Home NBA, National Basketball AssociationApprofondimenti Perché il basket italiano non ha il suo Jannik Sinner?

Perché il basket italiano non ha il suo Jannik Sinner?

di Stefano Giubertoni

Con l’esplosione del fenomeno Jannik Sinner, appare in Italia ancora più forte il contrasto con il basket, che da decenni ormai fatica a trovare grandi personaggi, potenziali GOAT (Greatest Of All Time) della nostra disciplina, magari pure role models a cui ispirarsi e capaci di trascinare l’intero movimento, attirando l’attenzione del grande pubblico e anche dei media e dei grandi sponsor. Chi ha trascinato nei decenni passati in Italia i vari sport che hanno conquistato le prime pagine sui giornali?

Ci sarà forse un giorno nel quale un famosissimo giocatore di basket italiano, potenzialmente tra i più forti del mondo, recente vincitore di qualche trofeo, sarà chiamato da Amadeus sul palco del suo 20° Sanremo consecutivo, ma questo giorno non è ancora arrivato.

In Italia, come in moltissimi altri paesi, gli sport crescono nell’interesse del grande pubblico, dei media e degli sponsor non in linea retta regolare nel tempo, ma per grandi strappi, quasi sempre segnati dall’emergere di grandissime figure sportive, capaci di trascinare non solo gli appassionati di quella disciplina, ma anche il grande pubblico.

Senza scomodare il calcio, religione laica nel nostro paese e con troppe componenti di tifo tossico che lo inquinano, chi ha molti km sul proprio tachimetro come il sottoscritto potrebbe ricordare il primo boom del tennis, quando Panatta vinceva Roland Garros e la nazionale italiana trionfava in Coppa Davis nel Cile di Pinochet nel 1976. In quegli anni era impossibile trovare un campo da tennis nel quale giocare a meno di non svegliarsi alle 6 della mattina prima della scuola per andare a prenotare nei campi comunali.

Anche senza tornare agli anni ‘70 con la Valanga Azzurra di Thoeni e Gros, a fine anni ‘80, si usciva prima da scuola per correre a casa rapidamente per vedere le seconde manches degli slalom speciali e giganti di Alberto Tomba che trionfava nello sci di quel decennio.

Nel ciclismo, anche qui senza scomodare Coppi o Bartali che evitavano guerre civili nell’Italia post bellica, distraendo il pubblico dall’attentato a Togliatti andando a vincere il Tour de France, Pantani ha trascinato le folle, così come hanno fatto Valentino Rossi o Giacomo Agostini trasformando l’Italia in una nazione di motociclisti.

Nei tempi più recenti il nuoto ha offerto grandi protagonisti, tra i più grandi di sempre di questo sport, come Federica Pellegrini e Gregorio Paltrinieri, monopolizzando l’attenzione dei media e degli sponsor, e identica sorte è stata concessa all’atletica con i recenti successi olimpici di Tamberi e Jacobs.

Grandi atleti, spesso i più grandi del loro sport, cioè tra i candidati al titolo di GOAT assoluto, spesso persino role models, bravi ragazzi e ragazze, figli ideali, coccolati da tutti, messi sulle prime pagine dei giornali ed in prime time dalle televisioni, con milioni di followers sui social. Atleti e persone che diventano personaggi trainanti per lo sport che prarticano, attirano sponsor, diventano testimonial di grandissime aziende, trascinano il loro sport e fanno impennare praticanti e tesserati, avvicinando i giovanissimi, che entrano in un immediato processo di identificazione e di idealizzazione.

E il basket italiano in tutto questo?

Andando anche molto indietro con la memoria, pur con le necessarie differenziazioni dettate dal fatto che si tratti di uno sport di squadra, la nostra palla a spicchi non ha quasi mai offerto al grande pubblico, ai media ed agli sponsor dei personaggi capaci di catalizzare l’attenzione.

Siamo forse l’unico paese che, anche in questi ultimi 30/40 anni di basket sempre più globale, non sia mai riuscito a produrre un giocatore nell’elite mondiale o almeno un personaggio straordinario capace di uscire dal semplice recinto degli adepti della palla a spicchi.

L’ultimo successo collettivo è del 1999 con la nazionale vittoriosa agli Europei con successivamente l’exploit dell’argento Olimpico del 2004 quando l’Italia batté Team USA, con i tiri “ignoranti” di Basile, ma con una squadra coinvolgente dal punto di vista emotivo, ma senza punte e senza stelle di primissima grandezza, come è nella nostra tradizione.

Diversamente da quanto avvenne con la pallavolo maschile, che dominò per un decennio, ma con alcuni dei più grand giocatori mondiali di tutti i tempi (Zorzi, Lucchetta, Bernardi), portando a questo sport, in strettissima competizione con il basket per questioni fisiche e morfologiche, una massa di giovani ragazzi e ragazze, doppiando letteralmente da quegli anni i tesserati del basket.

Perché se è vero che il basket è uno sport globale e che fin dagli anni ‘80 “I wanna be like Mike” significava identificarsi con Michael Jordan e che oggi per un ragazzino gli idoli sono quelli d’oltreoceano, è anche vero che in questi ultimi 40 anni gli spagnoli hanno avuto i fratelli Gasol, i tedeschi Nowitzki, i francesi Parker e oggi Wembanyama, gli sloveni Doncic, i serbi Jokic e prima di lui Drazen Petrovic, uomini che nel loro paese sono o sono stati capaci di spostare folle tanto quanto le star del calcio o degli altri sport principali delle rispettive nazioni.

L’assenza di superstar nel basket italiano

Restando anche solamente confinati temporalmente nel mondo che conosce meglio la generazione Z e una parte dei millennials, il basket italiano oggi può contare su pochissime punte di diamante, peraltro molto avanti con gli anni.

I grandi personaggi del nostro basket, giocatori e uomini di grandissimo spessore, si chiamano Datome, che ha smesso da poco, Belinelli, l’unico con un anello al dito ma ormai vicino ai 40 anni, Gallinari, 15 anni di NBA di buonissimo livello senza mai eccellere e senza mai vincere, Melli, il capitano della nazionale e della squadra più titolata d’Italia, entrambe squadre che però non vincono a livello internazionale da tempi immemorabili, fino a Fontecchio, finito proprio durante la redazione di quest’articolo nella squadra peggiore della NBA (Detroit Pistons) dopo una promettente prima parte di stagione agli Utah Jazz. Non si vedono sui media, non appaiono da nessuna parte, gli sponsor e i grandi investitori pubblicitari non si interessano a loro per le loro campagne di comunicazione, sintomo di un bassissimo appeal verso il grande pubblico.

Difficile immaginare uno stravolgimento di questo scarsissimo appeal del nostro basket, causato anche dalla sua atavica incapacità di produrre stelle di prima grandezza, capaci di eccellere sui parquets e di essere contestualmente anche modelli a cui ispirarsi e trascinatori dell’interesse del grande pubblico verso il basket.

Servirebbe un exploit inatteso, una Eurolega eroicamente conquistata, un anello NBA da improbabile protagonista, un’Olimpiade come nel 2004, con qualche performance individuale epica per costruire uno storytelling in grado di riportare il basket e qualcuno dei suoi protagonisti sulle prime pagine dei giornali.

Altrimenti il nostro sport in Italia continuerà ad avere, almeno all’interno dei nostri confini nazionali, come personaggio più riconoscibile dal grande pubblico qualche telecronista o storyteller di grandissimo livello. O il mitico coach Dan Peterson con i suoi 88 anni: non un buon segno per il futuro del nostro sport, sebbene il coach resti sempre ancora oggi, quando il sole spacca a Chattanooga, «il numero 1» in quanto a capacità di coinvolgimento e divulgazione.

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