Andrew Wiggins al momento non sta giocando. A causa di “motivi personali”. O, meglio, “problemi famigliari”. Di nuovo. Per la seconda stagione consecutiva.
Il giocatore dei Golden State Warriors è stato assente dal campo per ormai una settimana intera. Ha saltato 4 partite fino ad ora. E, ancora una volta, non c’è una data di ritorno. Nemmeno una tempistica indicativa.
L’assenza ha fatto andare in ansia molte delle persone che popolano la fanbase di Golden State, tanto che alcuni si sono persino sentiti in diritto di dire cose del tipo: “Viene pagato un sacco di soldi! Dovrebbe giocare! Non posso credere che i Warriors gli permettano di farla franca!”.
Nel frattempo, lo staff tecnico, come ha fatto la scorsa stagione, si sta mostrando paziente e sta rispettando la privacy di Wiggins.
Esattamente come dovrebbe essere. Lo staff tecnico del team non pretende di conoscere le ragioni dell’assenza di Wiggins, e non intende metterlo sotto sorveglianza, nella speranza di scoprire la verità.
Alcune cose sono più preziose di qualsiasi partita, di qualsiasi sport. Più importanti della vittoria di qualsiasi campionato o dell’inserimento in qualsiasi Hall of Fame.
“Quando ti trovi in una certa situazione e la tua famiglia ha bisogno di te, è la mia priorità” ha detto Wiggins. “Nella mia carriera, la famiglia è sempre al primo posto. Sarà sempre così”.
E questo, come anche il fatto che i problemi famigliari abbiano un forte impatto sulla mente e sulla salute mentale di una persona, è un qualcosa che tutti dovremmo capire.
Gli Warriors la stanno gestendo nella maniera più corretta possibile.
Quando Dejan “Deki” Milojević, l’assistente allenatore più amato dalla squadra, è morto a gennaio, tutti gli Warriors hanno sentito una scossa. Il gioco è stato messo un attimo da parte.
Quindi, per quanto gli Warriors vogliano avere Wiggins al loro fianco, sanno che è dove dovrebbe essere.
NBA, caso Wiggins: come la lega e lo sport affrontano la questione della salute mentale?
Uno se li immagina forti, competitivi. Gli atleti non potranno mai sentirsi persi. E invece.
Quando, in una notte di aprile del 1993, un uomo chiamò la polizia di Detroit per chiedere aiuto a seguito del tentato suicidio di Dennis Rodman, quello rimase in silenzio per parecchi minuti. Rodman fu poi trovato con un fucile nel parcheggio dell’arena.
Durante l’All Star weekend 2018, DeMar DeRozan scosse il mondo con un tweet: “This depression get the best of me”. Le nubi non si curano di chi possano oscurare. Eppure DeRozan aveva visto morire famigliari e amici a causa di sparatorie. E aveva avuto tutto.
Rui Hachimura, dopo i Giochi di Tokyo 2020 ha saltato 39 partite per motivi personali. Non si sentiva pronto. Eppure, aveva toccato il momento di maggiore fama.
Ray Allen, ammise di soffire di un disturbo ossessivo-complusivo.
Mitchell Robinson ha raccontato della sua battaglia contro la depressione. “Ho combattuto con questo problema per tutta la mia vita. Alcuni giorni mi sembra di fare 10 passi avanti, altri mi sembra di farne 20 indietro”.
Ricky Rubio ha annunciato che avrebbe lasciato la NBA dopo 12 anni. ”Il 30 luglio è stata una delle serate più difficili della mia vita. La mia mente è sprofondata nell’oscurità. Sapevo che stavo andando in questa direzione, ma non avrei mai pensato di non avere il controllo della situazione. Il giorno dopo ho deciso di interrompere la mia carriera professionale. Volevo mandarvi questo messaggio oggi perché la mia carriera in NBA è finita. Un giorno, quando sarà il momento, vorrei condividere tutta la mia esperienza con tutti voi in modo da poter aiutare altri che stanno attraversando momenti simili. Fino ad allora, vorrei mantenerla segreta, perché sto ancora lavorando sulla mia salute mentale”.
Andre Drummond ha ammesso pubblicamente di avere problemi. “Quando vieni qui e giochi, c’è anche un lato umano da tenere presente. É triste vedere qualcuno passare questo tipo di momenti. Le persone pensano che le vite dei giocatori siano assolutamente perfette, ma non è così. Siamo tutti imperfetti. Tutti abbiamo sfide e problemi da affrontare. Se anche tu hai problemi con la tua salute mentale, non ti preoccupare. Non sei solo. Non c’è niente di male nel chiedere aiuto.”
Kevin Love decise di avviare un programma di salute mentale, dopo i tanti già ideati per aiutare i rookies ad ambientarsi e adeguarsi. Ognuno ha i suoi motivi, e a volte è anche difficile trovarli. Ma negare è peggio.
L’associazione americana dei medici sportivi scrive che, oltre ai fattori scatenanti a noi comuni, lo sportivo può cadere in depressione per infortuni, fallimenti, ritiro dall’attività, eccesso di allenamenti e competizioni, senso di inadeguatezza.
Ma la vera domanda è una sola. Curarsi o non curarsi? È una scelta che permea gli spogliatoi NBA ogni giorno, perché gli atleti professionisti cercano di affrontare silenziosamente i problemi. Il pregiudizio è uno, sempre solo uno. Che aumenta quando i “colleghi” scoprono che sono sotto farmaci. È un rischio che alcuni giocatori credono non valga la pena correre, perché potrebbe condizionare le loro carriere.
Un esempio? Jalen Rose era entusiasta quando fu mandato agli Indiana Pacers nel 1996. Aveva legato immediatamente con il presidente Donnie Walsh, ma non era in buoni rapporti con coach Larry Brown. A detta sua quest’ultimo lo fece convocare nella palestra per gli allenamenti, dove un medico della squadra gli fece una serie di domande. Gli fu comunicato che aveva la ADHD e che aveva bisogno di farmaci. “Ora, io probabilmente avevo la ADHD e forse ce l’ho ancora” afferma Rose. “Ma credo fosse solo un modo per giustificare il mio ‘non utilizzo’ in campo.” Rose non ricorda cosa gli prescrissero i Pacers, ma afferma che non ha mai preso nessuna di quelle pillole. Non appena lo rifornivano, le gettava nella spazzatura. “Sono sicuro che ci sia ancora qualcuno nella lega che abbia la ADHD e sia sotto farmaci, ma non lo vuole dire. Quello che sto dicendo è solo che le medicine non sono la giusta soluzione per tutti.”
Il Dott. William Parham, psicologo che era stato assunto dalla NBPA per monitorare il crescente aumento di disturbi della salute mentale, ammette che alcuni tipi di problemi possono richiedere l’intervento di farmaci. “Ma i farmaci curano i sintomi, non i veri problemi” afferma.
Mentre la percentuale di giocatori NBA affetti da OCD è bassa, il dibattito sui farmaci riguarda soprattutto l’ansia, la depressione e l’ADHD. E secondo John Lucas (che gestisce per gli atleti un programma di benessere e recupero dall’abuso di sostanze), dilaga nella NBA.
“Ho allenato molti ragazzi che sono stati messi sotto farmaci per curare l’ADHD, sebbene non lo volessero” spiega. “Ne avevano bisogno, non volevano essere troppo rilassati in campo ma, allo stesso tempo, avevamo bisogno che giocassero a quel ritmo frenetico. Così, quando il giocatore di turno è sotto farmaci, gli allenatori dicono ‘Perché non possiamo avere di più da lui?’. Però, d’altro canto, quando le prende le medicine, dicono ‘E’ il giocatore che voglio’. Il problema è che il giocatore in questione non sa come spegnere quella rabbia quando finisce la stagione.”
Coach Doc Rivers racconta che, quando era alla guida dei Boston Celtics, si sottopose ad un test della personalità, il cui esito mostrò che era affetto da ADHD.
“Ritengo che la maggior parte dei giocatori professionisti abbia qualcosa” afferma. “Non lo so con certezza. Sono iperattivi, competitivi, ma è anche quello che dà loro energia e li fa andare avanti. Non mi importa cosa abbiano. Sono persone”.
Anche Jeanie Buss aveva esperienza per quanto riguardava la salute mentale. Qui si torna indietro, ai tempi di Ron Artest. Una sua crisi condusse infatti ad uno degli episodi più bui della storia della NBA, una rissa che nel 20024 coinvolse anche alcuni fan. Negli anni seguenti, ad Artest furono prescritti degli antidepressivi, ma lui li buttò nel water e tirò l’acqua (letteralmente). Solo l’incontro con lo psicologo Santhi Periasamy lo ha aiutato. E, quando vinse il titolo nel 2010, Artest ringraziò pubblicamente il Dott. Periasamy per aver salvato la sua carriera.
Eppure c’è chi non la pensa così. La scelta di curarsi, secondo Larry Sanders, gli è costata la carriera. Era una giovane stella nascente, ma ansia e depressione lo hanno portato a cercare sollievo nella marijuana. Fino a dover prendere la decisione di abbandonare il basket nel 2015. “C’è ancora molto da rimproverare alla NBA per il fatto che preferiscono il sottoprodotto (la marijuana, n.d.r.) invece di scavare a fondo e cercare la vera causa dei problemi” spiega Sanders. “Tutti dicono che il gioco è per il 90% una cosa mentale, ma non ne teniamo conto in quel senso. Quello di cui la NBA ha paura è che un giocatore possa dire ‘Oh, sono depresso’ e fumi marijuana. Questo è il più grande incubo della lega. C’erano delle medicine che mi volevano far prendere ma io rifiutai. La mia soluzione personale era fumare marijuana.”
Il THC è uno dei 113 componenti chimici presenti nella foglia della marijuana, di cui è stata provata la maggiore psico-attività. E poi c’è l’alcol.
Coach Dwane Casey conferma che l’abuso di alcool è ben presente nella NBA. “Troppi ragazzi ci si rivolgono. Non c’è dubbio che questo sia riconducibile alla stigmatizzazione di essere sotto cura. Sento giocatori dire: ‘ Oh, potrei non perdere la mia determinazione e la mia forza’. Quando, in realtà, non è assolutamente vero.”
E, oltre i nomi appena fatti, ce ne sono tanti da snocciolare. Che hanno vissuto tutto questo in prima persona.
Molti tra i giocatori citati ritengono che la NBA dovrebbe imporre ad ogni squadra di avere un piano completo sulla salute mentale e, come requisito fondamentale, la riservatezza. Al momento, ogni franchigia può offrire dei servizi.
Coach Lucas afferma che è essenziale, per il personale NBA, identificare il prima possibile i giocatori con problemi di salute mentale e di essere più propositivi nel convincerli a chiedere assistenza psicologica.
“Il ragazzo che in viaggio si isola è quello che soffre di depressione. È facile da identificare. È sempre solo e non esce mai. Il ragazzo che ha la ADHD è quello che non ce la fa neanche a sedersi. Quello con la OCD è ossessionato anche solo da un pezzo di carta finito sul pavimento. Dico sempre agli allenatori che se quelli fossero i loro figli, li tratterebbero in maniera diversa”.
NBA e salute mentale: DeMar DeRozan rompe il silenzio. In arrivo “Dinners with DeMar”
Era il 17 Febbraio del 2018 quando DeMar DeRozan scagliò questo fulmine a ciel sereno.
Si aprì con esemplare serenità a raccontare delle sue fragilità e di un ritrovato equilibrio interiore, raggiunto solo grazie al percorso terapeutico. Non appariva un uomo sconfitto, imbarazzato. Sembrava in perfetta antitesi con l’immaginario pietoso e isterico con cui il pensare comune ama ritrarre il disagio.
La sua lucida confessione aprì un varco in quel velo mistificatorio che sottopone gli atleti al peso di una perfezione malsana, imprigionandoli nello stereotipo di “super-umani” ai quali non può essere concesso il “lusso” di perdere il controllo.
DeMar DeRozan ha spesso parlato del suo ruolo di leader nella difesa della salute mentale. Ora, il giocatore degli Chicago Bulls sta portando il suo impegno ad un altro livello.
DeRozan ha un messaggio per tutti coloro che si sentono soli, confusi o spaventati. Non importa se famosi o meno. O ricchi. O genitori, o studenti o qualsiasi altra cosa. Il messaggio di DeRozan è per loro. Per tutti noi.
“Ricordate che siamo tutti esseri umani” sostiene. “Stiamo tutti attraversando dei momenti difficili. Tutti noi. Quindi, pensate a come aiutare il prossimo. Non importa come ci si sente, non bisogna arrenda. Non bisogna sentirsi come se fossimo il centro del mondo. Il mondo a volte può essere un posto duro in cui vivere. Ma non importa, non siamo soli”.
DeRozan non è solo un giocatore di pallacanestro. E ora ha fatto qualcosa di concreto. Sta per lanciare “Dinners with DeMar”, una nuova serie di cortometraggi che presenta conversazioni a tu per tu non solo con i suoi “colleghi” della NBA, ma anche con altri intrattenitori e celebrità.
Il comunicato stampa dice che la serie conterrà “conversazioni autentiche, non provate e non filtrate sulla salute mentale” e sarà presentata in anteprima sul canale YouTube di DeRozan.
Dire che questa serie è innovativa sarebbe un eufemismo. È esattamente il tipo di discussione che può salvare la vita di qualcuno. In genere, questo è ciò che accade quando le conversazioni sulla salute mentale escono dall’ombra e lo stigma che c’è su di esse viene eliminato.
Il creatore e produttore esecutivo della serie è Brett Rapkin, che ha fondato Podium Pictures. Il suo documentario del 2020 “The Weight of Gold” ha preso in esame alcuni problemi con la salute mentale di vari atleti olimpici, ed è stato candidato per un Emmy Award sportivo.
La prima stagione, disponibile dal 20 febbraio, prevede 3 episodi.
Il primo vede protagonista Draymond Green, che parla della sua sospensione a seguito dell’incidente con Jusuf Nurkic. Il tutto, a seguito di una sospensione per aver “messo in difficoltà” Rudy Gobert.
Il secondo episodio ha come protagonista Dwyane Wade. L’Hall of Famer parlerà nel cortile di casa di DeRozan, molto informalmente, della paternità e di come la presenza della sua famiglia abbia normalizzato la terapia.
Nel terzo episodio DeRozan parlerà invece con Damian Lillard.
DeRozan ha spiegato che le discussioni sulla salute mentale sono molto più frequenti nella NBA rispetto al passato, ma è necessario fare di più.
“Quando si parla di giocatori, ci si sofferma sempre alla superficie” ha detto. “Ma c’è molto di più in noi. Si parla delle proprie famiglie, dei propri sogni, di tutte le cose che ci rendono umani. Credo che questa sia una delle cose che voglio far capire di più. Che quando si tratta di salute mentale, i giocatori della NBA non sono così diversi da chiunque altro. Tutti hanno una storia da raccontare, che siano sotto i riflettori o meno. Io ce l’ho, voi ce l’avete. Tutti noi”.
Sport e salute mentale, non solo la NBA. Sempre di più gli atleti che chiedono aiuto
Come la prima tessera di un domino, il passo di DeRozan ha dato la forza a tanti altri per uscire allo scoperto.
Pochi mesi dopo, Kevin Love confessò di aver combattuto contro attacchi di panico e crisi depressive. Love non ci disse nulla di nuovo rispetto a quello su cui, già negli anni ’80 ironizzavano i The Cure nel singolo “Boys don’t cry“: la retorica machista del 20esimo secolo non permette agli uomini di vivere le proprie emozioni.
Non piangere, non essere fragile. Se proprio devi esserlo, fai in modo che nessuno lo sappia: un’incudine oscilla sopra la testa di ogni uomo, che mostra a caratteri cubitali la parola “debole”.
E non c’è solo la NBA.
Negli USA, un adulto su cinque è colpito da depressione. I giocatori NFL corrono più rischi a causa dei colpi subiti e delle commozioni cerebrali. Ma la Major League, ad esempio, non è esente.
Nel nuoto, Michael Phelps ha rivelato di soffrire di depressione. Pioniere di questa campagna di consapevolezza e normalizzazione, nel 2016, alla vigilia delle Olimpiadi di Rio, ha dichiarato il tutto e ancora oggi si impegna attivamente affinché chiunque soffra di questo disturbo non si senta solo. Il campione ha ammesso di avere avuto frequenti episodi di depressione, soprattutto nel post-Olimpiadi. Dopo mesi di allenamenti estenuanti, nei quali la pressione è fortissima e si è costretti ad andare oltre qualsiasi limite, si conquista l’oro e si torna a casa, dove ad aspettarlo c’è solo il vuoto e l’angoscia. Una condizione da cui non si può mai uscire, ma che si può riconoscere. La consapevolezza che va bene sentirsi “vuoto” è stata motivo di riscatto e, oggi, il suo obiettivo è quello di normalizzare questo disturbo.
Naomi Osaka si ritirò dal Roland Garros per un motivo simile. La tennista ha preso questa decisione a causa della sua depressione e della sua ansia (principalmente legata al parlare con i media). Era infatti stata minacciata di squalifica dagli organizzatori del torneo dopo aver rifiutato di tenere una conferenza stampa obbligatoria dopo la vittoria al primo turno contro Patricia Maria Tig. Il caso evidenzia il ruolo dei media e degli sponsor come fattori che influenzano il disagio mentale.
Nella NFL, Steve Smith ammise, una volta finita la carriera: “Quando giocavo mi sentivo intrappolato, inferiore e solo. E tutto questo mi spezzava”.
Il modello occidentale dell’eroe deve molto alla mitologia greca. Achille, tanto forte da far tremare i propri avversari o Ettore: guerriero valoroso, padre, marito e fratello esemplare. Eppure, ciascuno di loro è descritto da Omero nel suo aspetto più fragile: il momento del pianto, del terrore, della follia. Questi aspetti non appaiono mai in contrasto con la dimensione valorosa dell’eroe, ma ne sono parte integrante, perché nella visione omerica la fragilità nobilita l’uomo e ne esalta la forza d’animo.
Achille abbraccia Priamo, suo nemico, piangendo con lui per i cari persi in guerra. Ettore trema per un’intera notte tra le braccia di sua moglie, prima di affrontare il suo ultimo duello.
Se questi erano i modelli maschili per eccellenza, perché un ragazzo ad oggi dovrebbe sopportare lo stigma della vergogna e della debolezza se avvertisse la necessità di aprirsi e mostrare le proprie inquietudini? Quando la potenza starebbe nell’accettare la nostra natura. Accettare di essere dei sistemi caotici, sensibili e fragili.
In quest’ottica, l’esempio di uomini come DeMar DeRozan, Kevin Love, Michael Phelps fondamentale se si vuole innescare un’epidemia di onestà, che sgretoli quel monumento che è il machismo, ridando agli uomini il potere: quello di essere se stessi e chiedere aiuto.
Gli atleti sono incubatori di valori sociali, simboli su cui proiettare i sogni e le aspirazioni più recondite dell’uomo comune.
La nascita di questo nuovo modello di atleta, che basa la propria forza e il proprio messaggio sull’accettazione dell’imperfezione, non è un’anomalia. E’ la proiezione di un bisogno delle nuove generazioni.
Salute mentale, un “tabù” ancora in vita: è ora di tendere una mano agli atleti
Tanti studi scientifici hanno dimostrato come gli atleti professionisti corrano un rischio di soffrire di disturbi mentali maggiore rispetto al resto della popolazione. Lo sport agonistico richiede uno sforzo fisico unico rispetto a qualsiasi altro lavoro, ma pretende anche un enorme sforzo mentale ed emotivo.
Un atleta professionista deve allenare il corpo, ma anche la concentrazione e la precisione. Deve fare scelte complesse in poco tempo e pensare a molte cose contemporaneamente. Dal punto di vista emotivo, deve far fronte alla pressione di sponsor, allenatori, compagni, fans, le proprie aspettative.
Se questi fattori erano validi anche in passato, negli ultimi decenni l’avvento dei social media ha aggiunto un’ulteriore fonte di stress. Essere sotto lo sguardo del mondo, oggi significa anche leggere i commenti non sempre piacevoli dei followers, che possono peggiorare un equilibrio mentale già messo a dura prova dai fattori precedentemente elencati.
Ci sono però alcune modalità che, se messe in atto, possono migliorare la situazione.
Da dopo la sospensione di Sanders, la NBA ha varato la propria linea politica sulla salute mentale e ha inviato un promemoria interno a tutte le sue squadre con le linee guida da seguire, tra cui: garantire la privacy del giocatore per quanto riguarda la sua salute mentale, assumere e mantenere uno specialista con esperienza nel campo dei problemi di salute mentale, trovare uno psichiatra sempre disponibile per i giocatori, fornire alla squadra materiale informativo e di sensibilizzazione sulla salute mentale.
L’eccezionale lavoro fatto da ESPN ha portato alla luce come paranoie, ansie e insicurezze spesso affollino la testa dei campioni. Per questo la lega, nel 2019 ha pubblicato un comunicato stampa.
“Tutti i nostri uffici hanno fatto enormi passi avanti nel preparare dei programmi per il benessere psico-fisico, una struttura che noi vi incoraggiamo a utilizzare per gestire lo stress, l’ansia e tutta quella gamma di problemi. È un passo in avanti cruciale per far capire ai compagni di squadra e ai tifosi che raccontare è un segno di forza, non di debolezza. Chiedere aiuto vuol dire avere coraggio”.
Sottolineatura ulteriore, per ribadire l’intenzione di supportare tutte le azioni predisposte a cambiare la società, in meglio.
Una cosa che conta adesso più che mai, e che l’associazione giocatori supporta in ogni modo da anni: “Siamo sempre disponibili ad aiutarvi a trovare il modo più significativo per fare la differenza. Saremo d’appoggio alle attività per le famiglie, per incoraggiare il coinvolgimento civile delle comunità, per amplificare il messaggio di uguaglianza, diversità e inclusione promosso dalla nostra organizzazione”.
Un passo avanti dunque, ancora una volta. Sempre più atleti e squadre ormai ricorrono all’aiuto medico di psicologi e psichiatri. E a volte non basta. Perché i campioni sono come noi. Persone.