Non ce lo aspettavamo così presto, eppure quando è stato annunciato è stato quasi un sollievo. Coach Kryzewski non deve aver avuto molta voglia di tirare per le lunghe i tryout, di valutare, osservare, soppesare. Anche perché, ammettiamolo, ovunque pesca, pesca bene.
Offrire una valutazione di Team USA non è mai facile. È una squadra che nasce appositamente per vincere, che ha il trionfo nel DNA, come gli All Blacks di rugby, o quello che una volta il Brasile del calcio (titolo forse ereditato dalla Spagna). Anzi, più di tutte loro, che in qualche competizione hanno permesso che il titolo gli scappasse, mentre gli USA no: dall’arrivo dei professionisti, hanno mancato l’oro solo a cavallo tra il 2002 (Mondiali di Indianapolis) e il 2006 (Mondiali di Tokyo). Da quella lezione di pick&roll subita dalla Grecia, storica non perché siamo in vena di iperboli ma perché viene citata ancora oggi, gli Stati Uniti non hanno più perso un incontro in una competizione ufficiale.
Così, analizzando il roster a freddo a quaranta giorni circa dall’inizio della competizione, proviamo a offrire un quadro (che sarà per forza di cose incompleto, viste le mille variabili in gioco) di quella che verosimilmente sarà la kermesse a cinque cerchi della selezione a stelle e strisce.
La forza nella leggerezza
Le qualità degli Stati Uniti sono sterminate, inutile negarlo, non si sa da dove iniziare a scegliere il quintetto. No, un momento, forse sì. Dal playmaker.
Ora banalità appena detta a parte, è ipotizzabile che del ruolo di regista, almeno inizialmente sarà investito Kyrie Irving, che è presumibile parta davanti in quanto a) allievo di Coach K a Duke, b) già dotato di un discreto bagaglio di esperienza a livello internazionale, e c) detentore del titolo di MVP del campionato mondiale in Spagna, tanto per gradire. Lowry partirà di rincalzo, magari per entrare con quel DeRozan con cui ha formato un back court strepitoso a Toronto. Come guardia titolare, la scelta è tra la chirurgica precisione balistica di Thompson e quella di Butler, ma seguendo il primo punto relativo a Irving propenderemmo per la guardia dei Warriors.
Gli spot delle ali, salvo cataclismi o acumi tattici di cui al contrario del c.t. statunitense non siamo certo dotati, dovrebbero essere di Durant ed Anthony. Entrambi sono due “3” a livello NBA, ma al livello più “sotto taglia” del basket FIBA hanno giostrato spesso et volentieri da “4”, peraltro con risultati tutt’altro che disprezzabili. Chiaro che non saranno dei lunghi vecchia maniera, ma viceversa delle ali che tagliano, si aprono dopo il blocco, più per un “pop” che per un “roll”. Per non soffrire l’agilità dei lunghi internazionali, Kryzewski dovrebbe insomma seguire il percorso lui stesso ha tracciato tra il 2008 e il 2012. Logico che poi l’essere più ala piccola classica di Barnes porterà ad assetti più tipici, ma l’eclettismo di George e Green va nella direzione già menzionata. Per tutto quanto presunto sopra, Cousins starà verosimilmente sul parquet più di Jordan, in quanto maggiormente mobile e con una gamma di tiro più ampia.
Quindi, tutto facile: gli altri giocano per l’argento, no? Ecco…
Sì. Forse. Non esattamente. Insomma, No.
Orgoglio e pregiudizi
Magari chi legge considererà disfattista chi scrive. Magari lo spernacchierà o ne metterà in dubbio la sanità mentale. Il rischio di sembrare impopolari non ci scrollerà però di dosso la sensazione che mai come questa volta ci sia una squadra che possa togliere la corona ai re della NBA scesi come ogni due anni a miracol mostrare.
Anzitutto andiamo sul tecnico: questa squadra che non è una fusione tra quella del Mondiale e quella della precedente Olimpiade, il modo in cui viceversa fu concepito il Team USA di Londra. Al contrario, la selezione del 2016 ha ereditato più dalla kermesse iridata che da quella pentacerchiata: Irving, Thompson, De Rozan, e Cousins hanno preso parte alla prima, solo Anthony e Durant alla seconda, mentre la metà assoluta dei giocatori sono i debuttanti assoluti (Lowry, Butler, Barnes, George, Green e Jordan). Può non voler dire nulla, perché in fondo gli americani a questo gioco sono ancora i migliori e presumibilmente lo resteranno finché il Sole non si spegnerà, ma può anche essere significativo.
Un vecchio adagio della pallacanestro dice che un giocatore al Mondiale può anche non andare, dato che rimane una competizione per appassionati, mentre alle Olimpiadi farà di tutto per esserci, perché alla fine le vedono tutti, anche solo per caso. Sarà anche la saggezza popolare ma trova riscontro nei fatti, se si pensa che le ultime due finali iridate si sono chiuse sopra i venti punti di scarto per gli Stati Uniti e le avversarie mai in partita, mentre le ultime due olimpiche sono state talmente belle e combattute da venire considerate tra le
migliori della storia della palla a spicchi. Così, mentre le avversarie avranno piacere di schierare la cavalleria pesante, la nazionale a stelle e strisce farà sì corsa di testa ma con equilibri interni da trovare e senza qualche vecchia cariatide a fare da bussola, un Kobe, un Kidd, un Wade, un James. È rimasto Anthony, bontà sua, che è già alla quarta edizione di fila dei giochi, ma avere solo lui e Durant come chiocce è molto diverso che disporre anche di tutti i nomi fatti in precedenza. Il rischio minore è patire l’inesperienza con gli avversari, quello maggiore è che il gruppo si spacchi dall’interno. E visto il testosterone e i contrattoni di cui sono titolari i membri del roster, quest’ultima opzione è tutt’altro che improbabile, così come tutt’altro che improbabile è la possibilità che qualcuno degli imberbi prenda sottogamba non tanto le partite quanto l’opponente di turno.
Combattere per un centimetro
Vogliamo essere ancora una volta cristallini su questo: nessuno di chi era in condizione, dalle altre nazionali, ha disertato la chiamata alla armi, chi poteva ha risposto presente e tutti saranno bramosi di detronizzare gli statunitensi. A cominciare dalla Spagna, degna avversaria nelle ultime due finali e composta da una generazione che è all’ultima chance per fregiarsi dell’oro, ma anche la Lituania, o la Francia e la Serbia se si qualificheranno. Tutti vorranno la testa dell’aquila sul proprio camino, nessuno risparmierà una goccia di sudore, un tuffo sul parquet, un contatto. Per questo, fossimo in Coach K o in chi ha a cuore le sorti di Team USA, pregheremmo di avere più articoli, da più parti, che ne mettono in dubbio la vittoria. Ancorché molto cialtrone, uno dei metodi di motivazione più in voga tra gli allenatori è convogliare le energie della loro squadra in una risposta allo scetticismo esterno, una sorta di “Vi faremo ricredere”. La prova in effetti ce la fornì la squadra del 2010, quando quello che veniva considerato un Team-B conquistò l’oro e Durant vergò un tweet polemico per ribattere alle critiche.
È passato un secolo, e il rischio che gli Stati Uniti si siedano sull’alloro invece di mettersene corone in testa esiste, anche se per ora è solo pura teoria. Per non far sì che diventi dolorosa pratica, gli atleti a stelle e strisce dovranno non mollare mai di un centimetro tenendo presente che ogni avversario farà altrettanto. Mettere meno dell’impegno che metteranno gli altri potrebbe costare brutte sorprese. O brutte figure.