Home NBA, National Basketball AssociationApprofondimenti Andre Iguodala: la carriera da Springfield a “Il Sesto Uomo”

Andre Iguodala: la carriera da Springfield a “Il Sesto Uomo”

di Gianluca Bortolomai
Mercato NBA

Per arrivare da Andre Iguodala a “Il Sesto Uomo” bisogna partire dal febbraio 2018. La giornalista di Fox News Laura Ingraham lancia un attacco grave a LeBron James e Kevin Durant, rei di aver espresso la propria opinione sul Presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

“Shut up and dribble. State zitti e giocate.

Quasi come se parlare di argomenti extra sportivi quando sei un atleta sia un crimine. Iggy non ha colto questo suggerimento e, nel giugno del 2019, ha pubblicato la sua autobiografia ‘The Sixth Man‘, arrivata a noi quest’anno, in cui racconta con lucidità e chiarezza la sua carriera e tanti retroscena scomodi sul basket collegiale e professionistico. Quei retroscena hanno fatto storcere il naso a molti, sempre sulla falsariga del “Stai zitto e gioca”. Guadagni cifre astronomiche facendo lo sport che ami, perciò limitati a quello. Non hai diritto ad un’opinione, non hai diritto alla libertà di parola, a maggior ragione se sei un giocatore nero.

Andre Igudoala buyout

Andre Iguodala.

Iguodala ha preso ogni esperienza della propria vita personale e professionale e l’ha analizzata con l’occhio critico di chi non vuole sottomettersi a questo tipo di sudditanza, dai primi passi mossi al campetto fino ai titoli con i Golden State Warriors. Ad aggiungersi è arrivata anche un’altra finale quest’anno con Miami, non raccontata in questo libro, per la quale Iggy è diventato il decimo giocatore nella storia NBA a raggiungere 6 Finals consecutive.

Ma partiamo dall’inizio…

L’importanza della lettura

Iguodala nasce a Springfield, Illinois. La mamma, Linda Shanklin, era una ex giocatrice di basket di un metro e ottantadue; il papà, Frank Sr, un ragazzo nigeriano arrivato in America per lavoro.

Linda è una figura fondamentale nella vita di Andre, gli insegna tutto quello che c’è da sapere sulla vita che un ragazzino nero vive quotidianamente circondato dai bianchi. Lui impara, assorbe, non è mai scomposto, non si trova mai nel posto sbagliato al momento sbagliato. E, a differenza di tanti della sua età, legge. Legge tanto, legge libri, legge giornali, si informa sul mondo che lo circonda.

La lettura gli dà un’arma in più, che non sempre è concessa a ragazzi che crescono in quartieri svantaggiati. Cresce come uno studente diligente, i voti sono sempre ottimi, tanto da garantirgli l’accesso ad una classe di livello superiore, dove avviene il primo vero contatto con il mondo reale. Andre entra in classe, una classe esclusivamente bianca, e la maestra controlla più e più volte la sua tabella oraria per essere sicura che sia nel posto giusto. Ma come detto prima, non si trova mai nel posto sbagliato.

Impossibile immaginare le sensazioni che può aver provato un bambino in una situazione del genere, umiliato davanti ai suoi coetanei come se non fosse degno di sedere con loro. Ma in Andre scatta qualcosa, uno spirito competitivo verso gli altri e verso sé stesso. Vuole fare in modo, e tenerlo a mente per tutta la vita, che nessuno lo sottovaluti o metta in dubbio le sue capacità, dentro e fuori da un campo di basket.

All-American

Molto spesso nelle high school i giocatori devono tenere un punteggio minimo per dimostrare di non essere solo atleti ma anche studenti. Per Iggy non è mai stato un problema.

La totale dedizione che metteva sul parquet si estendeva anche ai banchi di scuola, perciò il suo score non è mai stato messo in discussione. In campo invece il percorso è diverso: non è un giocatore dal talento innato come Jordan, LeBron e Kobe, tutto quello che fa deriva dal duro lavoro e dalla volontà di diventare un giocatore di basket professionista.

Comincia a frequentare la Lanphier HS, sempre a Springfield, dove si avvicina alla pallacanestro come rampa: è un basket giocato per impressionare, mostrare le proprie qualità, farsi notare dagli scout. Andre non gioca così, fa il suo compito con serietà, mettendo in campo quello che è meglio per la squadra e non per sé.

Gioca per le due squadre del liceo: il team minore, dove si ritaglia minuti importanti ed è la star, e i Senior, in cui il minutaggio si riduce di molto. Ciononostante viene visto ed invitato ai vari tornei AAU e le sue doti offensive cominciano ad affinarsi: al suo secondo anno tiene una media di 24 punti, 8 rimbalzi e 4 assist, garantendosi il premio di Giocatore dell’Anno dal Chicago Tribune e diverse nomination come All-American.

La rampa di lancio è pronta, resta solo da capire con chi spiccare il volo.

La scelta ricade sulla University of Arizona.

 

Da Springfield all’Arizona

Va detto che questa non è stata la prima scelta per Iguodala. La sua volontà era quella di giocare sotto coach Nolan Richardson degli Arkansas Razorbacks, un college ‘minore’ ma allenato da un afroamericano.

La coscienza sociale di Andre a questo punto è già molto forte e una scelta di questo tipo, dettata dal cuore e non dalla testa, sembrava l’unica possibile. Il coach viene però licenziato poco prima dell’ufficialità della scelta e così decide di ripiegare sui Wildcats di Lute Olson, il leggendario condottiero di Arizona nel titolo NCAA del 1997.

Andre Igoudala con coach Lute Olson.

Il rapporto però non decolla: i risultati in campo si vedono, Iggy migliora, lavora duro come nessuno, si butta a capofitto nella pallacanestro pur restando uno studente di primo livello, eppure la scintilla tra lui e Olson non scatta. Al suo anno da Sophomore Andre viene inserito tra i potenziali prospetti del Draft eppure il coach non sembra convinto a volerlo lasciare andare. Come mai? Sembra inspiegabile, il talento è fuor di dubbio, nessuno pensa che Iggy non riuscirebbe a sfondare nei Pro eppure Olson lo frena.

L’allenatore non voleva rinunciare a lui, anche a costo di demotivarlo e fargli perdere fiducia in sé.

Capito questo, la linea è tracciata. Andre Iguodala sarà tra le scelte del Draft 2004.

Conosce Rob Pelinka, agente con un curriculum di tutto rispetto e un cliente che spiccava su tutti, Kobe Bryant. Il rapporto con lui è fin da subito disteso, Rob sembra sinceramente interessato ad ottenere il massimo per Andre e muovendo le giuste leve arriva il prospetto di una chiamata alta al Draft 2004.

Dopo tanta attesa Iggy entra in NBA con la scelta numero 9, quella dei Philadelphia 76ers.

 

Gli anni a Philadelphia

L’ultimo risultato di prestigio ottenuto da quei Sixers era la finale del 2001 contro i Lakers. Poi più nulla. Apparizioni ai playoffs non indimenticabili e un Allen Iverson sempre più vicino alla partenza. Il passaggio del testimone, seppur con le dovute proporzioni, avviene due anni dopo.

Andre Iguodala ai tempi dei Philadelphia Sixers.

Philly passa da un A.I. ad un altro e Andre si trova ad essere il leader di una squadra senza capo né coda. Gioca 40 minuti a partita, si trova a sentire la pressione, il mondo contro, e non solo dai suoi avversari ma anche dai suoi tifosi. Il clima si fa sempre più teso nel corso dei suoi otto anni eppure Iggy non molla un centimetro, non si tira indietro, non si allena meno duramente.

È sempre il primo in palestra, cerca sempre di dare l’esempio e di guidare i compagni, di accompagnarli piuttosto che trascinarli. Nel 2012 guida i Sixers, ottava ad Est, oltre il primo turno dei playoffs contro i Chicago Bulls. È la quinta squadra nella storia ad eliminare una testa di serie partendo dall’ultimo posto ed è il primo passaggio di turno che Philadelphia vede dal 2003.

Eppure questo non basta: il pubblico di casa non lo apprezza, i giornalisti lo usano come capro espiatorio e la dirigenza decide di non credere più in lui. La storia d’amore-odio tra Andre e i Sixers finisce nell’estate del 2012, col passaggio ai Denver Nuggets.

 

Oakland via Denver

Nella sua unica annata a Denver prima della free agency, i Nuggets centrano il record di franchigia per vittorie in regular season. Con 13 punti, 5 rimbalzi e 5 assist di media Iggy è uno dei migliori della squadra, ma questo non basta ad evitare l’eliminazione ad opera dei Golden State Warriors.

Andre Iguodala con la canotta dei Denver Nuggets.

Gli Warriors sono in ascesa, giocano un basket fresco e divertente, incantano la lega e affascinano perfino Iguodala. Durante l’estate da free agent firma proprio con loro, convinto dal progetto in crescita e diventa un pezzo fondamentale del team di coach Mark Jackson. La permanenza in quintetto base dura però solo un anno. Jackson viene sostituito da Steve Kerr, cinque volte vincitore del titolo NBA, e l’ex tiratore decide di far partire Andre dalla panchina.

Iggy è ancora una volta leader, ma della second unit. Un compito che giocatori meno intelligenti avrebbero visto come un declassamento, e per Andre nello specifico un nuovo modo di criticare e svalutare il suo operato. Ma Iggy ormai lo ha dimostrato, non è un giocatore come gli altri. Accetta di buon grado il nuovo compito ritagliato dal coach e Golden State fa il definitivo salto di qualità.

Certo, gli artefici principali sono altri: Steph Curry, Klay Thompson e Draymond Green danno l’impronta che gli altri, dai veterani ai novizi, possono seguire facilmente. Il gioco scorre fluido, tutti in squadra fanno il proprio lasciando libere le stelle di tirare fuori il loro meglio. Non per nulla quell’anno Curry verrà nominato MVP della stagione regolare. Gli Warriors approdano in finale e trovano ad attenderli LeBron James e i Cleveland Cavaliers.

Neanche a dirlo, il compito ingrato di marcare il Re tocca ad Iggy, sempre in partenza dalla panchina. Dire che LBJ è un cliente difficile è l’eufemismo per antonomasia: chiuderà quella serie con 35.5 punti, 13.3 rimbalzi e 8.8 assist di media, cifre senza senso per qualunque altro essere umano. Iguodala però non si tira indietro, fa il lavoro sporco come sempre, lo rallenta, lo induce all’errore e lo costringe a fare affidamento anche sui compagni, meno dotati di killer instinct.

È un piccolo capolavoro: gli Warriors chiudono in sei gare e Andre viene nominato MVP delle Finals, il primo di sempre ad ottenere questo riconoscimento partendo dalla panchina.

 

“Shut up and dribble”

Da Cenerentola che era alla vittoria del primo campionato, Golden State diventa la squadra da battere, la più odiata, e non aiuta che l’anno successivo gli Warriors battano anche il record di vittorie in stagione dei Chicago Bulls di Jordan.

73 partite vinte contro le 9 sconfitte, l’unica squadra di sempre a scendere sotto la doppia cifra in partite perse. Il prezzo è alto però e gli Warriors perderanno le Finals sempre contro Cleveland, perfino dopo essere stati in vantaggio 3-1.

Interviene il mercato però a chiudere i giochi: in estate nella Baia arriva Kevin Durant e Golden State rientra ufficialmente nella definizione di imbattibile. Troppo imbattibile. Andre fa il suo lavoro, come sempre, nonostante la fatica di tanti anni sulle spalle, ma i fischi arbitrali cominciano a non arrivare. Gli Warriors cominciano ad essere maltrattati dagli avversari senza le giuste tutele dalla terna arbitrale finché non si arriva al punto di rottura.

Andre Iguodala e Kevin Durant.

La regola del “zitto e gioca” salta completamente l’11 marzo 2017. I Timberwolves battono Golden State dopo una gara combattuta influenzata da poche chiamate e qualche parola di troppo da parte di un arbitro nei confronti di Andre. In campo incassa silenzioso, ma ai microfoni del post-partita si lascia andare ad uno sfogo tanto rapido quanto sconcertante:

Come risponderebbe un ne***o stupido alle vostre domande? “Giocheremo più duro, ne verremo a capo, arriveranno i cambiamenti”. Volete sentire questo no? Se riposerò domani? Faccio quello che mi ordina il mio padrone.

Iggy paga quello sfogo, ma i compagni sono dalla sua, chi lo conosce è dalla sua. Non sono parole lasciate cadere per caso, sono il frutto della frustrazione di chi per anni si è adeguato allo “shut up and dribble”. Ma questo non è che l’inizio. Vince altri due anelli ad Oakland, arriva vicino al quarto ma gli infortuni condizionano le Finals 2019 e i Toronto Raptors portano a casa il primo anello della loro storia.

È la fine del ciclo di imbattibilità, un ciclo di cui Andre è stato non solo partecipe ma anche artefice, a suo modo.

 

Il Sesto Uomo

A questo punto decide di mettere per iscritto quella che è stata la sua carriera praticamente fino a quel momento, senza sapere che ci sarebbe stato un nuovo capitolo e un’altra finale inseguita insieme ad un gruppo di outsider come lui.

Andre Iguodala Trump

Andre iguodala assieme ai Miami Heat.

Il libro racchiude tutto quello di cui non si dovrebbe parlare: le dinamiche di reclutamento per il college, la falsità di molti agenti, il razzismo, gli arbitraggi dubbi, i sotterfugi interni alla lega. Questo libro vale ogni singolo minuto speso a leggerlo, perché non è solo una storia di pallacanestro, ma una storia di vita. Ad Andre Iguodala non interessa alzare un polverone, interessa solo essere genuino, senza restrizioni, senza doversi attenere al “zitto e gioca”.

Guadagna milioni, certamente, ma non per questo vuole sentirsi un oggetto di proprietà di qualcuno, istruito solo a giocare a basket ed esserne grato. Vuole esprimere il suo pensiero e far fronte alle umiliazioni subite, dare finalmente una risposta a chi lo ha sottovalutato.

E ancora una volta, contro tutto e tutti, missione compiuta.

 

 

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