The Decision
L’estate del 2010 LeBron James cambia per sempre i contorni della sua immagine sportiva e della linea di confine tra sport/business/entertainment.
È l’estate della The Decision.
Piccolo passo indietro.
Stagione 2009\10, tutta la NBA sa che LeBron James a fine anno sarà unrestricted free agent. E tutta la NBA (più o meno) lo corteggia.
Nel novembre del 2009, Bill Simmons (allora giornalista di ESPN) pubblica la lettera di un tifoso, tale Drew Wagner, in cui viene sostanzialmente detto “Ma perché non fate annunciare a LeBron la sua prossima squadra in diretta nazionale?”. L’idea per gli squali della TV è tutto fuorché bislacca e, durante l’All-Star Game, lo stesso Simmons avvicina Maverick Carter (eh si, l’abbiamo già sentito nominare) che adesso per lavoro fa il manager per LeBron, e gli propone la cosa.
L’idea rimane in stallo fino a giugno, dove durante le Finals (vinte quell’anno dai Lakers) Carter si accorda con i dirigenti ESPN. Lo show si farà, checché ne dica David Stern, che prova a opporsi al teatrino.
Così, l’8 luglio, nel programma intitolato The Decision, in diretta nazionale, 13 milioni di spettatori sentono LeBron dire “porterò i miei talenti a South Beach, Miami”.
LeBron ha scelto i Miami Heat. Il tradimento a Cleveland, a Akron e a tutto l’Ohio è compiuto.
Le reazioni sono incredibili.
A Cleveland è gara a chi brucia la sua maglia con più disprezzo. Il presidente dei Cavs Dan Gilbert scrive una lettera ai tifosi in cui lo chiama “cowardly betrayal”: un traditore codardo, assicurando che i Cavs avrebbero vinto un titolo prima dell’ormai ex-Re (più o meno).
Ma è tutto il mondo cestistico e sportivo a essere in subbuglio. Sono tanti le critiche e sono anche illustri. Due su tutti, sua maestà Michael Jordan e anche da Magic Johnson.
“Non avrei mai chiesto ai miei rivali di unirci nella stessa squadra per vincere, ma tant’è, ora va così” è il commento di Mike a cui si accoda Magic. Nessuno è d’accordo con questa scelta e, soprattutto, con le modalità con cui è avvenuta.
Ancora oggi si parla di quella decisione. Al di là di essere considerato tra i più gravi tradimenti sportivi di sempre, per molti quel gesto (e quella squadra) ha segnato l’inizio dei superteam oggi tanto discussi, segnando un punto di non ritorno nelle modalità di creazione dei roster contemporanei.
Il discorso è lungo e non è il luogo questo.
Quello che ci interessa è che LeBron va a Miami, promettendo, insieme ai suoi nuovi compagni Wade e Bosh (arrivato contemporaneamente a LeBron da Toronto) “non 1, non 2, non 3, non 4, non 5, non 6…” titoli NBA.
L’incoronazione
Il primo anno di LeBron a Miami è, per la maggior parte dei tifosi mondiali, l’esemplificazione del Karma.
La squadra non riesce mai a ingranare davvero. Nonostante tutto arriva in finale NBA, dove incontra i Dallas Mavericks, che quell’anno più che mai assomigliano alla squadra del destino e di cui purtroppo non possiamo parlare ora.
James gioca la peggior pallacanestro della carriera, terminando la serie a 17.8 punti di media. E, soprattutto, 8 punti in gara 4. Miami perde la serie 4-2.
È il momento più basso della sua carriera. È sconfitto da tutti i punti di vista: sportivo, come detto, e personale (Forbes quell’anno lo incorona come l’atleta più antipatico del mondo).
L’ombra dell’eterno perdente aleggia sulla sua carriera e i paragoni sono quanto mai immediati: Jordan ha vinto all’ottavo anno. Lui, all’ottavo, ha perso 4-2.
Arriva l’estate della riflessione. James e tutta la squadra capiscono (ed esplicitano) qual è il problema principale: hanno abbracciato l’idea di essere i villain della situazione, era sparita la gioia nel Gioco.
Si lavora tanto, quell’estate. Soprattutto sui fondamentali, aiutato nondimeno che da Hakeem Olajuwon, uno che due cose sa dirtele.
E i risultati arrivano. Gli Heat e LeBron dominano la stagione regolare (James vince anche il suo terzo MVP, si ripeterà l’anno dopo). I playoffs, come sempre, non sono così semplici e Miami è a un passo dall’eliminazione contro Boston. In quella gara 6, dentro o fuori per gli Heat, James gioca una partita che il New York Times chiama “una prestazione che definisce una carriera”: 45 punti e 15 rimbalzi.
Arriva la finale, contro i giovani ruspanti di Oklahoma City. Ma Miami è troppo forte: vince 4-1. È trionfo. Dopo 9 anni di attesa, il Re trova finalmente il suo trono.
L’anno dopo gli Heat si ripetono, con LeBron che gioca un’altra fenomenale stagione (miglior stagione in carriera per % da 3 punti). In finale ci sono i San Antonio Spurs, ancora loro. La serie termina a gara 7, dove James la decide sul finale di partita con dei jumper dalla media. Nella memoria collettiva, però, rimarrà sempre il tiro di Ray Allen, a 6 secondi dalla fine di gara 6, in una delle triple più difficili per posizione del corpo e momento storico.
Double. Due titoli in due anni consecutivi. Due MVP delle Finali. LeBron è sulla cima del mondo, adesso, di nuovo, amato.
L’anno dopo si cerca il three peat che però non arriva: gli Spurs, alla loro ultima cavalcata regalano una pallacanestro degna di Giotto: 4-1 senza repliche.
Anche quella estate è momento di ragionamenti.