo particolare carattere, la sua umiltà e la sua essenza di artista che è innegabilmente legata al giocatore. Che prima l’ha reso sottovalutato per anni, poi la reso la cosa più bella da vedere su un campo da basket non solo per i tifosi, ma anche per gli addetti ai lavori.

 Chapeau, Chef Curry.

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