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L’amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa e la mamma… che al mercato mio padre comprò

di Carmen Apadula

Non ci sono gli arbitri a creare scandalo? State sereni, ci arrangiamo da soli.

La serata aveva tutte le carte in regola per essere perfetta: Alberta Santuccio, Giulia Rizzi, Rossella Fiamingo e Mara Navarria hanno rotto la maledizione del “minuto supplementare”. La spada femminile, dopo ventotto anni, era tornata in una finale olimpica. Ed è così che è arrivato uno strepitoso oro.

Fermi, fermi, fermi. Avete ragione, tutto troppo perfetto per essere vero. Siamo pur sempre in Italia, dobbiamo farci riconoscere.

E infatti, dopo la vittoria, si è scatenata subito una polemica a causa del titolo dedicato alle schermitrici da un noto quotidiano. Non uno qualunque, attenzione. Andiamo, avete capito qual è, non fatemelo scrivere.

Nel “festeggiare” l’oro della spada, nel titolo dell’edizione on line di questo quotidiano (chissà quale) era uscito scritto: “Le 4 regine: l’amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa e la mamma“

Un po’ l’effetto di quelle classiche barzellette: “Allora: c’è un americano, un inglese, un francese e un amico di Diletta Leotta che…”.

Inutile dire che le persone, nei commenti sui social, si sono scatenate.

Per il web (ma non solo, fidatevi) c’è stato un vago sapore sessista nel banalizzare le quattro campionesse, che hanno una storia ricca di successi alle spalle, a delle normali “mamme”, “psicologhe” o che so io.

Scoppia ovviamente il caso, in particolare sulla definizione che tira in ballo la Leotta e il titolo cambiato, che diventa: “La musicista, la francese, la psicologa e la veterana”.

Ma non basta a placare la polemica. Fosse così facile, signori miei, vivremmo in un mondo diverso. Ma viviamo in questo, e le cose non funzionano così.

Sport e sessismo: quando il problema è evidente, ma tanto “sono solo parole”

Non funzionano così, perché in realtà funzionano anche peggio. “Per fortuna sono solo parole” direbbero i più. Solo parole, certo. 

Anche per quanto riguarda sessismo e discriminazioni di genere, la lingua è un mezzo molto potente, che influisce sulla perpetuazione degli stereotipi. E, molte volte, senza che la gente se ne renda conto. Neanche chi di quegli stereotipi è vittima. Le parole riflettono l’asimmetria sociale che esiste tra uomini e donne, e che assegna ai primi uno status di potere. 

Un vecchio indovinello antropologico faceva così: il nostro vivere è determinato da ciò che pensiamo, o è il nostro pensiero ad essere determinato da ciò che viviamo?

Al giorno d’oggi siamo circondati da un flusso di notizie basate su linguaggi che corrono veloci, che spesso ci sfuggono. Se siamo fortunati, ci rimane il tempo di assorbirli. Ma lentamente appiattiscono il nostro spirito critico.

Sulle prime pagine di tanti quotidiani sportivi troviamo titoli come: “La Nazionale conquista…” e bla bla bla. Messaggio chiaro? Sì. È chiaro che il titolo alluda alla Nazionale maschile. Diamo per scontato che il giornalista non sia tenuto a distinguere le Nazionali, ma ancor peggio che sia obbligato a specificare il genere solo quando si parla della Nazionale femminile.

Oppure, ancora, avete mai notato che nelle didascalie delle foto di atlete spesso si specifica l’età? Magari per una campionessa troviamo espressioni come “alla sua veneranda età…”, mentre per una controparte maschile over 35 troviamo scritto “giocatore d’esperienza”.

La ragione principale della persistenza di questi pregiudizi va individuata nella scarsa consapevolezza di chi li produce. I media sportivi restano, purtroppo, un dominio quasi esclusivamente maschile, spesso in mano a uomini che non si occupano né preoccupano di questioni di genere

Accanto ad articoli neutri o attenti a non produrre discriminazioni, continuano a proliferare discorsi che dedicano un’attenzione indebita e sessualmente connotata ai corpi delle atlete, e discorsi che, marcando il genere femminile, rappresentano in maniera diversa un comportamento per il semplice fatto che è compiuto da una donna invece che da un uomo, influenzando pesantemente la rappresentazione delle atlete e quindi il nostro modo di pensare a loro

D’altra parte se pensiamo a quando Carlo Tavecchio dichiarò che pensava “le donne fossero handicappate rispetto al maschio, ma abbiamo riscontrato che sono molto simili“, non possiamo non pensare che il linguaggio non lanci messaggi forti.

Molti nemmeno si accorgono di queste uscite spiacevoli, o della simbologia che sta dietro a tante “battute”.

 

Non è roba per donne

Viene da sé che uno inizi a pensare che l’Italia, per quanto riguarda lo sport, non è un paese per donne. Né nell’agonismo, né nel professionismo. 

Sebbene qualcosa stia cambiando, le donne che praticano sport in Italia sono nettamente di meno rispetto agli uomini. Stando ai dati Istat del 2017, poco meno del 34% della popolazione italiana dichiara di praticare uno o più sport come hobby. Il 24,6% pratica attività fisica, mentre il 38% conduce una vita sedentaria. Tra i maschi, poco meno del 29% pratica sport con costanza, con le donne si scende al 21%.

Il Centro Studi Coni Servizi, nel suo rapporto del 2017, ha rilevato come le donne siano “sottorappresentate” negli organi decisionali delle istituzioni sportive. E questo a tutti i livelli.

Nel sistema sportivo italiano le atlete rappresentano il 28.2% (i maschi il 71%), le dirigenti di società sportive sono il 15.4% (gli uomini l’84.6%), i tecnici-donna sono poco meno del 20% (gli uomini l’80%), le dirigenti federali il 12.4% e le ufficiali di gara il 18.2%, rispettivamente contro all’87.6% e l’81.8% dei maschi. 

Un altro grande limite è rappresentato dal fatto che le donne, anche atlete di altissimo livello, non possono essere professioniste ma, per legge, restano dilettanti. L’unica alternativa è entrare in un corpo sportivo militare. Le altre, scontrandosi con i “problemi” della vita (soldi, famiglia, figli), sono costrette ad abbandonare la loro passione, a meno che non possano contare su uno sponsor molto forte, perché non può diventare un lavoro a tutti gli effetti. 

E questo è sempre perché viviamo ancora in un’epoca in cui, se l’uomo va a giocare a calcetto o va in palestra è perché ha diritto a dare spazio alle sue passioni, mentre la mamma o la moglie che va in palestra è come se sottraesse tempo alla famiglia.

Le Olimpiadi: un luogo magico in cui prolifera… il sessismo

E le Olimpiadi sono il luogo più emblematico dove questo stereotipo prende forma. 

Quelle di Parigi 2024 dovevano essere le Olimpiadi della sostenibilità, le Olimpiadi ecologiche e della parità.

Come ha decisamente confermato (se ci credete) Bob Ballard, commentatore di Eurosport, che non ha risparmiato ai suoi telespettatori una battuta.

Il problema è che, oltre a non essere per niente spiritosa, rilanciava uno fra i più logori cliché: quello delle donne che “fanno tardi” perché “perdono tempo a truccarsi”. Risultato: radiato su due piedi dalla lista dei commentatori dell’emittente.

Il tutto, nell’ambito della stessa Parigi che ha reso omaggio, durante la Cerimonia d’apertura, all’universalismo e alla sorellanza

Queste Olimpiadi sono invece diventate un teatrino di lacrime di gioia e disperazione, cadute imbarazzanti e salti mirabolanti, nuovi record e record inattaccabili, ma anche (come ogni santa, maledetta, volta) galleria delle atlete più sexy o degli atleti più “dotati”. 

Tutto questo, insieme alla scarsa attenzione linguistica di molti giornalisti, ha scatenato le polemiche. 

Le differenze tra uomini e donne ci sono, tant’è vero che la maggior parte delle discipline prevede gare maschili e femminili separate. In alcuni casi, invece, uomini e donne concorrono insieme, oppure esiste solo la gara per un sesso e non per l’altro.

In moltissimi sport il risultato viene dato in termini numerici: la lunghezza di un salto, il tempo per percorrere una certa distanza, il peso che viene sollevato. In tutti questi casi, è possibile fare un confronto diretto, tra le migliori prestazioni ottenute da uomini e donne. 

Nel 2010, la scienziata israeliana Ira Hammerman ha analizzato i risultati di 82 sport diversi. E i rapporti tra i record femminili e maschili sono molto vicini, intorno al 90%. Le fluttuazioni erano invece piuttosto piccole: tutte le 82 coppie di record stavano tra un rapporto dell’84% e del 94%. Una regolarità così netta difficilmente può essere casuale.

La prima considerazione che si può fare è puramente “sportiva”. Se in una specialità ci si allontanasse molto da questo 90%, probabilmente ci sarebbe qualcosa da rivedere nella tecnica e nella preparazione atletica. Significherebbe che c’è qualcosa che sfugge.

Un discorso più ampio richiede, invece, l’investigazione delle cause di questa differenza. Non stiamo confrontando un campione omogeneo di persone, certo, ma i migliori in assoluto in ciascuna specialità. Persone che, su una predisposizione fisica particolare, hanno costruito una condizione atletica ottimale per eccellere in uno sport. Ciononostante, sono esseri umani e il loro organismo è soggetto a limitazioni.

Le differenze statisticamente significative tra uomini e donne sono molte: l’altezza e il peso, per esempio, sono facili da osservare ma parzialmente significativi. Differenze più nascoste sono, invece, i livelli di emoglobina nel sangue: per gli uomini è circa il 10% in più rispetto alle donne. D’altra parte, sotto sforzo l’organismo femminile sembra consumare qualche percento in meno di ossigeno rispetto a quello maschile, annullando la differente composizione sanguigna. Un’altra differenza significativa sta nei livelli ormonali, che si riflettono in una maggiore quantità di massa grassa presente nel corpo femminile. E c’è poi un’altra zavorra che le donne si portano sistematicamente dietro quando affrontano l’attività sportiva: il ciclo mestruale, che crea problemi a un buon 10-15% delle atlete in ogni gara.

Insomma, è difficile identificare una sola causa per un effetto. E, comunque, queste differenze non sono davvero rilevanti. Perché il problema sta nel fatto che ci scordiamo sempre che, di qualunque specialità si tratti, abbiamo sempre davanti i più forti, che sono lì perché a quello sport hanno dedicato tutta la vita. Come ha scritto un account fake di Bill Murray, ogni evento olimpico dovrebbe “ospitare una persona normale come riferimento”. Ed ecco che smetteremmo di fare ironia sul giro vita delle ginnaste messicane in un attimo.

 

Il calcio, lo sport più colpito dal sessismo

Alcuni giorni fa Katia Serra, ex centrocampista, è stata ospite del Giffoni Film Festival, nella categoria Sport. Nella sua lunga carriera, durata 24 anni, ha giocato nel campionato italiano femminile di calcio. Ha vinto uno scudetto, tre Coppe Italia, una Supercoppa italiana e una Italy Women’s Cup. L’evoluzione e la trasformazione del calcio femminile sono stati spunto di riflessione nella chiacchierata con lei. 

“Credo che il problema sia che il calcio femminile viene ancora gestito come una copia del calcio maschile. Non viene compreso che sono due discipline ben diverse. Anche a livello giornalistico si parla sempre prima della donna e poi della sua prestazione. Un’altra cosa che consiglierei ai giornalisti è evitare di paragonare lo sport femminile a quello maschile, ma godersi la prestazione. Poi mi piacerebbe anche vedere un canale dedicato solo al calcio femminile, ma mi rendo conto che è una scelta troppo coraggiosa da parte del mondo editoriale” ha sentenziato. 

E io non posso che essere d’accordo. 

È sicuramente positivo se l’Italia si appassiona alla Nazionale femminile di calcio, facendo registrare un boom di ascolti sulla Rai e su Sky: l’interesse c’è e sta lentamente cambiando la narrazione delle imprese sportive femminili. 

Ma in alcuni giornali e talune telecronache si legge e si sente ancora “fisico da urlo”, “icona di stile”, “belle e brave”. Frasi fatte, retaggio di un vocabolario improntato su canoni maschili, o peggio, articolesse con cadute di sarcasmo e critiche machiste sull’abilità delle sportive prese in esame. Simili racconti e  trattamenti sono impensabili se riferiti ad atleti maschili, forse solo in passato qualche cronista avrà esaltato la vigoria di Ruud Gullit o la bellezza di Antonio Cabrini. Ma il tutto era svincolato dalle cronache sportive, casomai relegato in qualche servizio di approfondimento nei magazine.

Che si senta l’esigenza di riposizionare la narrazione sportiva femminile è ovvio. E tutto ciò è testimoniato dalla recente ricerca dell’Università del Minnesota, che ha rilevato come nonostante il 40% degli atleti sia di sesso femminile, la copertura mediatica degli sport femminili sia solo del 4%. Non solo: il dossier evidenzia la tendenza dei media ad assecondare commenti stereotipati sul fisico delle atlete, sul loro stato familiare e sui loro allenatori (spesso uomini) a cui devono dire grazie. E ancora: nel 47% dei casi le immagini femminili sono quasi soft porn: ammiccanti, svolazzanti, completamente avulse dal gesto tecnico e sportivo proprio.

È indubbio che un’atleta bella, oltre che brava, attiri l’attenzione. Ma questo non deve tramutarsi in un lessico sessista e in pezzi che vadano oltre l’agonismo sportivo.

Il mondo dello sport, sia in Italia che all’estero, è profondamente segnato dalle discriminazioni di genere: si pensi all’egemonia maschile ai livelli dirigenziali, ai divari salariali, all’impossibilità per le donne di scegliere liberamente gli argomenti di cui trattare a livello di media e, ancora, al fatto che le donne raramente vengono interpellate come fonti di notizie. Un’altra discriminazione ricorrente nel mondo dell’informazione riguarda la narrazione della violenza di genere, appunto, che spesso riproduce stereotipi e pregiudizi a danno delle donne.

Altrettanto problematica è la questione delle molestie nell’esercizio della professione giornalistica. Vale a dire minacce e intimidazioni, spesso online, che le giornaliste ricevono per il solo fatto di essere donne, poche volte per il lavoro che svolgono. Secondo una ricerca dell’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, qualunque argomento trattato può diventare motivo di insulti o aggressioni, ma quando sono in ballo questioni di genere e questioni sociali, la probabilità aumenta. Questi episodi di violenza impattano fortemente sulla vita delle giornaliste, sia a livello professionale che nel privato: spesso si trovano a doversi cancellare dai social, o a proseguire il proprio lavoro in anonimo se non, nel peggiore dei casi, a terminare la propria carriera.

Non è raro che la violenza si consumi anche all’interno delle stesse redazioni. In un’indagine della Federazione nazionale stampa italiana, l’85% delle giornaliste intervistate dichiara di aver subito molestie sessuali nel corso della carriera lavorativa, a partire dalla ricerca del lavoro. Un altro elemento preoccupante è il fatto che più della metà degli episodi è avvenuta in redazione, e in pochi casi c’è stato un intervento esterno.

Gli episodi di sessismo nello sport non sono diminuiti neanche da quando è aumentato il numero di donne che ricopre ruoli tradizionalmente maschili, anzi sono aumentati, come nel caso delle arbitre di calcio e delle battute più o meno velate nei confronti delle calciatrici

Da discriminazione a discriminazione: il gender pay gap

Il sessismo nello sport costituisce una manifestazione unica e spesso sottovalutata della discriminazione di genere. 

Contrariamente a molte altre organizzazioni, che affrontano forme più sottili di sessismo, questa presenza nello sport persiste in modo aperto e spesso ignorato

Le azioni sessiste nello sport si svolgono sotto gli occhi di tutti, ma la loro pervasività è talmente radicata nella cultura sportiva, che spesso sfugge alla consapevolezza generale.

La diffusione di tali atteggiamenti non solo compromette l’efficacia organizzativa nello sport, ma contribuisce anche a perpetuare stereotipi di genere che limitano le opportunità sociali, economiche e politiche delle donne al di là dello sport.

E infatti c’è un tema, legato all’uguaglianza di genere, che rappresenta ancora un grande problema per le giocatrici e per chi si occupa di loro.

E sto parlando del gender pay gap. Per “gender pay gap” si intende la persistenza di una retribuzione diseguale tra atleti e atlete. Nello specifico, le atlete non ricevono un reddito uguale a quello delle loro controparti maschili, a seconda dello sport preso in esame. Secondo una recente ricerca condotta dalla BBC, circa “l’83% delle società sportive, al giorno d’oggi, retribuisce uomini e donne in modo uguale”. Tuttavia, sembra proprio che il divario retributivo nello sport non si sia ridotto, né tantomeno che sia scomparso. 

In più, la copertura mediatica non solo aumenta la popolarità degli atleti maschi, ma rivela anche la natura commerciale dello sport. Gli sport maschili hanno valori di produzione più elevati e sembrano sempre più eccitanti. Ad esempio Novak Djokovic, uno dei migliori tennisti al mondo, ha affermato che gli uomini meritano di essere pagati di più delle giocatrici perché “le statistiche mostrano che abbiamo molti più spettatori” il che significherebbe che gli atleti maschi hanno più interessi e attenzione. La logica economica sostiene che il pubblico determina il valore commerciale di uno sport, poiché i produttori sperano di attirare più pubblico per aumentare i propri profitti. E questo fattore può influenzare la copertura mediatica delle atlete.

Nonostante la partecipazione in aumento delle donne nello sport,nel corso degli anni, la copertura mediatica riservata alle atlete è rimasta invariata. Ma la visibilità dello sport femminile è necessaria per il suo progresso, ed è un fattore determinante per colmare il divario retributivo. Gli accordi di trasmissione e l’esposizione televisiva svolgono un ruolo importante nella capacità degli atleti di ottenere sponsorizzazioni. Con l’aumento del marketing televisivo arrivano sponsorizzazioni più redditizie, e questo guadagno porterà ad un aumento dei salari. Mentre la copertura mediatica delle atlete è carente nei media tradizionali e online, gli account social personali offrono alle sportive nuovi mezzi per ottenere visibilità, promuovere se stesse, sviluppare una fanbase ed eliminare i tradizionali stereotipi di genere dello sport. Per intenderci, nel 2018 la WNBA ha attirato circa 7.716 fan a partita, e cioè più di 10.000 fan in meno rispetto alla NBA. Di conseguenza, le squadre femminili hanno venduto meno biglietti e hanno generato meno entrate. Tuttavia, il divario retributivo tra giocatori e giocatrici è estremo, e supera di gran lunga queste differenze nelle entrate. Restando sempre in tema basket: nel 2019, il giocatore NBA medio ha guadagnato circa 8.321.937 milioni di dollari, mentre una giocatrice media della WNBA ha guadagnato 75.181 dollari. E i guadagni delle giocatrici, in percentuale ai profitti della lega, sono cambiati nel corso del tempo, tanto che le giocatrici della WNBA sono arrivate a guadagnare, recentemente, solo il 21% delle entrate della lega. Ma, oltre alla quantità, conta anche la qualità della copertura mediatica. La rappresentazione mediatica delle atlete tende ad essere meno professionale e, talvolta, implica anche contenuti umilianti o sessualizzati, invece di puntare a mettere in risalto le loro capacità atletiche.

Abbiamo poi anche la maternità, che riduce il guadagno delle atlete poiché tante perdono la possibilità di partecipare ai vari tornei a causa delle loro condizioni fisiche. Sappiamo tutti bene quanto tempo, dopo il parto, ci impieghi una donna per riprendere ad allenarsi e ritornare in forma. Il problema? La gravidanza comporta una differenza commerciale, che si riflette principalmente sugli accordi di sponsorizzazione. A Kerri Walsh, giocatrice professionista di beach volley, i propri sponsor hanno detto di trattenersi dal mettere in piedi una famiglia, mentre la snowboarder Kimmy Fasani ha dovuto affrontare la paura di perdere i suoi contratti di sponsorizzazione quando ha scoperto di essere incinta. Per non parlare poi di Dearica Hamby della WNBA, che sostiene di essere stata scambiata dalle Las Vegas Aces proprio a causa della sua gravidanza.

Dalla storica lettera di denuncia di Serena Williams a The Guardian, fino ad arrivare alle calciatrici americane che hanno fatto causa alla loro stessa Federazione a causa di discriminazione di genere, gli esempi di donne che stanno lottando per cambiare lo status quo sono tanti. Che questo sforzo non abbia ancora portato a troppi risultati concreti è perché il divario salariale di genere è un problema strutturale, con radici assai profonde. Il problema di fondo è l’idea che tale divario sia quasi “giusto” in quanto lo sport femminile è comunemente meno seguito, perché meno spettacolare e meno atletico.

Ma torniamo seri per un attimo

Non possiamo di certo sorprenderci di quanto lo sport sia pervaso dal maschilismo più becero, né del sessismo che permea le trasmissioni sportive con la sfilza di episodi successi negli ultimi giorni. Anche perché non sono così tanto lontani i tempi in cui Felice Belolli definiva le giocatrici della nazionale “quattro lesbiche” alle quali bisognava smettere di dare soldi. 

Non possiamo sorprenderci no, ma dobbiamo arrabbiarci. Perché è giusto. Il sessismo nello sport è strumento per sovvertire e contrastare gli stereotipi di genere

Perché? Perché le cose stanno cambiando. Le calciatrici, ad esempio, non sono più disposte a subire discriminazioni restando in silenzio. Le atlete delle Nazionali stanno rivendicando l’accesso al professionismo: perché una donna in Italia, per definizione, può fare sport solo per diletto. 

Non si ottengono ancora le risposte sperate dalle federazioni e dal Coni, è vero. Siamo ancora lontane.

C’è ancora tanta strada da fare. E ancora tanto voltastomaco da provare, mi perdoni Fulvio Collovati per la citazione. E noi siamo pronte a provarlo, poiché sappiamo che l’autodeterminazione in questo paese innesca resistenze e reazioni ancora violentissime, ma non a sopportarlo. 

Non sopportiamo gli attacchi sessisti (espliciti o benevoli che siano) a Wanda Nara nel ruolo di procuratrice, non sopportiamo Alessandro Costacurta che afferma che se fosse stata sua moglie l’avrebbe cacciata di casa (da buon marito-padrone), non sopportiamo che Collovati affermi in una trasmissione pubblica che una donna non può capirci di tattica come un uomo e che anche solo fare un tale pensiero gli provochi il voltastomaco. 

Non è accettabile che i professionisti della comunicazione si sentano autorizzati a manifestare il proprio maschilismo interiorizzato con delle battute, anche quando per giustificarsi sottolineano che le battute sono state rubate a microfoni spenti. Perché se è vero che nessuno può questionare sul nostro libero pensiero privato, è altrettanto vero che se vogliamo rendere inerte il seme della violenza di genere è proprio sul nostro pensiero privato che siamo chiamati ad agire.

Tutti, nessuno escluso. 

 

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