Accanto alla figura dello scrittore e riformatore sloveno Primoz Trubar, sulla moneta da un euro slovena è impressa la dicitura “Stati inu obstati”. Le possibili traduzioni sono due: “alzarsi ed esistere” o “rimanere eretti e persistere”. La Slovenia che ha vinto Eurobasket 2017 si rispecchia in entrambe queste espressioni. Si è alzata ed è esistita, semplicemente perché ha (di)mostrato al mondo che anche un paese di dimensioni tanto ridotte e di risorse, di conseguenza, fatalmente limitate può ambire a raggiungere livelli di eccellenza. Allo stesso tempo è però rimasta eretta nonostante le sconfitte subite nel corso degli anni e gli ostacoli sorti durante la manifestazione stessa, persistendo nel proprio obiettivo fino a raggiungere il trofeo.
Quando si parla di risorse limitate non è retorica da “vittoria contro tutto e contro tutti”: la Slovenia ha due milioni di abitanti, per intenderci meno di quanti brulichino nell’intera città di Roma. Come sia possibile che uno Stato tanto piccolo sia riuscito a mettere in fila Serbia, Spagna e Russia, e ancora prima la Francia e la Grecia rimane dunque un mistero non facilmente risolvibile.
Anzi, ripensandoci forse lo è, e per giunta di una banalità inaudita: Goran Dragic, Luka Doncic, Gasper Vidmar, Klemen Prepelic, Anthony Randolph e gli altri artefici della prima vittoria in assoluto di una squadra sportiva in campo internazionale, dopo l’indipendenza raggiunta nel 1992 sono, sic et sempliciter, buonissimi giocatori che in quel mese di partite hanno costruito un gruppo coeso attorno a un vecchio play e una giovane guardia-ala.
Per chi volesse poi approfondire in maniera più accurata racconti e aneddoti sulla storia e la cultura slovena ci si può rivolgere alla figura di Sergio Tavcar, che tanto sul suo blog personale quanto nella sua produzione editoriale (“Il basket, la Jugoslavia e un telecronista” resta un must per gli appassionati della palla a spicchi, così come è da scoprire “Lo sport e il confine del mondo”) ha tratteggiato mirabilmente le vicende accadute sotto al Tricorno prima e dopo la tanto agognata indipendenza.
Quella che leggerete è dunque una serie di articoli che ripercorrerà quella vittoria partita per partita, quarto per quarto. Vi starete chiedendo perché farlo a tre anni di distanza, e la risposta è in questo senso è articolata: perché nel frattempo Luka Doncic è andato a miracol mostrare in NBA, raccogliendo il testimone da un altro grande europeo come Dirk Nowitzki; perché Igor Kokoskov, il coach serbo emigrato da vent’anni negli Stati Uniti che ha fatto vincere il titolo alla Slovenia, nel frattempo è diventato il primo straniero di sempre a dirigere una squadra NBA, pur se la stagione 2018/2019 alla fine con i Suns non si è rivelata soddisfacente; perché Goran Dragic nei playoff sui generis giocati quest’anno è stato un fattore per Miami Heat, imprevedibilmente finalisti contro i Los Angeles Lakers; perché sul prossimo Eurobasket si rannuvolano dubbi a causa della situazione mondiale, quindi gli sloveni potrebbero anche rimanere campioni più a lungo di quanto preventivato.
A tutte queste motivazioni di carattere precipuamente cestistico, inerenti dunque alla nostra attività giornalistica, se ne aggiungono altre più personali: chi scrive, la sera della finale di Istanbul, non ha problemi ad ammettere che teneva per la Serbia, da sempre un punto di riferimento per il lavoro nei settori giovanili e la capacità di lanciare giovani a getto continuo. Nel frattempo, però un viaggio in Slovenia e la scoperta di un paese a misura d’uomo, con una capitale orientata al verde in cui ancora si respira la tanto cara atmosfera mitteleuropea dell’ex-impero asburgico ha reso tale paese il preferito dello stesso scrivente.
Questo è prima di tutto un omaggio alla Slovenia, e a come ci ha ricordato che nella botte piccola spesso riposa il vino migliore, metafora tutt’altro che fuori luogo per un paese che ha una tradizione enologica di qualità e quantità non marginale. Soprattutto, però è una storia che merita di essere raccontata.