Un racconto, una favola, una storia, una testimonianza. La vita di un giocatore che oggi incanta il mondo, ma che un tempo ha faticato, lottato e sofferto per guadagnarsi il rispetto e l’ammirazione di cui gode oggi. La metamorfosi del piccolo grande uomo dei Celtics che oggi è diventato un guerriero: Isaiah Thomas.

Prima di iniziare a parlare di lui però torniamo un’attimo indietro, assai indietro: Sparta, Quinto Secolo a.C…

Piangeva, piangeva soavemente come tutti i bambini fanno quando hanno paura o quando non si sentono al sicuro, e così anche lui. Piangeva, quando suo padre in quella notte buia sotto la tempesta correva per le vie di Sparta verso il monte Taigeto, dove lo avrebbe abbandonato al suo destino.

“Perchè mai?”, penserete giustamente voi. Perchè abbandonare un adorabile pargoletto sotto la tempesta? Cosa avrà mai fatto per meritarsi tutto ciò? Eppure, Aristarchos, non ebbe altra scelta. Le dure leggi di Sparta erano così, dovevi accettarle senza opposizioni. Purtroppo per Talos (il nome che verrà poi dato a quel piccolo bambino indifeso) era nato con una malformazione al piede che gli avrebbe impedito di compiere ciò che gli Dei avevano previsto per lui. A Sparta uno così non ci poteva stare, ma per sua fortuna un anziano pastore si accorse di lui e lo portò con sè in un posto più caldo e affettuoso. Lo crebbe, come se fosse il figlio, il nipote che non aveva mai avuto, gli insegnò a governare le pecore, gli insegnò ad usare l’arco che in passato era stato del grande Re Aristodemo, fece di lui un uomo. Se un giorno sarebbe diventato un nobile guerriero spartiate, scoprendo le sue vere origini, Talos avrebbe dovuto ringraziare lui, Kleidemos (il pastore Ilota), che aveva creduto in lui, che lo aveva curato e coccolato.

Essere diversi non è affatto semplice, nè per il tuo rapporto con te stesso nè per quello con gli altri; ti guardi allo specchio e sei diverso, hai qualcosa di caratteristico che gli altri non hanno e, talvolta, ti senti inferiore. Difficile sapere se nella vita di Isaiah questi momenti di incertezza siano mai capitati, ma con ogni probabilità anche a lui è toccato questo destino. Isaiah infatti, proprio come Talos, è diverso da tutti gli altri ragazzini, ma lungi pensare che questa sua “debolezza” possa averlo fermato. Ma andiamo con ordine…

Isaiah Thomas, perchè di lui stiamo parlando, nasce il 7 febbraio del 1989 a Tacoma, una citta portuale nello stato di Washington. Il suo nome è particolare, ne avrete sicuramente sentito parlare: da Isiah ad Is(a)iah, dopo che la madre decise di aggiungere una “a” per renderlo più biblico, in omaggio al celebre profeta. Isiah appunto, la scommessa persa del padre con il campione dei Pistons (Isiah Thomas, naturalmente)  dopo la sconfitta dei Los Angeles Lakers nelle Finals del 1989 proprio contro i Pistons.

Tornando a Isaiah: se non si fosse ancora capito è un ragazzo diverso. Non tanto nell’animo o nella capigliatura, ma proprio nel corpo e nel suo essere esteriore. Infatti è più basso rispetto agli altri ragazzi che spesso lo fanno sentire a disagio, fin da piccolo. Da bambino, quando la maestra poneva agli alunni la classica domanda “Cosa vorreste fare da grandi?” Thomas rispondeva fermo, sicuro, granitico: “Voglio giocare a basket. Voglio giocare nell’NBA.” E al piccolo Isaiah poco importavano le risate starnazzanti dei suoi compagni sullo sfondo, nulla gli avrebbe impedito di vivere il  suo sogno. Anche quando al campetto dietro casa, quando egli chiedeva di giocare, gli rispondevano: “Sei troppo basso per giocare a basket” lui non smetteva di crederci, nulla lo avrebbe fermato e infatti così è stato.

Gli anni passano e Isaiah è sempre con la palla in mano, instancabilmente; all’età di 15 anni ecco che Thomas intraprende il suo primo vero lavoro al YMCA a Tacoma, un luogo dove praticare diverse attività sportive, dal basket al nuoto e tante altre ancora. Il compito del nostro uomo era semplicemente quello di scansionare le carte dei membri per farli entrare nell’area; nonostante non fosse un lavoro di grande caratura, Isaiah amava quel posto. Era sempre lì e, durante la pausa pranzo, ne approfittava per coltivare la sua passione usufruendo delle strutture del centro.

Fin da ragazzino il #4 dei Celtics mostra una maturità e una forza di volontà fuori dal comune; non gli importa di quanto sia alto, non gli importa che i suoi coetanei lo deridano e tentino di sminuirlo, niente di tutto questo ha la minima importanza per lui. Isaiah è deciso, determinato e con un unico obbiettivo in testa: l’NBA. Il basket è la sua vita, il suo sogno, la sua motivazione e niente e nessuno potrà fermare le sue speranze e le sue ambizioni.

Qualche anno più tardi decide di iscriversi all’High School. Inizialmente frequenta la Curtis Senior High School a Washington; successivamente, dovendo ripetere a 17 anni l’undicesimo grado, si trasferisce alla South Kent School nel Connecticut: qui, nel ruolo di playmaker, fa registrare 31.2 punti di media a partita nell’anno da Junior.
Il sito Rivals.com lo valuta come giocatore a quattro stelle e Isaiah viene inserito al 92esimo posto nella classifica nazionale nel 2008.
Fantastico direte voi, un giocatore così basso che riesce a mettere insieme quelle cifre e ad essere inserito in una classifica così importante. Ma, come detto, Isaiah non è come tutti gli altri ragazzi e anche questa volta non è contento: non gli basta tutto ciò, lui vuole essere il migliore. Un’immagine, una fantasia rimane costantemente nella sua testa: quella di una grotta in cui continuamente rimbomba l’eco di una melodia che recita sempre le stesse parole: “Puoi essere migliore”. Così, terminata l’High School, Isaiah comincia il college con una forza e una spinta in più, e la sua scelta ricade su Washington.

La sua carriera negli Washington Huskies sta per cominciare, un’università in cui hanno militato giocatori del calibro di Brandon Roy e Nate Robinson, a cui lui assomiglia molto. Thomas deve compiere un’altra scelta, questa volta meno rilevante ma pur sempre importante: deve scegliere il numero di maglia con cui giocare. Un pomeriggio, di ritorno da un consueto allenamento in palestra, sente il telefono squillare; emozionato, risponde subito. Chi sarà mai? Una persona particolare che viene spesso nominata quando si parla di Isaiah: Nate Robinson naturalmente. Dopo un dialogo iniziale, alla domanda sul numero di maglia, risponde: “Voglio giocare con la #2.” La risposta di Nate non si fa attendere:

Rappresenterai quella maglia, quel numero. Hai il mio consenso”

Thomas si presenta come un giocatore a tutto cuore che ha una voglia innata di lottare per qualcosa di importante, ma quando gli viene posto un quesito sui suoi obbiettivi, tra i quali anche l’approdo in NBA, risponde pacato, umile, senza presunzione:

Non ho obbiettivi individuali, davvero. Il mio obbiettivo è quello di portare di nuovo la squadra al torneo NCAA e ricostruire da lì.

Poche parole, ma eloquenti ed emblematiche. Un messaggio chiaro, coinciso: la squadra viene prima di tutto.

Fin dal primo incontro, i compagni manifestano apertamente la loro stima verso il folletto verde con dichiarazioni al miele che avranno fatto sicuramente piacere ad Isaiah.

La cosa più importante che ho notato di lui è il come riesce a passare la palla, ha detto Jon Brockman, compagno di Isaiah all’epoca a Washington. “É piccolo, ma è così veloce” ha detto invece il centro Matthew Bryan-Amaning.

L’intesa e le relazioni con i compagni c’erano e crescevano costantemente, ma se c’era una persona su cui Thomas ha potuto fare affidamento e con cui ha instaurato un rapporto speciale è senza dubbio il coach, Lorenzo Romar, che ha giocato un ruolo fondamentale nella crescita del giovane Isaiah.

Quando le grandi università collegiali dell’epoca, come Kentucky e Connecticut, si erano fatte avanti per lui la sua relazione con il coach ha fatto la differenza: Thomas ha scelto di restare fedele ad una squadra e ad un allenatore che a lui aveva dato tanto.

Tutto era cominciato nei migliore dei modi e tutto sembrava apparecchiato per delle grandi stagioni ricche di soddisfazioni. L’impatto di Isaiah al primo anno è subito di grande valore: 15.5 punti di media in appena 29 minuti di gioco. Le sue prestazioni sono sotto gli occhi di tutti e a fine anno gli valgono il titolo di Pac-10 Freshman of the Year. Finalmente tutti si accorgono di lui, Isaiah sta diventando grande. Nelle stagioni successive dimostra a tutti che quel premio non è stata una banale casualità; le sue performance migliorano a vista d’occhio, di anno in anno, arrivando fino ai 16.8 punti con il 44.5% dell’ultimo anno. 16 punti abbondanti di pura fame, di pura voglia e forza di lottare che il ragazzo mette in campo ogni singolo giorno, in ogni singolo minuti di gioco concessogli dal coach.

L’apice del suo successo collegiale arriva in quella finale del maggio 2011 in cui Thomas dimostra al mondo di intero di che pasta è fatto. Siamo alla finale della della Pacific 10, Arizona Wildcats da una parte e Washington Huskies dall’altra. L’esito finale sembra quasi scontato, la squadra di Derrick Williams sembra destinata ad una inevitabile vittoria. Il Pac-10 Player of the Year dei Wildcats brilla con 24 punti e 11 rimbalzi registrati a fine partita. Nonostante la super performance della futura seconda scelta al draft del 2011 la partita si decide in un overtime bollente. Cj Wilcox infila la tripla della possibile vittoria degli Huskies, ma dall’altra parte Kevin Parrom non è da meno e ristabilisce il punteggio sulla parità con un’altra tripla. In quel momento il coach degli Huskies Lorenzo Romar ha un pensiero in testa: chiamare il timeout e disegnare uno schema per il possesso finale. Suo malgrado, qualcuno non è d’accordo: Isaiah Thomas.

Il numero #2 si fa dare palla determinato, convinto, senza esitazione: vuole l’ultimo tiro. Isaiah sorpassa la metà campo, 12.3 secondi alla fine, il pubblico freme, tutti in piedi in attesa della giocata finale. Il tassametro corre, i secondi diminuiscono, Isaiah attacca dal palleggio l’avversario: crossover di mano destra, step back e tiro di mano sinistra: solo rete. Esausto si accascia a terra e lascia spazio alle lacrime, lacrime di sudore e fatica che in tutti questi anni lo hanno portato finalmente al successo.

Isaiah Thomas esulta dopo il canestro decisivo

Ma Isaiah lo sa, il bello deve ancora venire. Arriviamo al draft del 2011, Thomas vuole una chance, un’occasione di dimostrare il suo valore, non importa dove, non importa con quale chiamata, gli basta un’opportunità. Il tempo passa e mentre a Cleveland già incensano la prima scelta, tale Kyrie Irving, al Prudential Center di Newark non c’è più neanche il collegamento televisivo. Isaiah guarda continuamente il cellulare, in attesa di una chiamata da parte del suo agente; sembra non esserci più speranza, il tempo scorre e il cellulare è fermo davanti a lui, non suona, non vibra. Fino a QUEL momento, dove il telefono sí, squilla: è il suo agente, ovviamente. Isaiah prende nervosamente il cellulare e attende il suo destino; nell’emozione più totale apprende il verdetto: scelta numero 60, squadra Sacramento Kings.

Finalmente, dopo anni di fatica e di sudore, Isaiah ha la sua chance e non deve fallire. Destinazione California, nella capitale.

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