Dice una reclame spesso (troppo spesso) citata: “A Natale puoi…”. Già, a Natale puoi, si può, possiamo. Non è ben chiaro cosa, ma possiamo. E visto che eravamo in attesa di capire “che cosa” potessimo, ad NBA Passion ci siamo stancati di aspettare e abbiamo deciso noi da soli che cosa potevamo.
“Potevamo”, nella fattispecie, scrivere uno Speciale di Natale. Uno in linea con quello che è stato il nostro 2016, ma soprattutto in linea con quello che siamo. Ecco perché ne è venuto fuori un articolo originale, orientato a raccontare ognuno di noi. Non il classico bilancio di un terzo di stagione, a dire il caso piuttosto futile, ma un racconto di chi si siede davanti alla tastiera perché non potrebbe non farlo, perché ha un fuoco dentro che brucia, e brucia di palla a spicchi. Ci siamo fatti delle domande, e nelle risposte ciascuno ha inserito la propria personalità, ha sintetizzato il proprio “io”. Questo è lo Speciale che abbiamo fatto Noi per festeggiare insieme a Voi.
Buona lettura. E Buon Natale.
1) Il 25 dicembre mattina ti svegli e scopri che Babbo Natale ti ha regalato un giocatore NBA con cui eventualmente poterti esercitare in giardino. Chi, e perché?
Marco Tarantino: Se potessi chiedere un giocatore che oggi gioca ancora nella lega direi senza ombra di dubbio D-Wade. Esperienza, gioia di giocare a basket: vorrei fargli molte, moltissime domande. Del passato penso Rodman, l’ho sempre apprezzato tantissimo per la sua intelligenza ed il suo modo di vivere in maniera estrema.
Daniele Maggio: Dato che né Beyoncé né Rita Ora giocano in NBA, mi aspetterei che il caro Babbo Natale mi portasse in dono Kobe Bryant. Questo perché vorrei che mi infondesse la sua etica del lavoro, mi permettesse di migliorare i miei fondamentali (non ho mai giocato agonisticamente a basket in vita mia, ma lui farebbe miracoli) e soprattutto perché vorrei mi aiutasse a sviluppare la Mamba Mentality. Sono una persona che non si preclude nulla, che vuole raggiungere importanti traguardi togliendosi diverse soddisfazioni. E sono propenso a faticare duramente, sono pronto a qualsiasi cosa per riuscirci. Servono pratica e un immenso spirito di abnegazione: chi meglio del 24 può accompagnarmi sulla retta via?
Matteo Meschi: È Natale, quindi dico JR Smith. Non tanto per esercitarmi, ma perché sono sicuro che la sera non mi porterebbe a vedere un cinepanettone.
Luigi Ercolani: Vince Carter, senza esitazioni. Io amo il concetto de “l’art pour l’art”, e Vinsanity è stato ed è ancora l’applicazione di questo concetto al basket. Da fuori non ho visto nessuno che abbia amato la palla a spicchi quanto lui e allo stesso tempo sia riuscito a distaccarsene, a non farne un’ossessione. Io apprezzo moltissimo uno come Kobe, per dire, perché ha vissuto di pallacanestro ogni giorno, ogni ora del giorno. Spiritualmente mi sento però più vicino a Half Man Half Amazing, uno che prima di una gara-7 delle Finali di Conference è andato a ritirare il proprio diploma di laurea. Significa, per me, saper guardare oltre, dare importanza a più cose.
Sono quasi sicuro giocherebbe in giardino con la stessa serenità con cui giocò quella gara-7.
Riccardo Olivieri: Sicuramente James Harden. Non esiste un altro giocatore NBA a cui potrei segnare in uno contro uno, non posso perdere quest’occasione. Speriamo non gli venga in mente di difendere proprio ‘sta volta.
Niccolò Arenella: Probabilmente, viste le mie scarse attitudini tecniche, già dovrei ringraziare Babbo Natale di non avermi portato del carbone. Scherzi a parte, se dovessi dire un nome sarebbe Draymond Green. Nonostante i limiti tecnici è un giocatore fondamentale per la sua squadra, un leader difensivo e grintoso di cui ogni team ha bisogno. Mi riconosco tantissimo in lui per la mia esperienza sul parquet: lui e Metta World Peace, a.k.a. Ron Artest. A tredici anni, quando iniziai, non ero sicuramente il più tecnico, il più alto o il più forte ma c’era una cosa che nessun altro aveva: la mia voglia di giocare. Draymond Green, per quanto possa essere arrogante, duro o falloso è un leader naturale e citando le parole di Barack Obama: “Ci ricorda ogni giorno che il cuore è più importante dell’altezza”. Non importa se i tuoi mezzi fisici non ti permettono di arrivare dove vorresti, il ragazzone di Golden State è il proverbiale “f*****o Bombo”, la cui struttura fisica non permetterebbe di volare ma se ne frega e vola lo stesso. Non solo la tecnica si può allenare, ma avere un esempio di determinazione è ancora più importante, e Draymond ne ha più di chiunque in questa lega.
Raffaele Camerini: La vera fortuna mi sembra più di avere un giardino tutto mio, più che ricevere un giocatore in regalo. Ma pensando alla risposta, per forza devo buttarmi a capofitto sul signore con la chiazza bionda sulla nuca. Avere Rasheed Wallace in giardino è un vero sogno, non solo perchè è il mio giocatore all time preferito (LBJ tra gli odierni) ma anche perché mi ci potrei allenare tutti i giorni ed apprendere i segreti, imparare i suoi movimenti ed il perché meglio giocare in un modo anziché in un altro. Ringrazierò Babbo Natale, ma se prova a rubare un fallo, meglio che poi segni i suoi liberi, altrimenti…. “BALL DON’T LIE!”
2) Quale giocatore passato o presente non potrebbe mai mancare nella tua squadra ideale?
Marco Tarantino: Se volessi essere scontato direi Jordan, se dovessi pensarci su seriamente per qualche istante direi (di quelli che ho visto giocare) sicuramente LeBron James. Il motivo? Chiedetelo ai Cavaliers.
Daniele Maggio: Per non intingere troppo di gialloviola lo Speciale (avrei detto subito Magic Johnson) scelgo LeBron James. Perchè nella mia squadra non può mancare un giocatore che sa fare tutto, che sa giocare in più ruoli, che ha un’intelligenza cestistica al di sopra del valore medio. Insomma, c’è sempre spazio per il classico all around player, specialmente se questo è un leader che sa coinvolgere e valorizzare al meglio i compagni di squadra. Il Prescelto, nell’ultimo periodo, è maturato ancora di più come condottiero, spezzando l’inerzia della gara come sa fare lui quando è necessario. Sono rimasto impressionato dalle sue prestazioni alle ultime Finals: devastante. Se LeBron non è disponibile, mi prendo Chris Paul: un brillante direttore d’orchestra con una classe impeccabile.
Matteo Meschi: Sceglierne solamente uno è un’impresa ardua. In generale mi piacciono quei giocatori meno noti al grande pubblico ma che hanno scolpito nella pietra alcune pagine di questo gioco. Ecco, visto che per questo Natale mi sono accaparrato la maglia autografata di Nate Thurmond (Hall of Famer 1985), opto per lui. Giocatore immenso che ha segnato un’epoca, ma forse noto solo agli appassionati più nerd.
Luigi Ercolani: Esiste uno ed un solo giocatore a cui sono sentimentalmente, visceralmente, indissolubilmente legato: Bo McCalebb. Uno che, come direbbe Françoise Sagan, ho amato sino alla follia perché quello che gli altri chiamano follia per me è l’unico modo sensato di amare. Le triple, le incursioni, il fisico quasi tozzo, il viso un po’ elfico e un po’ alieno: non esiste nulla che io di Bo non abbia adorato.
Riccardo Olivieri: Da buon nostalgico il dubbio è tra i miei primi amori cestistici: Ray Allen e Sam Cassell. Galeotto fu NBA Live 2001 e quei Milwaukee Bucks che continuo ad amare anche oggi con tutto il mio cuore. Sceglierei Ray perché è silenzioso, letale, elegante e c’è sempre quando serve.
Niccolò Arenella: Seguendo la falsariga della domanda precedente non potrei mai citare un giocatore di tecnica pura, ma non si può nemmeno scegliere qualcuno senza resilienza. Questa è la base del ragionamento che mi ha portato a scegliere Rasheed Wallace. Dove potete trovare un altro 2.11 ambidestro, con discreto tiro, ottimo passatore e con un Q.I. cestistico fuori dal comune? Il suo coach al liceo, ha detto di lui: “E’ troppo avanzato per noi, non siamo noi ad allenarlo. E’ lui che ci allena ”. Gli aneddoti si sprecano. Dai Portland “Jail” Blazers alla sola partita giocata in maglia Hawks (20 punti 6 rimbalzi), dal trionfo a Detroit fino alla parentesi a Boston. Da tifoso Knicks (potrei essere l’unico ad aver acquistato la sua jersey del periodo sull’Hudson) non posso non ricordare “Ball don’t lie”. Non basta ancora? Allora l’ultima citazione la prendo dall’Avvocato Federico Buffa: “C’è una regalità, una bellezza, una forza in quell’uomo fuori dal comune. Certo ci sono due problemi psichici…ma chi non ne ha?”
Raffaele Camerini: Nella mia squadra ideale, qualunque possa essere, sono consapevole di non poter mai e poi mai fare a meno di due giocatori: Shaquille O’Neal e LeBron James. Non tanto per la qualità che hanno/stanno dimostrando sul parquet, quanto per l’impronta che hanno lasciato nella mia infanzia. Non sono mai stato un tifoso Lakers (anche se ora un po’ sono dispiaciuto nel vederli così disastrati e credo che cominciare a seguirli proprio ora mi renderà ancora più partecipe di una bella storia futura), ma ammetto che Shaq l’ho sempre adorato: sottovalutatissimo dal punto di vista tecnico ed ancora più sottovalutato sotto l’aspetto sia mentale che intellettivo. Allenato benissimo fin dai tempi del College, credere che si può vincere tre anelli ai Lakers e soprattutto il quarto a Miami sotto Pat Riley, senza un minimo di durezza mentale ed intelligenza, mi sembra alquanto ridicolo. Sul Micione in realtà poco da dire: lo adoro, lo seguo da quando avevo tredici anni e lui diciassette (grazie ad American Superbasket), costrinsi un amico ad ospitarmi a casa sua (non avevo Sky o Tele+) per vedere la sua prima partita contro Oak Hill Academy e l’ho seguito sia quando faceva cose belle sia quando faceva il c******e. Mi sono preso anche delle offese solo perché tifavo per lui (Giuro! E questo la dice lunga su quanto noi italiani siamo indietro dal punto di vista sportivo) nonostante la sua carriera avesse traballato fortemente al vento ed ammetto di aver pianto come un bambino dopo l’ultima finale NBA.
3) Ti chiama la società della squadra X per allenarla. Quale squadra è? Come la alleni?
Marco Tarantino: il sogno sarebbe quello di Chicago o forse anche Philadelphia. Con i giovani mi piacerebbe lavorare per poter creare una mentalità di gioco precisa. Come stile di gioco non vorrei avvicinarmi a concetti di un allenatore o piuttosto che di un altro, mi piace prendere qualcosa da ognuno. I miei coach mi hanno sempre insegnato modi diversi di fare basket, ognuno valido, per cui valuterei in base al roster.
Daniele Maggio: Per ragioni di cuore, allenerei i Los Angeles Lakers. Sia perché la Città degli Angeli è tra le mie preferite, sia perché la storia e il fascino di questa franchigia sono impagabili. Inoltre, il roster è molto giovane e di belle speranze. Se ci fossi io in panchina, seguirei la linea intrapresa da Luke Walton, predicando uno stile di gioco moderno basato su spaziature pulite, ritmi di gioco alti, tanti tiri, quintetti versatili e difesa aggressiva. Il sistema simil-Warriors è quello che più ben si sposa con le caratteristiche dei giocatori, e con un’evoluzione del basket che sta prendendo sempre più piede. In alternativa, mi piacerebbe guidare i New York Knicks. Un’avventura all’ombra della Grande Mela sarebbe intrigante. Solo che io e Phil Jackson abbiamo due concezioni diverse di Triangolo…
Matteo Meschi: Se dovessi scegliere una franchigia, per ragioni di affetto avrei subito azzardato i New York Knicks ma con la consapevolezza che sarei stato esonerato dopo due settimane. Per questo direi gli Utah Jazz una delle realtà più interessanti (escludendo le contender) del panorama NBA. Come modo di giocare invece credo che Snyder abbia già tracciato la strada da seguire e non ci sia bisogno di inventarsi nulla di nuovo. Però più che allenatore (un ruolo dove non mi vedrei neanche in un mondo in cui tutto è possibile), credo che mi divertirei molto di più a fare il GM.
Luigi Ercolani: i Knicks. Per tutta una serie di motivi, a cominciare dal fatto che sono una squadra maledetta in una città benedetta tanto in generale quanto nello sport. Magari si è capito che a me piacciono i perdenti cronici, quelli che provano ancora, falliscono ancora, falliscono meglio, le storie disastrate, disastrate, impossibili, quelle di chi non ha vinto mai o quasi. Mi appassionano, perché mi ricordano che vincere, sul parquet come nella vita, è difficile, e spesso semplicemente bisogna guardarsi dentro e dirsi che sì, non è andata bene ma ci sono motivi solidi per guardare avanti. E New York… Ragazzi, New York è un sogno per tutti. Quel pubblico, quel palazzo dello sport, quella atmosfera, quella pressione, quella passione che porta quella città a essere la più competente di basket al mondo (Bologna si prende chiaramente il secondo posto).
Come la allenerei…. Principi-cardine, massima flessibilità in attacco con licenza di colpire già nei primi secondi ove consigliato, e in difesa grinta, concentrazione e sputare sangue. Stop. Magari offensivamente ricalcherebbe il Princeton Offense, ma tutto dipenderebbe dagli uomini (“materiale umano” come espressione mi fa senso, sembra industriale e senz’anima) del roster.
Riccardo Olivieri: Philadelphia. Ho fiducia nel “process”, ci voglio credere davvero. I motivi della mia fiducia sono i più disparati. Il primo ovviamente è Embiid, il probabile autore della svolta parziale dei Sixers. Ci sono poi tre giocatori europei che mi piacciono molto: Saric, Rodriguez ed Ilyasova (rimpiango ancora la trade scellerata che lo ha portato via dai Bucks). C’è poi un interessantissimo pacchetto di giovani lunghi: Noel, Okafor, Simmons ed il già citato Embiid. La squadra è decisamente futuribile. Come allenatore sarei un mix tra questi tre: Sannino per la comunicazione in inglese, Malesani per la carogna in conferenza stampa dopo la quindicesima sconfitta consecutiva mentre tatticamente mi vedo come una specie di Oronzo Canà. Meglio fare il giornalista va.
Niccolò Arenella: Se nel caso qualche GM/presidente stesse leggendo NBA Passion, confidando siano numerosi, vi prego affidatemi Memphis e giuro che non rimpiangerete Elvis. La squadra ha già gli elementi fondamentali che vorrei: un lungo con visione di gioco e mani da pianista (Marc Gasol sono la tua escort d’alto borgo), un playmaker quadrato che sia REALMENTE al servizio della squadra (magari con qualche milioncino in meno, eh Mike?), un veterano di mille battaglie pronto a togliere le castagne dal fuoco come Vincredible o Z-Bo ma soprattutto: Grit n’grind. Letteralmente una difesa a tutto campo con uomini pronti a sputare sangue. Una squadra cosi non ha bisogno di un allenatore che inquadri tutti in un gioco molto rigido, ma più un sistema, una filosofia. Chi allora meglio di quello di “coach Zen” Phil Jackson? Motivazioni extra unite ad un gioco sì di difficile apprendimento, ma non se hai giocatori così intelligenti: potrebbero portare Memphis davvero in alto.
Raffaele Camerini: Ho solo il patentino di allievo allenatore, ergo emigro volentieri fuori dai confini italici . Se dovessi decidere dove allenare, allora mi butterei sul college basketball, tenendomi lontano dalle fatiscenze del basket professionistico. In più mi piace poter insegnare, cosa che nella NBA avviene di rado. Comunque la mia scelta sarebbe tra la “mia” North Carolina e UCLA, ma solo per poter vivere in California. I dettami si rifarebbero ad un tipo di gioco che sprigioni l’intelligenza cestistica dei giocatori che ho a roster, permettendo loro di splendere, senza mai imbrigliarli in un tipo di gioco definito, così da non spezzare la propria innata fantasia, ma di canalizzare quel talento al servizio della squadra. Cercherei di costruire un ambiente sano, dove si può trovare il modo di esaudire i sogni di un gruppo variopinto di ragazzi, facendo capire loro che con il lavoro duro possono fare tutto nella vita e che debbono usare il Basket come uno strumento per essere delle persone migliori all’interno di una comunità. Molti ragazzi, specie se sicure promesse, sottovalutano quanta fortuna hanno a frequentare una prestigiosa scuola universitaria statunitense, ed è un peccato in quanto il basket prima o poi finisce ma gli insegnamenti che apprendi sono per sempre.
4) Domani all’improvviso scopri che come collega ad NBA Passion hai nientemeno che…?
Marco Tarantino: Vorrei avere come compagno Shaq, il motivo è evidente. Bravo, simpatico, divertente, analisi lucide. E con lui anche Kevin Garnett.
Daniele Maggio: Immagino questa scena. Accendo il pc e mi arriva la chiamata via Skype. E’ Gregg Popovich nelle vesti di nuovo direttore di NBA Passion: camicia con le maniche risvoltate, cravatta neroargento, bretelle e sguardo di ghiaccio. In massimo (ma proprio massimo) dieci parole, mi dice quale sarà il prossimo articolo che dovrò scrivere e poi chiude senza salutarmi. Perché lui? Semplicemente perché è uno che lavora duro, che pretende che le cose siano fatte per bene e perché è in grado di valorizzare chiunque gli stia intorno. Pop è uno in grado di infondere la cultura del lavoro di squadra dove tutti sono importanti alla stessa maniera, senza distinzioni. Dal caporedattore al collaboratore più acerbo: con il coach dei San Antonio Spurs la macchina girerebbe che è un piacere e i successi arriverebbero prima del tempo
Matteo Meschi: Urca. Dire Federico Buffa è molto mainstream, quindi passo. Anche perché passare da quello che sta facendo a questa banda di aspiranti significa che qualcosa gli è andato storto (scherzo eh). Diciamo che se questa domanda serve per fare il nome di una persona che leggo spesso e stimo profondamente, allora dico Anthony Slater del Mercury News. Praticamente è la penna di Kevin Durant, ma al tempo stesso un’analista straordinario. E’ in grado di analizzare la partita su Twitter anche mentre si sta giocando, dote rara che fa capire quanto sia bravo a comprendere in modo immediato quello che sta succedendo.
Luigi Ercolani: Bella lotta, tra i tanti che vorrei, davvero. Due ricordi legati all’ultimo anno di liceo. Il primo: l’American Superbasket che puntualmente compariva sul mio banco ogni due settimane, io che da italianista/europeista extraconvinto nei mesi estivi precedenti ero stato fulminato sulla via di Damasco dalla NBA. Quell’American Superbasket che mi aveva stregato e che mi faceva compagnia nelle ore più noiose in aula era diretto da Roberto Gotta, uno che mi piacque subito moltissimo per l’approccio sincero, disincantato, antidivistico, realista, concreto, ironico. Scoprii poi qualche anno più tardi che, qualche tempo prima di me, Roberto Gotta si era diplomato su quegli stessi banchi. Un segno, indubbiamente.
Il secondo ricordo è legato al giorno dopo l’orale della maturità, al mio viaggio in treno in direzione Trieste, accompagnato solamente dalla lettura di “Lost Souls” di Christian Giordano. Un modo di scrivere pulito e intrigante allo stesso tempo, che ho poi ritrovato successivamente in altri suoi scritti.
Sì, penso che Roberto Gotta e Christian Giordano sarebbero i due colleghi per me migliori, in NBA Passion.
Riccardo Olivieri: Il mio sogno sarebbe collaborare con la persona i cui scritti mi hanno più emozionato: James Joyce. Per farci quattro risate gli chiederei di improvvisare un flusso di coscienza di Javale McGee o di Jr Smith. Sicuramente vorrebbe scrivere la storia di giocatori che non hanno mai vinto, come Malone e Iverson. Vorrei sentirgli dire quanto odia i Celtics perché gli ricordano l’Irlanda, salvo poi scoprire che in casa sua ci sono tre teche con le canotte di Bill Russell, Larry Bird e Paul Pierce.
Niccolò Arenella: A parte che ho già dei colleghi invidiabili, se dovessi fare un nome, tenendomi nel nostro ambito, sceglierei sicuramente Phil Jackson. Ok, magari alla cena di Natale vi regalerebbe un libro e nella pausa caffè passerebbe tutto il tempo a parlarvi di filosofia orientale, ma volete mettere? Una persona che era già innovativa da giocatore per modo di porsi (probabilmente J. Edgar Hoover lo teneva sott’occhio) dopo essersi ritirato ha aperto prima un centro benessere poi con l’amico/scrittore/filosofo/pazzo Charlie Rosen, sono andati ad allenare nella CBA e a Portorico. Un uomo che conosce l’arte di reinventarsi, l’umiltà di imparare (Tex Winter dice niente?) e una mentalità vincente potrebbero solo farmi crescere sia come sportivo che come uomo.
Raffaele Camerini: Bill Simmons. E lì io svengo come una liceale di qualche anno fa di fronte a David Beckham. Per uno come me cresciuto a pane e American Superbasket, alle perle di Buffa e Tranquillo (autocriticandomi apertamente in quanto in questo periodo della mia vita mi ritrovo spesso a non seguirle e non trovarle giuste) e all’idea precisa e connotata che dietro al basket non ci sia solo basket, bensì un mondo così empatico ed avvolgente che si scioglie pure nella politica, nell’economia e nella sociologia, avere accanto a me l’inventore di Grantland, il sito sul basket più bello che abbiano mai fatto (dopo NBA Passion, right), dove gli articoli elevavano il basket a piacere intellettuale più che al semplice, magnifico gioco, è un qualcosa che mi fa venire gli occhi a cuoricino.
5) Comunicare il basket è facile o difficile? Perché?
Marco Tarantino: Credo entrambe le cose: facile perché il basket è uno sport in rapida espansione di pubblico, difficile perché non bisogna lasciare nulla al caso ma spiegare sempre tutto, visto che la conoscenza intorno a questo sport spesso non nasce da reale pratica o conoscenza diretta (allenatori/studiosi del gioco/ tattici/giocatori). Spero diventi via via più facile, vorrebbe dire che il basket starà prendendo piano non solo come mero spettacolo ma anche come gioco.
Daniele Maggio: Non è affatto difficile parlare di basket. È come se ci mettessimo a parlare di cronaca, politica, altri sport ecc. Bisogna esporre il proprio punto di vista basandosi su fatti concreti, dopo essersi informati per bene (guardare più partite e meno tabellini, ad esempio) ed evitando soprattutto luoghi comuni o di sentenziare giudizi troppo affrettati, magari venendo accecati dal tifo e dalle preferenze. Ci vuole equilibrio, un pizzico di brio e una bella infarinatura: così come accade in altri rami dello scibile umano. Quindi non è difficile. Ben vengano i dialoghi tra persone che la pensano diversamente, anche con toni accesi. Basta non si parli di aria fritta. Questo vale non solo nelle discussioni sul basket, ma anche nella vita di tutti giorni.
Matteo Meschi: Difficile, ma direi che è difficile comunicare in generale. Internet è una delle invenzioni più straordinarie degli ultimi sessant’anni, ma a volta capita che venga utilizzato impropriamente. Mi piacerebbe vedere le persone che utilizzano i social network non solo per dire quello che pensano, ma anche per leggere/ascoltare quello che dicono gli altri. E questo purtroppo non avviene molto spesso.
Luigi Ercolani: Comunicare il basket ora come ora è difficile perché molti, soprattutto di recente, ci si sono avvicinati applicandovi logiche sbagliate. Non voglio fare il vecchio pedante, ma dato che ho una memoria eccellente ricordo con chiarezza che una decina d’anni fa non era così, che la pallacanestro era meno “mainstream”, meno mediatica. Ci si infervorava, non dico di no, ma tutto rimaneva in una dimensione ridotta, circostanziata. Ora invece mi vengono i brividi per quello che leggo in rete o vedo sui campi.
Amplio il raggio della mia analisi, e dico che bisognerebbe cominciare a considerare lo sport come una serie di dinamiche in cui chi vince è stato più bravo di chi ha perso, e chi ha perso se ha dato l’anima non deve essere considerato un buono a nulla. Ci sono situazioni nel mondo che meritano rabbia e frustrazioni, ma in questa casistica non dovrebbero mai rientrare una tripla per la vittoria subita a un secondo dalla fine o una partita persa 1-0 contro una squadra catenacciara, più relative conseguenze.
Riccardo Olivieri: Personalmente lo trovo abbastanza facile, almeno per quanto riguarda i tipi di analisi che mi sono trovato a scrivere. Le statistiche aiutano molto. Un mesetto fa, quando i Clippers erano primi, mi interrogavo sulle ragioni della loro incredibile efficienza difensiva. Sfogliando le varie statistiche avanzate mi resi conto di una cosa: di tutte le stats difensive erano in top ten solo nella classifica delle rubate. Non era migliorata la difesa (storicamente ballerina) degli uomini di Doc, era semplicemente cambiata la pressione sull’avversario. Spezzavano il ritmo agli altri e contribuivano ad aumentare il proprio. Senza i numeri (e senza poter vedere tutte le partite purtroppo) sarebbe stato difficile accorgersi di questo aspetto. Il lettore ha molta fiducia nel numero: ci hanno insegnato che la matematica non è un’opinione e la media aritmetica ne fa parte. È quindi facile spiegare qualcosa che si presenta indossando il vestito della verità inoppugnabile. Ovviamente bisogna saper leggere le statistiche, saperle interpretare in un contesto completo. Il singolo numero non porta da nessuna parte: come farebbero altrimenti i Memphis Grizzlies ad essere sesti ad ovest (ottavo record nel power ranking) col penultimo attacco della NBA?
Niccolò Arenella: Comunicare parlando di basket è facile e difficile allo stesso momento per un fattore fondamentale: la passione. Essere appassionati e scrivere di questo sport ti da motivazioni extra (facile) ma allo stesso tempo ti rende, appunto per la passione, più propenso a non cambiare le tue opinioni (difficile). I nostri lettori poi sono tendenzialmente dei “malati” peggio di noi, quindi ci rende facile andare a briglia sciolta ma ogni tanto difficile perché tendiamo ad essere il più razionali possibili per non commettere errori marchiani compromettendo cosi l’autenticità dei nostri scritti. Quante volte mi sono ritrovato a riscrivere un paragrafo per non sembrare eccessivamente pesante? Insomma è un lavoro impegnativo; ma il lavoro che sogno di fare da una vita quindi mi rende la vita stessa incredibilmente SEMPLICE.
Raffaele Camerini: Comunicare basket è difficile per molti motivi. Intanto è uno sport di fotogrammi e spiegare coscientemente il singolo fotogramma non è mai semplice. Poi bisogna dire che è lo sport più appassionante del mondo: conosco persone che hanno lasciato il calcio senza problemi (io in primis), ma non conosco realmente nessuno che abbia lasciato il basket senza dispiacersi o, al limite, ricordarlo con contentezza e malinconia. Proprio per questo suo modo di essere avvolgente tu vuoi in tutti i modi celebrarlo ed essere almeno degno di poterne parlare, come se ad ogni virgola, ad ogni parola, trasudasse tutto il ringraziamento per essere stato baciato, per essere stato scelto pure se non sei diventato Jordan o nemmeno Jordan Farmar, ma solo un appassionato. Infine è difficile perché come storia mediatica e comunicativa, l’asticella è stata alzata fin da subito in alto col Maestro Aldo Giordani. La letteratura cestistica ha una sua ritmica di scrittura precisa e mai schematizzata (so che sembra un contro senso, ma così è), utilizza analogie, esprime pareri senza enunciarli ed è difficile perché la scrittura deve seguire, in un certo senso, i tempi di una partita. Poi se scrivi per la Gazzetta o per chi volete voi, la comunicazione deve essere basale e non esprimere opinioni, ma sulla nicchia, dove questo sport davvero conta essendo concepito originariamente lì, devi seguire il flusso, il rumore dei palleggi e lo squittire delle scarpe. In Italia poi è un casino dato che a pochi importa di questo nostro magnifico gioco. Ma si sa che il vero pregio del vento è che cambia. Cambia sempre.