L’inizio di stagione dei New Orleans Pelicans non è stato quello che ci saremmo aspettati: le cose stanno andando peggio del previsto; forse troppo. Qualcuno può dire che è presto per tirare le somme di una squadra che comunque avrà bisogno di tempo, ma delle difficoltà che i giovani Pelicans stanno avendo è opportuno parlare. Altrimenti, se si vogliono mettere tutti i problemi sotto al tappeto, il rischio è quello di ritrovarsi nel vivo della stagione con troppe domande e poche risposte.
Alla vigilia c’erano anche tanti dubbi legati alla scelta del nuovo allenatore che era ricaduta sull’esperto Stan Van Gundy. Molti (giustamente) hanno detto: “Ma come? E’ stato allontanato Alvin Gentry perchè espressione di un tipo di pallacanestro lontana dalla modernità e, al suo posto, viene chiamato un altro coach vecchio stampo?” In effetti, quelle perplessità non erano vane. Dopo 12 gare giocate NOLA si ritrova con 5 vittorie e 8 sconfitte: un bottino troppo magro pensando al roster che Van Gundy ha a disposizione. Basterebbe fare notare il fatto che i Pelicans si ritrovano in classifica sopra solo a Kings, Rockets e Timberwolves (tre squadre in evidente difficoltà) trovandosi anche al di sotto degli Oklahoma City Thunder, che in teoria sarebbero in piena ricostruzione.
Quello che abbiamo visto in queste 12 partite giocate è troppo poco per un squadra che avrebbe le carte in regola per giocarsi gli ultimi posti disponibili per i playoffs. Basta citare la presenza di giovani di talento ormai conclamato come Zion Williamson e Brandon Ingram; altri giovani con molte qualità come Lonzo Ball, Nickeil Alexander-Walker e Josh Hart; e giocatori d’esperienza di livello come JJ Redick, Steven Adams e Eric Bledsoe.
New Orleans Pelicans, anche i dati dicono che l’attacco non gira
A voler guardare i freddi numeri non si notano molte differenze. !7esima forza offensiva della lega prima, 18esima oggi; 19esima difesa ieri, 20esima oggi. Insomma, pare proprio di essere sulla linea d’onda della scorsa stagione. Poi salta all’occhio un dato inequivocabile: i Pelicans l’anno scorso avevano il secondo PACE (possessi in media per partita) della lega, quest’anno invece sono 26esimi su 30 in questa particolare classifica. Cosa significa? Molto semplicemente che New Orleans corre molto di meno, che non sposa quasi mai la transizione e che, ad essere sinceri, l’attacco è troppo spesso ristagnato.
Nella metà campo avversaria la squadra di Van Gundy trotterella e non sembra voler mai accelerare. Lonzo Ball, che durante la scorsa stagione da point guard stava trovando grande intesa con Williamson, quest’anno è relegato al ruolo di shooting guard (sta passando da 7 assist di media a partita a 4.4) a causa della presenza di Eric Bledsoe, che porta poco alla squadra in fase di playmaking e che dovrebbe essere di passaggio a NOLA. Ball, inoltre, vede calare anche le sue medie dall’arco (da 37.5% a 28.2%) in quanto è costretto a prendersi molti più tiri fuori ritmo. Intanto, anche Steven Adams sembra un’entità astratta all’interno del sistema dei Pelicans: toglie spazio sotto canestro a Zion Williamson e ancora non si capisce bene quale sia il suo ruolo nella mente dell’ex allenatore dei Detroit Pistons.
Preoccupano le difficoltà di Ingram e l’involuzione di Lonzo Ball. Where is Melli?
Come detto, poi, aldilà delle medie, preoccupano le difficoltà della prima scelta assoluta del Draft 2019 e di Brandon Ingram. Williamson ha dimostrato di avere grande voglia di dimostrare il suo valore e la determinazione che mette nella lotta a rimbalzo e sotto canestro (nel post basso) è emblematica; ma la lentezza dell’attacco della sua squadra lo rallenta e non gli permette di trovare gli spazi giusti per mettere in gioco la sua esplosività e la sua forza fisica. Ingram, dal canto suo, dopo una stagione da incorniciare in cui si è dimostrato un ottimo scorer e in cui ha giocato ai livelli di una star (non a caso ha vinto il premio di Most Improved Player) si trova ora in difficoltà, inceppato dallo scarsa fluidità di gioco della squadra.
Anche JJ Redick e Jaxson Hayes non stanno traendo vantaggio dalla gestione Van Gundy. Il primo, seppur 35enne, è un veterano letale dall’arco e campione di leadership che si è rivelato fondamentale nella scorsa stagione, e non dovrebbe essere relegato troppo spesso in panchina come sta accadendo quest’anno. Il secondo è al suo secondo anno in NBA dopo aver fatto vedere buone cose sotto il ferro nella scorsa stagione per atletismo e fisicità, ma i suoi punti di media a partita sono scesi da 7.4 a 3.8. Per non parlare del nostro Niccolò Melli che sembra essere ai margini del progetto, quando l’anno scorso invece era un giocatore importante per Alvin Gentry. L’unico che sembra giovare del nuovo corso è Alexander-Walker che sta trovando minuti e fiducia, ma sinceramente pare un po’ poco.
L’impressione è che questi New Orleans Pelicans stiano rendendo molto al di sotto delle loro aspettative e che non riescano a convertire quell’effettivo potenziale presente nel roster. Quella che è stata etichettata come una delle squadre con più talento e che ha due giocatori come Williamson ed Ingram, in attacco non può girare così male. Servono più dinamismo, più velocità, più movimento di palla ed in generale più fluidità. Allora ecco che la domanda sorge spontanea: perché scegliere uno come Stan Van Gundy quando erano liberi coach come Kenny Atkinson e Nate McMillan, per citarne qualcuno?
A questa domanda dovrà rispondere col prosieguo della stagione lo stesso Van Gundy. E dovrà farlo abbastanza in fretta perché di tempo non è che ce ne sia così tanto e il rischio è quello di sprofondare nel baratro di una Western Conference competitiva da cui poi sarà difficile risalire.