Quando vedo un giocatore e me ne innamoro, cestisticamente parlando, mi rimane impressa la sua immagine. Sia per l’uomo che vedo, ma anche dalla Jersey che indossa in quel momento.
Capitolo 1 – Dirk Nowitzki, Equilibrium
19 giugno 1978, a Wurzburg, un paesino dell’alta Baviera, nasce Dirk Nowitzki. In una famiglia di sportivi, passando quindi la sua gioventù a praticare diversi tipi di sport. A 13 anni era già altissimo e veniva anche preso in giro per questa altezza così spropositata per un ragazzino. Si dedicò allora al basket nella squadra del suo paese, i Raggi X di Wurzburg. Si perché proprio lì a fine 1800 Wilhelm Conrad Röntgen scoprì la radiazione elettromagnetica nell’intervallo di frequenza. I raggi x appunto.
Un giorno, all’età di 16 anni quando militava nella squadra juniores, lo nota un certo Holger Geschwindner, capitano della nazionale tedesca alle olimpiadi di Monaco 72, e vede, anzi, prevede qualcosa in quel ragazzo smilzo e dinoccolato. Lo prende e fa qualcosa per cui sia Nowitzki, che tutti noi, dovremo ringraziarlo a vita. Lo prepara con allenamenti personalizzati, ma per niente canonici.
Dirk non vede quasi mai la palla, si allena nella scherma e nell’aerobica e, quando la vede, prova tiri in equilibrio precario, da posizioni impossibili anche in spaccata. Queste sono le uniche notizie dei suoi allenamenti alla Daniel San di Karate Kid. Quel che è certo è che non c’è mai stato in tutta la storia NBA un giocatore di 2.13m a tirare così bene. Un fade away immarcabile che mai nessuno è riuscito a bloccare e, soprattutto, che quasi mai ha mancato il bersaglio.
Come detto gli allenamenti di Geschwinder “Miyagi” funziona tanto che a 18 anni Dirk viene chiamato per una partita dimostrativa della Nike con i campioni NBA e come prima cosa schiaccia in testa a Barkley, che ricorda bene quel primo incontro. Era decisamente arrivato il momento di provarci.
Capitolo 2 – Rocky Soul
Nona scelta dei Milwakee Bucks al draft NBA 1998, subito dopo viene dirottato a Dallas per non andare più da nessun’altra parte. Il primo anno, però, fatica a prendere i ritmi americani, ma l’allenatore Don Nelson vede in lui quello che aveva visto Geschwindner e continua a puntare sul tedescone. Non ne rimarrà deluso. Con Nash e Finley forma un big three eccezionale, ma purtroppo le loro strade si separano prima di raggiungere qualsiasi obiettivo.
Invece, quello diventa il momento propizio per l’assalto al titolo. Dirk inizia a far segnare prestazioni strabilianti. Come quel giorno contro gli Houston Rockets dove fa segnare il suo career high di 53 punti in una sfida 1 contro 1 con Tracy McGrady che ne metterà 48. Poi c’è la stagione 2005/06, stagione in cui l’ immagine dell’uomo con quella maglia si è insinuata indelebilmente nella mia memoria.
I Mavs arrivano primi in regular season e sono, quindi, i favoriti alle finals, contro i Miami Heat di Shaquille O’Neal e soprattutto di un giovane Dwyane Wade. Vincono le prime due in casa, è tutto apparecchiato per mettere in tavola il trofeo. Gara 3 a Miami sono avanti di 13 punti a 7 minuti dalla fine, ma Wade la recupera praticamente da solo. I Mavericks non ne vinceranno più una. Dirk è incredulo, la sconfitta scotta, scotta troppo, c’è bisogno di pensare.
Quell’estate si reca presso la roccia di Uluru, nota come Ayers Rock. Una roccia situata nel mezzo del deserto Australiano con la prima cittadina a 450 km di distanza, a un’altezza di 380 metri, ma soprattutto si distende per ben 7.000mt sotto la crosta terrestre. Quel luogo mistico e pieno di spiritualità lo tocca nel profondo. Quando torna dice di essere cambiato e di avere ben chiari gli obiettivi e quello che deve fare.
Ci riuscirà?
Capitolo 3 – Dirk Nowitzki, 41.21.1
In effetti le premesse sembrano dire di si.
La stagione seguente è l’MVP della regular season, il primo europeo a ricevere questo prestigioso premio. Dallas è testa di serie ai playoffs, ma esce incredibilmente al primo turno con i Golden State Warriors del “We believe” e di quel Don Nelson che era come un secondo padre per Dirk. È un’altra dura botta, da KO, ma qualcosa è davvero cambiato in lui. È sotto terra, ma come la roccia di Uluru, è da lì che deve cominciare la risalita. Sa che non deve smettere di lottare e non lo fa.
Dopo un paio di stagioni in cui si avvicina soltanto, arriva il 2010/11. Quell’anno non sono loro i favoriti, ci sono gli Oklahoma City Thunder di Kevin Durant, ma Dirk tira fuori una prestazione da 48 punti in gara 1 e porta i Mavs alla vittoria della finale della Western Conference. In quel momento si capisce quanto sia focalizzato sull’obiettivo. Mentre tutti continuano i festeggiamenti, lui va negli spogliatoi perché quella non è la vittoria che vuole lui, il suo obiettivo è un altro. Ma davanti a quell’ obiettivo ci dei mostri come Chris Bosh, LeBron James e quel Dwyane Wade che, con tutti i Miami Heat è anche un suo mostro del passato. Sono loro i favoriti, infatti vincono gara 1 e sembra tutto scritto.
Ma per diventare leggenda ci sono dei momenti cruciali e in quelle finals ce ne sono stati due. Il primo è in gara 2 con Miami che è avanti di 15, ma i Mavericks la recuperano e Dirk mette la tripla a pochi secondi dalla fine che sembra sancire la vittoria dei Texani. Nel ribaltamento si dimenticano di difendere e Miami pareggia la partita. Tutto sembra portare all’overtime e con i giocatori che ha Miami non è mai una cosa tranquilla. Dirk sa che deve chiuderla. Bosh difende su di lui e si aspetta, come tutti, il fade away e invece il tedescone entra e appoggia semplicemente al vetro. Dallas ora sa che può battere i big three.
Il secondo momento topico è in gara 4 a Dallas. I Mavericks sono sotto 2-1, proprio ora che è il momento decisivo si sveglia la mattina della partita con la febbre. Sembra una congiura e allora bisogna scongiurare questa apparente sfortuna. Gioca una gara esemplare, come Jordan nel ‘97 ha il suo Flue Game e segna i 2 punti che regalano la vittoria a Dallas. Le altre due gare sono la normale conseguenza dei suoi sforzi. Sarà anche l’MVP di quelle finals, ma alla sirena di gara 6 va ancora via subito. Questa volta non per rabbia o perché è concentrato su qualcosa d’ altro, ma dall’emozione. Deve interiorizzare il fatto di aver raggiunto finalmente quel punto che ha rincorso con tanta fatica e con davanti mille ostacoli. Ma è riuscito a superarli tutti.
Gli ultimi anni serviranno per aumentare la sua leggenda. Supera i 30000 punti, è il sesto miglior marcatore di tutta la storia, primo tra gli stranieri. 41 il suo numero, 21 gli anni di carriera, 1 la squadra in cui ha giocato. Si è guadagnato il vero rispetto da un mondo che non te lo da così facilmente, neanche se vinci un titolo, ma solo se te lo meriti per quello che hai dato in campo e fuori.
Mentre a noi rimarrà indelebile l’immagine di un signore che aveva la maglia blu, con la scritta Dallas davanti e un 41 dietro. Era un tedescone di nome Dirk Nowitzki, il meraviglioso Dirk o, per tutti… WunderDirk.